II. La vendetta domiciliare
1. La lunga marcia verso la libera difesa domiciliare.
La sovranità punitiva della vittima dell’aggressione domiciliare, desunta dalle dichiarazioni programmatiche del governo del cambiamento e dall’azione politica svolta dalle due forze della maggioranza, va ora esaminata nella concreta articolazione delle scelte normative. L’immaginario populista traccia una linea che riserva alla reazione del titolare dello spazio abitativo o di lavoro l’uso della forza diretta a contrastare l’attacco al suo domicilio. Peraltro, il passaggio dal cielo della progettualità al terreno dei concreti congegni giuridici, volti a creare lo scudo per la reazione difensiva dell’aggredito, ha fatto nascere nella politica populista uno spinoso cespuglio di interrogativi sugli strumenti concettuali e sulle strade da privilegiare nella riscrittura delle norme. Si doveva infatti affondare il bisturi in una materia, quella condensata nelle disposizioni dell’art. 52 del codice penale, che è imperniata sul delicatissimo equilibrio tra effettività dell’autotutela dell’aggredito e riconoscimento in capo all’aggressore del diritto alla dignità di essere umano.
Proprio le oscillazioni della bilancia – bollata come in costante squilibrio giurisprudenziale dagli esponenti del pensiero populista – sono state al centro di una critica demolitrice che nel Contratto per il nuovo governo reclamava «la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione o nel proprio luogo di lavoro»1. Nel programma elettorale della Lega si proclamava poi solennemente, nel capitolo dedicato alla sicurezza, che «è diritto dei cittadini di difendersi in casa propria, senza eccezione alcuna»2, precisando che la nuova difesa domiciliare avrebbe dovuto essere «ancorata solo a parametri oggettivi e non opinabili da parte della magistratura, come da nostra proposta di legge già depositata»3. Il rinvio era alla proposta presentata dall’on. Nicola Molteni e altri in un primo testo del 20154.
Non c’è dubbio quindi che il governo Lega-5 Stelle – pur in qualche modo frenato da una posizione più morbida quale quella espressa dal programma del Movimento di Di Maio col limitarsi a segnalare sul punto solo l’esistenza di «gravi zone d’ombra»5 – si riprometteva di togliere la bilancia della legittima difesa non solo dalle mani dei giudici, ma anche da quelle della vittima dell’aggressione. In realtà, l’obiettivo che si voleva raggiungere era quello di una causa di giustificazione della condotta illecita, costruita come difesa privata in forma libera, affrancata da tutti i limiti che nella tradizione giuridica europea autorizzano a ritenerla legittima.
Di fronte al tenace impegno volto a dare rilievo a una condotta difensiva «a briglia sciolta», sul piano della riflessione strettamente giuridica si è manifestato un orientamento che ha dipinto questa meta come una mission impossibile, per inidoneità degli strumenti normativi delineati al fine di dare concretezza all’idea di una riserva di penalità in favore del privato. La voce autorevole dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp) ha ammonito l’opinione pubblica a non illudersi, sulla base degli slogan, che fosse davvero realizzabile una riforma capace di garantire una sorta di licenza di uccidere della quale avrebbero dovuto fruire i cittadini che si fossero trovati a dover reagire con le armi a una intrusione violenta nella loro casa o nel luogo di lavoro. Al di là delle presunzioni coniate da chi voleva azzerare i limiti fissati attualmente per i modi di reazione dell’aggredito, c’era secondo i penalisti accademici italiani un nucleo granitico nell’art. 52 c.p. che non poteva essere scalfito dalle alchimie riformiste e che manteneva fermi come pilastri indistruttibili i requisiti della difesa necessitata e della proporzionalità tra reazione in autotutela e offesa arrecata dall’aggressore6.
L’intervento dei penalisti accademici è stato certamente prezioso al fine di smitizzare una portata taumaturgica della riforma tale da rimuovere persino il rischio di un’indagine penale a carico di chi reagisca con le armi a un attacco contro il suo domicilio. Anche la più rocciosa normativa di favore non sarebbe infatti mai stata capace di impedire alla magistratura di sottoporre a investigazioni l’autore materiale di una condotta di omicidio o lesioni personali, anche fuori dei casi ipotizzati dal documento della Aipdp. Infatti, concepita la condotta reattiva come una esimente, sarebbe sempre stato necessario in sede processuale vagliarne gli elementi di fattispecie che assicurano la non punibilità.
Sul piano giuridico, ciò che più importa non è tanto dimostrare che il riformismo leghista ha usato un falso argomento per accreditarsi davanti al suo elettorato quando ripeteva che «chi si difende non può subire la gogna e l’agonia di un processo»7 ovvero che chi si è difeso per necessità «non può subire tre gradi di giudizio»8. Il problema di fondo da affrontare in questa sede investe la vera natura dell’esimente ideata dalla componente leghista dell’attuale governo e divenuta l’obiettivo del programma dell’esecutivo gialloverde. In altri termini, ciò che interessa chiarire è se la riforma realizzata con la legge n. 36/2019 soddisfa davvero l’obiettivo leghista di raggiungere quella meta della sovranità punitiva della vittima che emerge dall’analisi fin qui svolta.
Per dare una risposta esauriente a questa domanda, occorre volgere lo sguardo al succedersi delle proposte di legge che hanno interessato il tema della difesa domiciliare negli ultimi decenni, sintetizzandolo in tre momenti cruciali.
Il primo è quello segnato dalla novella varata con la legge 13 febbraio 2006, n. 59 che, su iniziativa del centrodestra, ha ridisegnato l’art. 52 c.p. introducendo nello schema della legittima difesa un raccordo con la violazione di domicilio, così da dar vita a una duplice presunzione di proporzionalità in relazione all’uso delle armi da parte del titolare di un domicilio al fine di difendere la propria o la altrui incolumità ovvero i beni propri o altrui quando non c’è desistenza e vi è pericolo di aggressione alla persona che abita nel luogo (art. 52 c. 2 c.p.). È in forza di questo intervento legislativo che compare nel codice, per la prima volta, una tutela penale del domicilio in chiave di esimente tipizzata, in modo da offrire alla reazione difensiva una cornice sottratta alle temute manipolazioni restrittive da parte dei giudici in sede interpretativa.
La ratio dell’ampliamento dell’area di non punibilità era del resto dichiaratamente alla base della proposta di riforma avanzata dalla Lega, già a quel tempo impegnata sul fronte della legittima difesa.
Questo primo passo del riformismo populista è però rimasto privo di un concreto sbocco nel diritto vivente. A più di dieci anni di distanza dall’entrata in vigore della legittima difesa domiciliare non proporzionata il bilancio circa la vis innovativa della norma appariva infatti decisamente sconfortante per i suoi patrocinatori. La cultura penalistica che si è subito dedicata a fissare l’ambito operativo della presunzione di proporzionalità ha registrato un saldo zero nell’ampliamento dei confini della scriminante9, in conseguenza della paralisi del novum dovuta alla persistente efficacia di uno dei due pilastri dell’istituto rimasti integri nel dettato dell’art. 52 c. 1 c.p. In un quadro normativo in cui la condotta difensiva non proporzionata è stata delineata dal legislatore facendo salvo il requisito della necessità, che comporta l’inevitabilità della reazione, il proposito di allargare l’area della non punibilità era destinato a fallire. L’autodifesa necessitata impone infatti l’uso del mezzo di reazione meno lesivo per raggiungere il risultato che procura il minor danno all’aggressore10.
La portata complessiva della riforma del 2006 si può quindi definire nei termini dell’introduzione di una presunzione semplice di proporzionalità con riguardo alla difesa dell’incolumità della persona e dei beni patrimoniali quando sussista il pericolo di un’aggressione alla vita o all’integrità fisica di chi abita un domicilio violato da un’intrusione. L’operatività della presunzione poteva essere superata dalla prova che attestasse non solo la mancanza in concreto degli elementi costitutivi della scriminante (pericolo di aggressione alla persona), ma anche l’insussistenza del requisito della inevitabilità della condotta difensiva posta in essere dall’aggredito. In questo senso si era del resto orientata la giurisprudenza che, da un lato, aveva rilevato come il secondo comma dell’art. 52 c.p. avesse mantenuto fermi i presupposti dell’attualità dell’offesa e dell’inevitabilità dell’uso delle armi11, dall’altro, aveva ribadito come anche dopo la riforma del 2006 il requisito della proporzionalità dovesse avere riscontri in concreto per quanto attiene all’uso dell’arma per difendere l’incolumità personale o fronteggiare un pericolo di aggressione, al punto da rendere possibile configurare un eccesso nella legittima difesa quando il titolare dello spazio domiciliare colpisse dalla finestra della sua abitazione il ladro in fuga12.
Dopo l’infruttuosa riforma del 2006, c’è da registrare nella lunga marcia verso la libera difesa domiciliare il disegno di legge n. 3785 approvato dalla Camera dei deputati il 4 maggio 2017, anche con il voto del Partito democratico. È questo l’approdo che segna una battuta d’arresto della linea populista protesa a estendere a dismisura la non punibilità per l’esercizio della difesa domiciliare. Veniva infatti ribadito, in contrasto con la prospettiva leghista, l’impianto tradizionale che restringeva i confini della causa di giustificazione, pur recependo la specialità della tutela della domus con l’uso di una presunzione di ispirazione populista.
La vera novità di questo testo non era però racchiusa nell’art. 52 c. 2 c.p., riformulato in modo da qualificare come legittima difesa, nei casi di violazione di domicilio, la reazione posta in essere in tempo di notte o contro l’intruso penetrato con violenza, minaccia o inganno, perché la condotta difensiva scriminata era subordinata al rispetto dei tradizionali limiti previsti dal primo comma dello stesso articolo. La proposta approvata dalla Camera battezzava infatti come difesa domiciliare «speciale» una scriminante rigorosamente racchiusa entro i confini della necessità, della attualità del pericolo e della proporzionalità13.
Il disegno di legge n. 3785 rivelava invece la sua autentica ragion d’essere nella creazione di una nuova scusante, inserita impropriamente nella disciplina dell’errore (art. 59 c.p.). Si escludeva la colpa dell’autore della reazione difensiva là dove l’errore fosse causato dal grave turbamento psichico generato da situazioni tali da integrare un pericolo attuale per la persona o per la sua libertà individua...