Storia intima della Grande guerra
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Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte

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Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte

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Questo libro non è per noi. Siamo degli intrusi noi che oggi sbirciamo tra le lettere e i diari dei soldati. I loro testi erano infatti parte di una comunicazione intima, chiusa all'interno della cerchia famigliare. Se gli ufficiali colti, quando scrivono alla famiglia, scrivono un po' anche per i posteri, chi scrive queste pagine è per lo più un soldato subalterno (che prima di essere chiamato alla guerra faceva l'operaio, il contadino, l'artigiano), con l'unica ambizione di rivolgersi ai suoi famigliari, per difendere quel ponte comunicativo che il conflitto rischia di interrompere: «Ti raccomando di scrivermi presto onde potermi rallegrare un poco, perché la mia vita di trincea è peggiore a quella dei nostri porci». Si tratta di una ricchissima documentazione (che quasi sempre si sottrae alle norme ortografiche e sintattiche, e per questo può sembrare ingovernabile) raccolta presso il Museo storico del Trentino, e a lungo esclusa dal racconto nazionale, in quanto considerata marginale, se non conflittuale: gli autori sono infatti «tutti» gli italiani, anche quelli che un secolo fa erano sudditi dell'Austria: trentini, giuliani, triestini. L'esigenza di ristabilire il contatto con la famiglia a volte è minacciata dall'impossibilità di comprendere: chi è a casa non coglie una realtà per sua natura indicibile, e chi è al fronte non concepisce atteggiamenti che appaiono irrispettosi, superficiali: «Capirai a noi qua si divora la rabbia nel sentire che in Italia fanno delle feste per la presa di gorizzia e suonare le campane si dovrebbero vergognare». Pubblicata per la prima volta nel 2014 e insignita nel 2015 del prestigioso premio internazionale The Bridge, questa straordinaria raccolta di voci della Grande guerra torna ora con una nuova prefazione, in cui tra l'altro l'autore traccia un bilancio delle celebrazioni del centenario, tra memorie e contromemorie.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868439682
Argomento
History
Categoria
World History

Grande guerra e popolo: rappresentazioni, voci, scritture

1. La semantica del sacrificio.

Dapprima e per lungo tempo è solo il ceto borghese medio alto quello che si racconta pubblicamente, che ricorda i propri figli caduti nel corso del conflitto e li richiama in vita attraverso l’edizione delle loro private scritture. Se la commemorazione dei singoli giovani ufficiali caduti ha già inizio durante la guerra, è negli anni immediatamente successivi che essa prende corpo, nell’ambito delle campagne monumentali («una montante marea di pietra»)1, attraverso centinaia di opuscoli curati dai famigliari che alimentano un culto che si situa, come scrive Oliver Janz, «nel punto di intersezione tra sfera pubblica e privata, a metà strada tra lutto individuale e significazione patriottica, tra famiglia e nazione, superamento esistenziale della crisi e strumentalizzazione politica»2. Accanto a profili biografici, elogi funebri, testi commemorativi di amici e congiunti, in molti casi gli opuscoli pubblicano anche una scelta di lettere del caduto indirizzate ai genitori, ai fratelli o agli amici più intimi, offrendo nell’insieme un primo grande corpus epistolare con funzioni celebrative e testamentarie. Le lettere dei defunti sono chiamate a testimoniare la morte come «sacrificio consapevole se non addirittura gioioso», «eroica vittoria su se stessi», «dedizione», espressione di più alta moralità3. In definitiva la pubblicazione delle lettere «richiama i morti in vita e fornisce dall’aldilà una voce apportatrice di consolazione per i vivi e, con tutta probabilità, ne riduce anche i sensi di colpa»4. Da questi opuscoli, che mettono in circolazione migliaia di lettere e di brani diaristici, intellettuali, storici e funzionari di regime prelevano i testi esemplari che andranno a formare veri e propri «monumenti di carta».
La raccolta di Giuseppe Prezzolini, intellettuale di punta, nazionalista e interventista, conclusa alla fine del 1917 e pubblicata nel corso del 1918 (ma poi interamente riscritta nel 1921)5, non solo è una delle prime antologie ma è anche quella che costruisce e consacra un canone composto dalle opere degli ufficiali-scrittori e dalle lettere «ultime» (lettere-testamento, come si è detto) di un pugno di ufficiali, giovani e meno giovani, già appassionati interventisti e poi volontari, caduti nel corso del conflitto. Troviamo già qui le pagine più note della letteratura di guerra, quelle di Fernando Agnoletti, Corrado Alvaro, Antonio Baldini, Armando Bartolini, Giovanni Bellini, Giosuè Borsi, Franco Ciarlantini, Piero Jahier, Arturo Onofri, Alfredo Panzini, Mario Puccini, Umberto Saba, Renato Serra, Scipio Slataper, Ardengo Soffici, Carlo e Giani Stuparich, Giuseppe Ungaretti (ma dissimulati troviamo anche testi di Emilio Cecchi e di Renato Simoni)6. Dal canone sono esclusi per ragioni opposte gli scrittori più estremi, D’Annunzio, Marinetti, Malaparte: omissioni che si possono comprendere in un’antologia dichiaratamente destinata alle scuole. «Ho cercato gli scrittori più sobri – scrive Prezzolini – più aderenti alla realtà, più freschi; e in essi le scritture più sobrie, più aderenti alla realtà, più fresche»7.
L’intento educativo non tollera la retorica, l’enfasi, l’eccitazione, l’imprecisione, l’abuso delle parole. Ai giovani, questo il senso dell’antologia, va insegnata la «dolorosa necessità» della guerra, che non è – afferma ancora Prezzolini – né barbarie, né ferocia primitiva, ma «capacità di arrischiare e di donare l’esistenza per una idealità superiore». La guerra è scuola di vita: «Il coraggio di guerra si trasmuta in coraggio di pace, il rischio della battaglia in altezza d’animo che osa avventurarsi nella vita. Le lotte per la bandiera del reggimento diventano le lotte per la bandiera della propria parte»8.
I racconti e le poesie di guerra, quelli scelti, quelli del canone – continua Prezzolini – possono inoltre trasmettere in modo preciso il carattere «prosastico» della guerra moderna: «Insista l’insegnante sul carattere del nuovo eroismo, non più fatto di bravate insolenti, di avventure individuali, di improvvisazioni furbe. Faccia vedere l’eroismo della costanza e del lavoro, la forza del combattente fermo sotto il bombardamento, il calcolo del comandante nel combinare l’azione delle artiglierie, delle fanterie, dei velivoli»9. La guerra di Prezzolini è sensata, razionale, morale: «In essa il nemico si spoglia del suo carattere contingente di individuo per assumere quello ideale di ostacolo al raggiungimento di un fine superiore»10.
Ai giovani (ai giovani fascisti) è dedicata anche la grande raccolta di lettere curata da Antonio Monti e pubblicata nel 193511. Scelte fra quelle conservate nell’Archivio della guerra di Milano (Monti ne era il direttore), le lettere danno voce a poco meno di 300 ufficiali, per lo più giovani tra i 17 e i 24 anni e di grado inferiore (molti aspiranti, sottotenenti e tenenti, pochissimi i capitani), tutti caduti nel corso del conflitto. Il contesto celebrativo dell’operazione non può nascondere le dimensioni di un «massacro generazionale»12 che aveva colpito, in particolare, il corpo ristretto degli ufficiali di complemento. Scrive a questo proposito Marco Mondini: «Destinati soprattutto ai reggimenti di fanteria in qualità di comandanti di plotone o di compagnia […], i borghesi con le spalline furono in effetti le principali vittime della logorante quotidianità delle trincee e vennero massacrati durante i periodici assalti contro le trincee nemiche, segnando una mortalità cronicamente superiore a quella dei soldati semplici e straordinariamente maggiore di quella dei colleghi di carriera o delle altre armi»13.
Ci troviamo dunque di fronte, come non manca di ripetere Monti nella sua breve prefazione, a lettere-testamento, finalizzate a sostenere la necessità, la bontà, anzi la nobiltà della causa italiana. Le parole d’ordine con cui i giovani ufficiali vanno alla morte sono quelle ripetitive e intercambiabili dei vari interventismi: la patria, il risveglio nazionale, l’antico diritto, il diritto delle nazionalità, l’Italia più grande, la vera Unità d’Italia, i martiri del Risorgimento, il compimento dei nostri voti, il santo ideale, la barbarie tedesca, i barbari che opprimono i nostri fratelli, la prepotenza brutale dei tedeschi, i tedeschi padroni del mondo, il secolare nemico14.
Eppure, nonostante la rigida selezione e le manipolazioni cui vengono sottoposte (sono testi largamente amputati) con il fine di farle rientrare in un corpus monocorde, non sono del tutto lettere seriali, non offrono una visione del tutto omogenea della guerra. Capita che accanto alla guerra-festa (tutto un furoreggiare eroico, un fare guascone e audace, un darsi spontaneo e generoso per la patria) si trovi anche la guerra-orrore delle trincee e della terra di nessuno cosparsa di cadaveri. «Questi monti – scrive il capitano Alberto Cucchi – sono ora sparsi di croci e d’indumenti insanguinati e non è raro il caso di vedere spuntare presso una croce una mano annerita o una testa cogli occhi mangiati in parte dai corvi. E le croci aumentano, e l’aria s’appesta; ogni angolo è un ricordo doloroso. Ognuno di noi ha un grande spirito di rassegnazione e si tiene pronto, ogni momento, ad essere soppresso»15.
Lugubre e angoscioso anche il paesaggio descritto dal sottotenente Aldo Ravasini: «Un razzo improvviso rompe fulmineo il tetro lume lunare, e guizza serpentino, brillante nel cielo a scrutare lo spazio. Tutte le cose per un attimo si accendono di una sola luce, bianca e penetrante, che pare destarle, farle rivivere. I cadaveri, che la tarda pietà non ha potuto raccogliere, sembrano sollevarsi come una protesta, verso la luce importuna che li turba nello stupore del sogno eterno e per le conche vaste come anfiteatri i bianchi sassi dei sepolcri immaginari appaiono come un popolo di fantasmi»16.
Troviamo lo sconforto e lo spaesamento di chi aveva sognato la guerra «bella» («Siamo dentro una specie di buca o caverna, costruita con pietrame, rottami, sacchi di terra, tronchi di alberi»)17, la difficile prova della guerra combattuta in alta montagna («Imprecazioni, parole di lamento e d’incoraggiamento si confondevano con i fischi furiosi della tormenta e andavano a perdersi lontano, lontano…»)18, la cocente nostalgia per la famiglia perduta.
Ma questo monumento epistolare eretto, lo ripetiamo, a fini celebrativi mette soprattutto in scena un’inquietante, ossessiva passione per la morte (per la propria morte): la guerra considerata «vera» vita, piena realizzazione dell’esistenza, diventa occasione per una morte che può dare un senso alla vita stessa19.
Scrive il sottotenente Pietro Bartoletti: «il mio fior dei fiori sarà quello che una palla mi inciderà nella carne ardente del fuoco dell’anima mia, per il desiderio delle stigmate sante: la vita è sacrificio; la guerra è vita, quindi morte è liberazione; quindi la guerra è sacrificio e liberazione insieme. Se tu torni salvo dalla guerra, vuol dire che non hai ancora sofferto abbastanza da esser degno della felicità»20. Non diversamente scrive Giosuè Borsi, celebrato poeta, santo ed eroe21, in una delle lettere alla madre: «Tutto mi è dunque propizio, tutto mi arride per fare una morte fausta e bella, il tempo, il luogo, la stagione, l’occasione, l’età. Non potrei meglio coronare la mia vita; sento tutta la compiacenza di farne un uso buono e generoso. Non piangere per me, mamma, se è scritto lassù che io debba morire. Non piangere, perché tu piangeresti la mia felicità. Io non debbo esser pianto, ma invidiato»22.
Ideali nazionali e fede religiosa si fondono in una interrelazione di codici. «Benedite, carissimi, a questa guerra – scrive il sottotenente Annibale Calini nella sua ultima lettera-testamento. – Senza di essa sarei forse miseramente finito malato di mente e di corpo. Come il fuoco essa mi ha distrutto, ma ha coronato di luce la mia fine, ma mi ha purificato…»23.
Molte delle lettere pubblicate da Antonio Monti si ritrovano anche nell’opera, di tutt’altro impegno e spessore, di Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra24. Sottratte alla cornice nazionalista e celebrativa in cui erano state inserite, esse insieme ad altre compongono un quadro diverso della guerra, più risorgimentale, più mazziniano: «una guerra del tutto opposta all’ignobile retorica dei gazzettieri ed anche alquanto diversa dalla pura negatività del romanzo realistico, una guerra civica, senza canti, faticosa, dolorosa ma superata colla tenacia e la virilità, appoggiata ad un puro senso del dovere che è la nota dominante nei carteggi dei migliori». Così scrive alla famiglia Vittorio Foa che legge in carcere «il libro molto bello» di Omodeo concludendo che la guerra italiana vi appare «proprio come guerra della borghesia, ma non nel senso comunemente attribuito a questo concetto dai materialisti della storia, bensì come di guerra sorretta da quegli ideali patriottici e nazionali che erano propri della borghesia intellettuale che si riteneva erede della generazione del Risorgimento e capace di far progredire indefinitivamente il principio nazionale-liberale senza convertirlo nel suo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Scritture di guerra: la biblioteca del centenario. Prefazione alla seconda edizione
  6. Premessa
  7. Grande guerra e popolo: rappresentazioni, voci, scritture
  8. Scritture di guerra: un’antologia
  9. I. Italiani sul fronte russo
  10. II. La benedizione
  11. III. Oltre il confine
  12. IV. Il rombo fatale
  13. V. Macchine contro zappatori
  14. VI. L’enorme frantoio
  15. VII. L’assalto
  16. VIII. Uccidere il nemico
  17. IX. Il Grande Hotel della Paura
  18. X. Sul fronte dell’inverno infinito
  19. XI. Giuseppe e Maria
  20. XII. Una penosa e appassionata nostalgia
  21. XIII. La rivolta morale
  22. XIV. Fughe impossibili
  23. Apparati