Dai fascismi ai populismi
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Dai fascismi ai populismi

Storia, politica e demagogia nel mondo attuale

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Storia, politica e demagogia nel mondo attuale

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Cos'è il fascismo? E il populismo? Che rapporto hanno dal punto di vista storico e teorico? Possiamo definire fascisti Donald Trump o Matteo Salvini, oppure bollare come populisti politici di destra o di sinistra come Hugo Chávez e Marine Le Pen? In una sintesi di rara efficacia e completezza, lo storico argentino Federico Finchelstein ripercorre la vicenda di questi concetti per rispondere a interrogativi divenuti quanto mai urgenti oggi che, con l'arrivo al potere dei movimenti populisti, è diffuso il timore di una degenerazione autoritaria della democrazia. «La storia che porta dal fascismo al populismo è essenziale per comprendere i processi politici a noi più vicini», avverte Finchelstein nell'introduzione scritta appositamente per l'edizione italiana. Fascismo e populismo, infatti, pur avendo una storia comune, hanno seguito due traiettorie diverse. Il fascismo è stato una forma di dittatura politica, spesso emersa dall'interno della democrazia con l'intento di annientarla. Il populismo invece è scaturito da altre esperienze autoritarie e nella maggior parte dei casi ha alterato i sistemi democratici, senza quasi mai arrivare a distruggerli. Il populismo contemporaneo – in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina – è dunque una forma autoritaria di democrazia, che prospera in contesti di crisi politica, reale o percepita: pone un problema al contempo di scarsa rappresentanza politica, che induce la gente a ritenere che le proprie preoccupazioni siano ignorate dai governi, e di crescente disuguaglianza economica e sociale, che fomenta posizioni politiche radicali e nazionaliste. Con un approccio che fa dialogare passato e presente, Nord e Sud del mondo, Europa e Stati Uniti, l'analisi di Finchelstein ha il merito di guardare al fenomeno populista intrecciando i piani nazionale, transnazionale e internazionale, in una prospettiva storica ma avendo come orizzonte di riferimento il presente.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868439705
Argomento
Historia

I. Il fascismo nella storia

Il termine «fascismo» deriva da «fascio», parola usata con riferimento a un raggruppamento politico. Il fascismo fa riferimento anche visivamente e storicamente a un simbolo di autorità della Roma imperiale. Come movimento politico moderno viene fondato a Milano nel 1919 da Benito Mussolini. Sia il termine «fascismo» sia l’entità politica che designa nacquero quindi in Italia, ma le origini ideologiche del movimento ne precedono il nome. Poiché le sue caratteristiche antidemocratiche erano globali ed esistevano sotto diversi nomi in vari contesti nazionali, i suoi effetti furono allo stesso tempo nazionali e transnazionali. La consapevolezza che il fascismo nacque come una contestazione ideologica su scala globale del mondo liberale antecedente alla prima guerra mondiale, prima ancora di emergere come movimento, è fondamentale per comprenderlo adeguatamente. L’ideologia radicalmente nazionalista che lo rese possibile faceva parte di una più vasta reazione intellettuale all’Illuminismo1, di una tradizione allo stesso tempo europea e «non europea». Dal punto di vista ideologico, il fascismo fu concepito come reazione alle rivoluzioni progressiste del lungo XIX secolo (che va dalla Rivoluzione americana del 1776, quella francese del 1789 e quelle latinoamericane nel secondo decennio dell’Ottocento alla Comune di Parigi del 1871 e alla guerra d’indipendenza cubana, che iniziò nel 1895). Il fascismo rappresentò un’offensiva controrivoluzionaria contro l’uguaglianza politica ed economica, la tolleranza e la libertà.
Radicato nell’ideologia anti-illuministica, non fu però solo una reazione alla politica liberale e un rifiuto della democrazia. Non si contrappose ad esempio all’economia di mercato, e spesso propugnò un’organizzazione di stampo corporativo mirante a promuovere l’accumulazione del capitale. Altrettanto importante è il fatto che fosse una filosofia dell’azione politica che attribuiva un valore assoluto all’esercizio della violenza in campo politico, orientamento questo che fu rafforzato da uno degli esiti radicali dell’Illuminismo: il comunismo sovietico. Il trionfo del bolscevismo nel 1917 fu sia contrastato sia emulato a livello globale. Presentandosi come antitetici ai comunisti, i fascisti si approfittarono dei vasti fenomeni di rifiuto e di paura della rivoluzione sociale in atto all’epoca, incorporandone al contempo alcuni elementi.
Ma ciò che in definitiva fornì il contesto di origine del fascismo fu, più che l’esperimento sovietico, l’avvento di una nuova epoca di guerra totale. L’ideologia fascista emerse infatti per la prima volta nelle trincee della prima guerra mondiale. Come sostiene lo storico Angelo Ventrone, la guerra costituì un vero e proprio serbatoio da cui l’ideologia fascista poté attingere2. Questo ideale guerresco, e il connesso concetto di militarizzazione della politica, trascesero i confini europei e si diffusero anche in paesi lontani e diversi come l’India, l’Iraq e il Perù. Adolf Hitler e Benito Mussolini dichiararono apertamente che il conflitto mondiale aveva rappresentato la loro più significativa esperienza personale, e dopo la sua conclusione questi due ex soldati ritennero che la violenza e la guerra fossero componenti di primaria importanza della politica. Quando questa ideologia centrata sulla violenza si fuse col nazionalismo di estrema destra, l’imperialismo e le tendenze antiparlamentari non marxiste del sindacalismo rivoluzionario di sinistra, il fascismo si cristallizzò nella forma in cui oggi lo conosciamo.
Il momento in cui avvenne questa cristallizzazione non riguardò esclusivamente l’Italia o l’Europa. In Argentina, intellettuali già di orientamento socialista come il poeta Leopoldo Lugones capirono ben presto le implicazioni politiche di tale fusione. Il fascismo assunse forme diverse nei vari contesti nazionali. Come sostenne il generale Eoin O’Duffy, leader delle camicie azzurre irlandesi, la storia recente del fascismo italiano mostrava una «straordinaria somiglianza» con la situazione irlandese: tuttavia, aggiungeva, «ciò non vuol dire che l’Irlanda possa essere salvata solo dal fascismo, poiché saremmo dei pazzi se chiudessimo gli occhi davanti al fatto che dietro il fascismo in Italia, e come motivo del suo fenomenale successo, c’è lo stesso spirito che oggi fa del movimento delle camicie azzurre il maggiore movimento politico che l’Irlanda abbia mai conosciuto»3. I fascisti argentini ammiravano le camicie azzurre irlandesi, ma le consideravano membri della loro stessa famiglia, non modelli da copiare. Condividere lo stesso spirito non significava dover imitare l’altro; come sostenne il fascista portoghese João Ameal, il fascismo italiano così come esisteva in Italia non poteva essere riprodotto al di fuori di quel paese. Il fascismo portoghese non poteva essere una sua «sterile copia». Il fascismo aveva le sue radici in ogni singola nazione, ma era connesso in una prospettiva rivoluzionaria transnazionale: «Non si tratta di una riproduzione, ma di un’equivalenza. Gli italiani hanno fatto la loro rivoluzione d’ordine. Noi stiamo dando avvio alla nostra»4.
Come Lugones e Ameal, il fascista brasiliano Miguel Reale vedeva nel fascismo l’espressione di un’ideologia universale di estrema destra: «Dopo la Grande guerra, in Brasile come in Cina, in India come in Francia, non vi è spazio per un nazionalismo senza socialismo. In altre parole, non vi è spazio per un nazionalismo privo degli elementi di una profonda rivoluzione sociale». Come i loro omologhi a livello transnazionale, i fascisti brasiliani credevano di incarnare «un possente rinnovamento» delle prassi di «vita individuale e collettiva». Reale affermava che «la rivoluzione» non veniva più fatta in nome di una classe: «La rivoluzione è il sacro diritto della nazione, della totalità delle sue forze produttive». In modo analogo, i fascisti spagnoli ritenevano che i movimenti fascisti esistessero in paesi lontani fra loro come la Cina, il Cile, il Giappone, l’Argentina o la Germania poiché il fascismo era un agglomerato di movimenti di destra «nazionalisti». Questo raggruppamento fascista avrebbe «salvato» ogni paese dando vita a «una vera nuova internazionale della civiltà contro la barbarie». Il fascismo rappresentava un nuovo fondamento del mondo, «una civiltà basata sull’unità, l’universalità e l’autorità»5.
Alla fine del conflitto, il giovane Adolf Hitler, eroe di guerra privo dei diritti politici, cominciò a dare un’espressione politica alle sue profonde tendenze violente. E lo fece nelle nuove trincee della moderna politica di massa6. Dapprima adottò, dandole poi nuova forma, l’ideologia di un partitino dell’estrema destra tedesca, che presto avrebbe preso il nome di nazionalsocialista. All’inizio riconobbe il proprio debito nei confronti del pensiero e dell’azione di Mussolini, ma i due capi condividevano una più vasta convinzione, secondo cui il mondo che avevano conosciuto era in crisi. Hitler si sentì ispirato soprattutto dalla via seguita da Mussolini per conquistare il potere. È impossibile sopravvalutare la portata epocale del fatto che il fascismo era diventato un regime. Come scrive l’eminente storico del nazismo Richard Evans, Hitler guardava con ammirazione a Mussolini come a un esempio da seguire7. Entrambi assunsero feroci posizioni anticomuniste e antiliberali che all’epoca erano ampiamente diffuse fra i controrivoluzionari di tutto il mondo. Questo modernismo antidemocratico coniugava la politica moderna con l’innovazione tecnologica, con idee estetiche e con il discorso bellico.
Durante tutto l’arco del secolo scorso, la modernità del fascismo suscitò le preoccupazioni di grandi pensatori. Se Sigmund Freud vi vide il ritorno del represso – vale a dire, la mitica riformulazione della morte e della violenza come fonte del potere politico –, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, nella loro Dialettica dell’illuminismo, lo presentarono come il peggior esito della modernità8. Sebbene in linea generale io concordi con le loro argomentazioni, esse rimangono tuttavia limitate alle vicende europee. Cogliere le dimensioni transnazionali e globali del fascismo richiede una comprensione della sua storia, in primo luogo per come essa si è svolta a livello nazionale, quindi per come quella manifestazione del fascismo si è rapportata agli scambi intellettuali avvenuti fra le due sponde dell’Atlantico e anche altrove.
Come il marxismo e il liberalismo, il fascismo fu un fenomeno globale che assunse numerose varianti nazionali e prospettive politiche. Anch’esso, poi, non ebbe mai un apparato ideologico chiuso. Le sue idee sono cambiate nel corso del tempo, e solo ora, retrospettivamente, è possibile comprenderne le principali caratteristiche ideologiche. La maggior parte dei fascisti lo percepiva come una nuova ideologia politica in via di formazione, radicalmente contrapposta alla tradizionale politica democratica, vale a dire a quello che essi denigravano come «elettoralismo» occidentale9. Il suo creatore, Benito Mussolini, sosteneva che solo le ideologie decadenti e antiquate avevano un corpus di conoscenze chiuso. Per lui, le idee erano utili quando avevano un valore pratico, vale a dire se confermavano le sue stesse confuse intuizioni sulla rigenerazione sociale e la rinascita delle nazioni, sul ruolo essenziale che uomini come lui avevano nella guida del popolo, sulla politica come arte, e più in generale se convalidavano il suo noto antiumanitarismo. In poche parole, per il creatore del fascismo le idee erano utili quando legittimavano obiettivi politici a breve termine10.
Mussolini era uno stratega convinto che fossero le esigenze politiche a determinare le formazioni teoriche. Molti storici ne hanno concluso che tale convinzione facesse di lui una sorta di antiteorico, e che la teoria del fascismo non fosse importante per il movimento, al punto da essere semplicemente priva di rilevanza11. Certamente, in alcuni momenti della sua carriera Mussolini nutrì pregiudizi antiteorici, ma tutte le esigenze politiche che determinarono la sua visione strategica del fascismo erano condizionate da una serie di pensieri e scopi inespressi. La sua azione politica fu guidata nel corso degli anni dalle sue idee sul potere, la violenza, il nemico interno e l’impero, e dalla sua stessa aspirazione ad essere il capo virile, messianico del suo popolo. E si trattava di idee abbastanza astratte da informare le sue priorità politiche, e sufficientemente pragmatiche da essere prese in considerazione dai fascisti di altre nazioni, i quali spesso desideravano evitare complicazioni concettuali. Antonio Gramsci preferiva sottolineare, come caratteristica definitoria del capo del fascismo, e forse della stessa ideologia fascista in generale, la concretezza di Mussolini12. La quale si collegava all’idea del primato della politica sulle rigide «formule dogmatiche». Mussolini stesso, esprimendo forse un auspicio, affermava che le discussioni «teologiche» o «metafisiche» erano estranee al suo movimento. Il fascismo non era un dogma, bensì una «mentalità speciale». In termini tipicamente anti-intellettualistici, mescolava di solito la sua concretezza – ossia la predilezione fascista per l’azione violenta immediata – con una semplicistica interpretazione della realtà. All’inizio, Mussolini contrappose il proprio realismo «eretico» alle «profezie» del liberalismo, del socialismo e del comunismo. In altre parole, difese il carattere «reazionario», «aristocratico», e tuttavia «antitradizionale» del fascismo, contrapponendolo all’«orgia della rivoluzione parolaia»13.
Il fascismo fu un fenomeno essenzialmente moderno. Costituì però una forma «reazionaria» di modernismo14. Operando contro l’emancipazione al fine di creare una nuova modernità totalitaria, si considerava un figlio del presente e anche una dimensione «primitiva» del futuro. Per Mussolini le cause, le formazioni teoriche e perfino le esperienze del passato non erano importanti quanto l’«azione» politica del momento. Tuttavia, le strategie del presente potevano ai suoi occhi essere soltanto atti manifesti di un tutto significante, di una serie di significative formazioni che costituivano la base sulla quale si potevano innestare le strategie politiche.
La ricerca di una simbiosi fra questo terreno comune da cui emanavano le prassi fasciste e le varie giustificazioni teoriche di quelle stesse strategie rappresentava l’elemento più dinamico dell’ideologia fascista, e rivelava anche i più ovvi limiti che si opponevano a una sua integrale canonizzazione. In definitiva, la creazione di un corpus canonico del fascismo fu per gli stessi aderenti al movimento un compito senza fine. Essi tentarono di coniugare varie strategie a breve termine con una vecchia ed ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I populismi e la fragilità della democrazia. Prefazione di Angelo Ventrone
  6. Introduzione all’edizione italiana
  7. Prologo
  8. Introduzione. Un approccio storico alla comprensione del fascismo e del populismo
  9. I. Il fascismo nella storia
  10. II. Il populismo nella storia
  11. III. Il populismo fra democrazia e dittatura
  12. Epilogo. Il populismo redivivo
  13. Ringraziamenti