II. Geografia degli insediamenti mafiosi.
Fattori di contesto, strategie criminali e azione antimafia
di Rocco Sciarrone e Joselle Dagnes*
1. Introduzione.
Risale al 1994 la prima relazione della Commissione parlamentare antimafia che affronta in modo organico e sistematico la diffusione delle mafie nelle aree non tradizionali: si parlava allora di «segnali» relativi a «presenze di personaggi» appartenenti alle diverse organizzazioni mafiose e a «forme di infiltrazione nel tessuto economico delle zone più evolute e sviluppate» (Cpa 1994, p. 9)1. La relazione precisava che il radicamento nel territorio era difficile da realizzare, «per la mancanza di condizioni obiettive che lo consentano e per la maggiore resistenza che l’ambiente sociale, politico e civile oppone a ogni forma di predominio», aggiungendo che
i metodi sono in genere più insinuanti (per questo è giusto parlare di infiltrazioni), la ricerca del consenso è meno perentoria e diretta, in non pochi casi si cerca proprio la pace per poter attirare meno l’attenzione e svolgere più tranquillamente i propri affari realizzando meglio i propri obiettivi (ibid., p. 12).
La Commissione antimafia sosteneva inoltre che l’estensione del fenomeno era stata favorita dalla scarsa attenzione a esso riservata a tutti i livelli, in particolare da una complessiva sottovalutazione sul piano istituzionale e dalla mancanza di misure adeguate per contrastarlo. Insufficiente – caratterizzata da ritardi, resistenze e impreparazione – era giudicata anche l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura.
Nella Relazione si ravvisava un modello di presenza omogeneo «nelle regioni più evolute» del paese per quanto riguarda le forme di insediamento e i tipi di attività, sia pure con elementi di variabilità da una regione all’altra, che però venivano ricondotti più alla maggiore o minore efficacia dei controlli pubblici e sociali che non a specificità delle organizzazioni criminali: «alcune diversità che si possono riscontrare nelle varie regioni nascono non tanto e solo da maggiore o minore potenzialità delle organizzazioni mafiose, quanto e soprattutto dalla minore operatività dei controlli pubblici o anche solo del controllo sociale» (Cpa 1994, p. 32).
Con riferimento alle regioni del Centro-nord, veniva descritto «un tessuto complessivamente sano» e non si rilevavano situazioni particolarmente allarmanti – ma solo «episodi isolati e di profilo limitato» (ibid., p. 40) – per quanto riguarda il rapporto delle mafie con il mondo della politica e della pubblica amministrazione. Si esprimeva però anche qualche perplessità rispetto al quadro emerso, ritenendo che l’infiltrazione nel tessuto economico è difficile da realizzare «senza appoggi, connivenze, protezioni». Si sottolineava quindi che il problema più grave era stato quello di non aver seriamente ostacolato il fenomeno: «Invece, lo si è lasciato crescere, non sono state opposte le barriere che sarebbero state necessarie, si sono perse tutte le occasioni per aggredire le organizzazioni di stampo mafioso nella fase nascente, quando ancora esse erano più fragili e precarie» (ibid., p. 47).
Già diversi anni fa, la Commissione parlamentare antimafia aveva dunque provato a ricostruire una mappa dettagliata della presenza delle mafie nelle regioni del Centro-nord, mettendo in evidenza le tendenze evolutive del fenomeno e i fattori che potevano favorirne l’espansione. A distanza di tempo la situazione appare indubbiamente più grave: non solo perché questa presenza nelle aree non tradizionali è cresciuta sul piano quantitativo, ma soprattutto perché è cambiata su quello qualitativo. Come anticipato nel precedente capitolo e come si vedrà meglio di seguito, la diffusione delle mafie è fortemente differenziata a livello territoriale, sia nelle regioni meridionali sia in quelle centro-settentrionali. Si rilevano tuttavia alcuni addensamenti in aree specifiche, con una differenziazione di modelli di espansione e di insediamento. Accanto all’infiltrazione nel tessuto economico, di cui parlava già la Commissione parlamentare antimafia negli anni novanta, troviamo oggi situazioni caratterizzate da forme di radicamento territoriale, prevalentemente in alcune zone del Nord-ovest e del Centro Italia. Come documenta la nostra ricerca, i processi di espansione sono più diversificati rispetto al passato: si realizzano per via economica, seguendo la logica degli affari, ma anche per via organizzativa, seguendo la logica dell’appartenenza (cfr. cap. I). Rispetto agli anni settanta e ottanta, si registra un netto ridimensionamento della presenza di Cosa nostra a fronte di una notevole crescita di gruppi della ’ndrangheta e della camorra.
Se è certamente aumentata la capacità espansiva di questi gruppi criminali, il cambiamento più evidente sembra però interessare i contesti di ricezione, vale a dire le società locali del Centro-nord. Una questione che non riguarda soltanto la loro accresciuta vulnerabilità alle infiltrazioni criminali, ma anche e soprattutto il loro grado di «accoglienza» e «disponibilità». Come già nelle aree di insediamento tradizionale (Sciarrone 2011a), in alcuni contesti del Centro-nord è stata infatti rilevata la presenza di un’estesa e articolata area grigia di collusioni e complicità: uno spazio che si dispiega tra lecito e illecito in cui prendono forma rapporti di scambio reciprocamente vantaggiosi tra mafiosi, imprenditori, politici, liberi professionisti e funzionari pubblici. È quanto emerge in numerose inchieste della magistratura ed è quanto abbiamo cercato di approfondire negli studi di caso.
Come si è detto nel capitolo precedente, è opportuno distinguere tra la presenza di gruppi mafiosi in un determinato contesto, attivi ad esempio nel campo dei traffici illeciti, e l’insediamento stabile che può dare vita a forme che approssimano il controllo del territorio. Non è peraltro detto che dall’infiltrazione si passi necessariamente al radicamento, e anche quando ciò accade non c’è un unico modello di insediamento territoriale. D’altra parte, i processi di espansione – è bene ripeterlo ancora una volta – non sono irreversibili, ma possono interrompersi e persino retrocedere. Insomma, la diffusione mafiosa non solo non ha sempre un esito positivo, ma può anche arretrare dopo una fase più o meno lunga di successo. Il fenomeno va dunque visto, come anticipato, in un’ottica processuale, cogliendo le interazioni tra fattori di contesto e di agenzia. Per questa ragione, abbiamo privilegiato nella nostra ricerca la tecnica dello studio di caso, che permette analisi ravvicinate – in territori circoscritti – degli attori, dei meccanismi e delle risorse in gioco.
Questo capitolo intende avere una funzione di servizio e di collegamento tra lo schema teorico delineato nel precedente capitolo e gli studi di caso presentati nei capitoli successivi. Offriamo qui una panoramica di temi, affrontati a livello macro in modo selettivo e mirato, con l’obiettivo di introdurre e contestualizzare i risultati della ricerca empirica. Sulla base di dati statistici e di informazioni provenienti da fonti diverse, viene dapprima proposta una mappa della presenza delle mafie sul territorio italiano, quindi un approfondimento di alcuni fattori di contesto che possono favorirne l’espansione e, a seguire, un’analisi di alcune caratteristiche e strategie di azione dei gruppi criminali. In conclusione, l’interesse è rivolto al fronte dell’antimafia, soprattutto al versante delle agenzie di contrasto e della società civile.
2. La presenza mafiosa nel territorio.
In questo paragrafo cercheremo di dare conto, in modo sintetico, della presenza e dell’intensità delle organizzazioni mafiose nelle province italiane, con una particolare attenzione ai fenomeni che caratterizzano le aree del Centro-nord.
Per «mappare» la diffusione del crimine organizzato faremo ricorso a due diversi indici2, in continuità con la precedente edizione di questo volume. In questo modo potremo rintracciare i principali cambiamenti avvenuti sul territorio nazionale negli ultimi dieci anni. Richiamiamo a questo proposito la nota distinzione di Alan Block (1980) tra power syndicate ed enterprise syndicate3. In relazione ai nostri obiettivi di ricerca, possiamo ricondurre il power syndicate alla sfera del controllo del territorio e l’enterprise syndicate all’esercizio di traffici illeciti. Si tratta evidentemente di una distinzione analitica, dal momento che nella realtà le due dimensioni risultano fortemente intrecciate e combinate con assetti variabili (Sciarrone 2009).
La traduzione empirica dei concetti di power ed enterprise syndicate si basa sull’individuazione, all’interno delle statistiche di delittuosità elaborate dall’Istat e di altre fonti dati4, di alcuni reati o provvedimenti «spia» della capacità di controllo del territorio e dell’esercizio di attività illecite da parte della criminalità organizzata. Nel dettaglio, ai fini della nostra analisi abbiamo selezionato i seguenti indicatori:
– per l’indice di power syndicate: i reati di associazione di tipo mafioso, omicidio di tipo mafioso ed estorsione, a cui si aggiungono i dati relativi ai beni confiscati alla criminalità organizzata e agli scioglimenti di enti locali per condizionamento mafioso;
– per l’indice di enterprise syndicate: i reati di associazione per delinquere, violazione della normativa sugli stupefacenti, rapine in banca e negli uffici postali, usura e sfruttamento della prostituzione.
Per ciascun reato abbiamo considerato un arco temporale di quattro anni. Nella prima versione dei due indici, contenuta nella precedente edizione del volume, il periodo di riferimento comprendeva gli anni dal 2008 al 2011, mentre qui ne presentiamo una versione aggiornata che considera il periodo più recente per cui sono disponibili i dati, vale a dire il quadriennio 2014-2017. La procedura seguita per la costruzione degli indici è identica, al fine di permettere la comparazione. In entrambi i casi, abbiamo calcolato per ciascun anno i quozienti di delittuosità su base provinciale – vale a dire il numero di delitti denunciati ogni 100000 abitanti – e la media aritmetica nel periodo per ciascun reato, in modo da stabilizzare il dato rispetto a oscillazioni episodiche. I beni confiscati e gli enti locali sciolti sono stati invece considerati nel loro numero complessivo, costituendo dunque una variabile di stock: nella versione 2014 erano aggiornati al novembre 2013, mentre in quella attuale lo sono al gennaio 2019. Tutti i dati sono stati quindi standardizzati rispetto al valore medio nazionale (Italia = 1,00) e sintetizzati in un semplice indice di tipo additivo che fornisce, per ciascuna provincia, la media degli indicatori selezionati.
Le figure 1 e 2 presentano la mappa degli indici di power syndicate nelle province italiane rispettivamente per il 2014 e il 2019, mentre le figure 3 e 4 contengono la mappa degli indici di enterprise syndicate per gli stessi anni.