Al limite della docenza
eBook - ePub

Al limite della docenza

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Al limite della docenza

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Coinvolta in scandali di vario genere, l'università è, da tempo, sotto scacco. C'è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini e comportamenti che potremmo definire "ai limiti della decenza"». Il quaranta per cento di quanti si iscrivono all'università italiana non arriva a concludere il corso di laurea. Si tratta di una mortalità che non ha riscontri in altri paesi. Le cause invocate per spiegare questa anomalia sono molteplici: ci sono quanti chiamano in causa la mancanza di orientamento fornito dalle scuole superiori, e quanti invocano invece le scelte sbagliate degli studenti. Nessuno ha mai indagato, neppure in forma interrogativa, le eventuali responsabilità dei docenti universitari e la loro scarsa inclinazione alla «missione» didattica. La lezione di don Lorenzo Milani non sembra aver fatto breccia nelle aule universitarie. Ad accrescere la distanza nel rapporto fra docenti e studenti è anche la particolare mentalità del professore universitario. Se Claude Lévi-Strauss resuscitasse, avrebbe non poca materia per aggiornare il suo Pensiero selvaggio senza bisogno di inseguire i miti di terre lontane ma concentrando la sua attenzione sulla composita umanità del mondo accademico. Il volume di Stefano Pivato ne analizza nevrosi, tic e comportamenti nel tentativo di delineare una vera e propria antropologia del docente universitario italiano. Ne emerge il ritratto di una tribù alla quale è demandato il compito di preparare la classe dirigente del futuro. Un pamphlet dettato, dunque, dalla consapevolezza che un diverso atteggiamento dei docenti è preliminare al varo di una qualunque riforma. Pagine militanti che intendono salvaguardare quella parte di università che riesce, in maniera spesso miracolistica, a produrre eccellenti prodotti di ricerca e a preparare in maniera adeguata gli studenti. Un atto di denuncia e, al tempo stesso, un gesto d'amore nei confronti dell'istituzione universitaria e di uno dei mestieri più belli del mondo.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Al limite della docenza di Stefano Pivato in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Sociologia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432669
Categoria
Sociologia

II. Riti e linguaggi della tribù accademica

1. Tribù.

Egocentrismo, alta propensione al litigio e vanità non costituiscono che alcune caratteristiche del docente universitario. Non si tratta di atteggiamenti e attitudini isolati ma di codici comportamentali che sono entrati a far parte di un vero e proprio linguaggio: quello della tribù universitaria. Generalmente con quel termine si definisce un gruppo autonomo formato da più famiglie che parlano la stessa lingua e hanno gli stessi usi e costumi. Secondo l’antropologia, la tribù comprende diversi sottogruppi che possono essere individuati come clan o lignaggio. Sul piano politico il concetto di tribù è stato spesso contrapposto a quello di Stato e dunque alternativo a qualsivoglia autorità o sistema politico.
La nostra società è permeata da tanti fenomeni (disseminazioni delle mode musicali e degli stili di abbigliamento, sistemi di scambio locale o cooperative di agricoltura biologica ecc.) legati a tribù, reti, piccoli gruppi e aggregazioni anche effimere. A partire dagli studi di Michel Maffesoli o di Alberto Melucci, oggi si parla di tribù giovanili che accomunano gusti, mode e stili di vita in cui i giovani si rifugiano per opporre un’identità collettiva al mondo degli adulti e sentirsi parte di un gruppo. Nel mondo dello sport si parla, invece, di tribù del calcio caratterizzate da tifo, rituali e atteggiamenti esterni comuni. La società postmoderna avrebbe rimodellato antiche consuetudini su nuovi insiemi associativi.
In questo schema del tutto singolare rientra l’accademia che, a ben guardare, non costituisce un’aggregazione della società postmoderna, ma una comunità che è venuta a perfezionare il suo tribalismo nel corso dei secoli fino a codificare usi, consuetudini e riti. Una tribù tradizionale inserita nel XXI secolo che nei messaggi trasmessi all’esterno, attraverso proclami e riforme, rassicura l’opinione pubblica sulla sua modernità, ma al suo interno conserva forme di socialità e relazioni inossidabili al mutare dei tempi.
Anni fa, nella comunicazione verbale, il docente era il professore; oggi, nella semplificazione del linguaggio giovanile, è diventato il «prof». Recentemente Umberto Eco ha scritto di non sopportare quell’abbreviativo che gli fa venire «in mente uno con la faccia da Ricky Memphis». In realtà «prof» è indizio di un profondo cambiamento intervenuto fra gli studenti e i professori e rivela che il processo di liceizzazione dell’università ha investito anche il linguaggio. E non solo quello orale. Almeno per certi corsi, ai colloqui che gli studenti richiedevano ai professori per chiarimenti sui programmi d’esame o per altre delucidazioni si sono via via sostituiti, quantomeno in parte, gli scambi telematici. Si tratta di un nuovo modello di relazioni fra docenti e discenti che si guardano sempre meno in faccia. E anche in quelle corrispondenze telematiche il professore o la professoressa sono diventati il «prof» o la «prof».
A dispetto della semplificazione del linguaggio giovanile, all’interno del mondo universitario continua invece a persistere un nominalismo immutato da secoli che rimanda a ben precise gerarchie. E proprio l’oscurità del linguaggio costituisce un motivo che accentua il mistero della vita universitaria. Più la comunicazione di un’istituzione è oscura, maggiore è il suo grado di impenetrabilità da parte di chi vive all’esterno.
La vetustà del linguaggio crea soggezione di fronte a figure come quelle del Chiarissimo (titolo che spetta solitamente al professore ordinario), all’Amplissimo (i presidi di facoltà, oggi in gran parte scomparsi) o al Magnifico (il rettore). Ci sono poi figure come quelle dell’Emerito e dell’Onorario, titoli che spettano ai docenti in pensione che abbiano svolto almeno un certo periodo di servizio all’università in qualità di professori ordinari.
Certo, si tratta di titoli ignoti al linguaggio studentesco, ma che all’interno dell’università stabiliscono regole e codici di comportamento, ai quali l’altisonanza conferisce autorità e prestigio.
Durante l’applicazione della riforma Gelmini si è trattato di decidere il nome da attribuire ai coordinatori delle nuove strutture universitarie, scaturite da quelle disposizioni: il dibattito è stato alquanto acceso. Una vera e propria disputa si è aperta, per esempio, allorché si sono eliminate in gran parte le facoltà, istituzione di antica data e, di conseguenza, il titolo che spettava a chi guidava quelle strutture. C’erano quanti consideravano una diminutio sentirsi definire coordinatore di quelle nuove strutture che andavano a sostituire le facoltà: le scuole. Quanti sostenevano la necessità di continuare a definirsi preside argomentavano che quel titolo aumentava il loro prestigio presso le altre istituzioni accademiche, soprattutto quelle straniere. Sebbene l’obiezione provenisse anche da quanti non avevano mai messo piede in una università straniera.
Il dibattito che ha preceduto la decisione di eliminare quelle antiche strutture poggiava sulla certezza, da parte dei docenti, che gli studenti si sarebbero ritrovati smarriti di fronte all’assenza di un nome divenuto a loro familiare. In realtà agli studenti quel cambio di nome non creava alcun problema; era il docente a sentirsi sminuito, perché in un ambiente paludato come quello universitario ciò che conta è il ruolo. All’interno dell’accademia, la gerarchia non sempre dipende dal prestigio intellettuale, dai libri che uno ha scritto, dai convegni ai quali si è partecipato ma, piuttosto, dalla posizione che si occupa nella scala gerarchica. Certo è giusto che il senso della tradizione sia conservato e trasmesso. In occasioni come quelle dell’inaugurazione dell’anno accademico o di altre importanti cerimonie, i docenti esibiscono toghe, ermellini, tocchi e altri simboli legati alla storia dell’università. Ci sono tuttavia docenti che quella toga non se la levano mai e continuano, sebbene non materialmente, a indossare i simboli della tradizione (e del potere) anche al di fuori delle occasioni ufficiali. Insomma, perfino nella vita privata non scendono dalla cattedra.
A prestare fede a Haruki Murakami, verrebbe da dire che tutto il mondo è paese se, in uno dei suoi romanzi ambientati nella realtà del Sol Levante, egli scrive: «Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino. A un certo punto però, tutt’a un tratto, ho capito che senza accorgermene anche io avevo adottato quel modo di fare».
Anche perché se nella ristretta cerchia dell’accademia titoli, riti e nomi definiscono ruoli e confini, verso l’esterno gli stessi aumentano quell’alone di timore reverenziale che suscita la figura del docente universitario. Provate a chiedere all’uomo della strada cos’è un anno «sabbatico». Oppure la differenza tra una facoltà, un dipartimento o un corso di laurea. O, ancora, cos’è un senato accademico. Per il senso comune esistono ancora figure non più previste da alcun ordinamento universitario come l’assistente o il libero docente.
Basta svolgere un corso a contratto di poche ore per esibire il titolo di professore universitario: perché al di fuori della comunità degli accademici pochi riescono a fare distinzioni. Tant’è che, sia pure inascoltato, il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza nella quale precisa che «l’indicazione di titoli accademici non accurata e fuorviante appare grave nel caso in cui si impieghi nella propria carta intestata, ovvero con altri mezzi o modalità equivalenti nei rapporti con i terzi il nome dell’università in modo equivoco in grado di ingenerare nei destinatari la convinzione di una strutturale appartenenza del collaboratore ai ruoli organici dell’ateneo».
La vanità contagia anche quanti all’università vi fanno capolino ogni tanto. Si sono visti, negli anni, medici mettere sulla propria carta intestata la dicitura di «libero docente» molto tempo dopo che quella qualifica era stata cancellata. Oppure ci sono docenti a contratto delle più svariate materie, soprattutto avvocati, che per aver svolto un corso di poche ore a titolo gratuito, esibiscono il titolo di professore universitario.
Fra i riti che continuano a essere mantenuti in vita vi è quello della votazione degli esami che sono espressi in trentesimi. Da che cosa dipende questa particolarità? Dal fatto che, un tempo, le commissioni di esame erano formate da tre docenti i quali, alla fine dell’esame, esprimevano la loro valutazione sul candidato in decimi; la somma dei singoli docenti produceva il voto in trentesimi. Oggi, già molto tempo dopo l’avvento dell’università di massa, gli esami vengono svolti da un singolo docente (o al massimo due), però la votazione continua a essere espressa in trentesimi. Analogamente la valutazione per la laurea, il cui voto massimo è 110, scaturisce dal pronunciamento di una commissione composta da undici membri ciascuno dei quali esprime la propria valutazione in decimi. Oggi, che per carenza di personale docente le commissioni sono composte da cinque o sette membri, la votazione continua a essere espressa come un tempo.
Certamente, fra gli ostacoli maggiori che lo studente incontra, allorché si avvicina per la prima volta alla vita universitaria, c’è quello del linguaggio. Termini come crediti formativi (Cfu), scuole, dipartimenti e indirizzi costituiscono un lessico del tutto nuovo per chi entra all’università per la prima volta. Vero è che alcuni atenei pubblicano sui loro siti un glossario per orientare i nuovi studenti.

2. Liturgie del potere.

Giovedì 28 ottobre 2010.
Si svolge, come ogni mese, l’assemblea della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui). Oggetto della discussione: la riforma Gelmini. Intervengono vari rettori: chi pro, chi contro, chi in mezzo al guado. Interviene un «magnifico» di un’università del Nord che è in carica da ventotto anni.
Intervento accorato ma soprattutto irato contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica non si legifera»: questo il suo infervorato appello finale in evidente polemica con la legge Gelmini che fissa in un unico mandato di sei anni il periodo massimo nel quale un rettore può rimanere in carica. L’assemblea applaude convinta: non è chiaro se per adesione a un’affermazione così forte o per celia nei confronti di un rettore ancora in carica dopo ventotto anni.
In realtà, se andiamo a vedere l’elenco delle interminabili carriere di alcuni rettori, si palesa il sospetto che dietro quell’applauso ci fosse solidarietà. Rettorati di dieci, quindici e anche venti anni non sono stati rari nell’accademia italiana. Chi scrive ha operato e opera in un’università che detiene il record di durata per eccellenza potendo vantare un rettore che è rimasto in carica per ben cinquantuno anni.
Certo, da decenni nelle università esisteva la regola dei due mandati massimi, di quattro o cinque anni ciascuno. Era però sufficiente che gli organi accademici cambiassero alcune norme dello statuto o semplicemente un articolo perché la situazione si azzerasse e si iniziasse daccapo. Il mandato del rettore poteva ricominciare.
Ora è vero che la Gelmini ha posto fine ai rettorati a vita, rendendo obbligatorio un mandato unico non rinnovabile di sei anni. Tuttavia una delle contraddizioni di quella riforma riguarda il potere dei rettori che risulta rafforzato, a dispetto dei proclami che dichiarano di voler ridurre l’egemonia dei baroni. Il massimo organo di governo dell’università, nelle nuove disposizioni di legge, è il consiglio di amministrazione; ma quell’organismo è solo in parte eleggibile. Per la maggior parte è, infatti, di nomina del rettore ed è dunque largamente composto da persone di sua fiducia.
Nelle pieghe della riforma Gelmini ci sono però margini che sono sfuggiti al legislatore e che riguardano, per esempio, le università private che, comunque, ricevono danaro pubblico. Il caso più emblematico è quello di un rettore di un’università privata del Nord che è contemporaneamente «magnifico» in un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza dalla prima. A eleggere il rettore di entrambe le università non è l’intero corpo docente, il personale tecnico-amministrativo e gli studenti, ma organismi ristretti composti da poche unità di persone che siedono nel consiglio di amministrazione e in quello dei garanti.
Se le leggi e i regolamenti di autonomia consentono anomalie spesso macroscopiche nelle università private, consuetudini non proprio cristalline sono presenti anche in quelle pubbliche. Mentre presenta la sua riforma il ministro Mariastella Gelmini ingaggia, a parole, una veemente battaglia contro i baroni e parentopoli: posizione netta, chiara e giusta. Peccato però che il suo consulente principe pratichi, mentre suggerisce e avalla la riforma, alcuni sentieri quanto meno equivoci. Il consulente in questione, uno studioso di indubbia fama, nel 2008 è nominato a capo della segreteria tecnica per l’università. In questa veste, diviene il mentore massimo della riforma che della ministra porta il nome.
Molto discutibilmente, e in mezzo a mille polemiche che configurano quantomeno un conflitto di interesse, egli vara una scuola di studi avanzati, di cui è nominato direttore presso l’università nella quale insegna. Mentre da un lato la Gelmini opera tagli indiscriminati alle università pubbliche, dall’altro concede un cospicuo finanziamento, oggetto di polemiche, alla scuola del consulente in questione. E, in mezzo alle diatribe sulla parentopoli universitaria, chiama a insegnare nella scuola da lui diretta la moglie.
Un altro dei cavalli di battaglia della Gelmini è costituito dalle sedi periferiche delle università che proliferano a partire dalla fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta. E, sempre il solito consulente, avalla e suggerisce la politica dei tagli sulle sedi decentrate. Tuttavia egli è nominato presidente di una società di gestione di una sede periferica di un’importante università italiana.

3. Concorsi.

È incredibile come il fronte di guerra si nutra di proiettili, e non appena l’artiglieria per qualche motivo ne rimane priva sembri venirle meno non il fuoco ma il pane, e la battaglia si riduca subito a poco. In questi termini, uno dei grandi narratori del nostro contemporaneo, Sergio Zavoli, racconta l’eccitazione che provocano le esplosioni della battaglia durante la seconda guerra mondiale.
Non sembri una metafora fuori luogo per introdurre un tema come quello dei concorsi che, soprattutto in tempi di crisi, al docente mancano come il pane.
Il professore, sovente pigro e indolente, al solo sentir pronunciare la parola «concorso», si agita ed è preso da frenesia. Nell’ultimo decennio, dove i concorsi sono stati praticamente inesistenti, certi professori erano come percorsi da una perenne crisi di astinenza. Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere. Perché, alla fine, certifica la capacità dell’ordinario di compiere la sua «missione».
Negli ultimi anni le modalità concorsuali hanno subito vari cambiamenti con il dichiarato scopo di aumentarne la trasparenza e valorizzare il merito. Resta il fatto che, puntualmente, alla fine della tornata concorsuale il ministro di turno dichiarava che varie falle si erano aperte sia per la trasparenza sia per il merito. Tant’è che oggi l’attuale ministro annuncia già di voler modificare i meccanismi concorsuali introdotti solo un paio d’anni fa.
Periodicamente, nelle cronache dei giornali e fra le chiacchiere dei colleghi, si parla di concorsi vinti immeritatamente e di concorsi persi ingiustamente, di ricorsi, di ripicche fra gli ordinari, di colpi bassi, di carriere facilitate e di carriere ostacolate.
In realtà il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali. E i sistemi per far parte delle commissioni sono fra i più disparati. In questo senso l’ordinario ha completamente stravolto il famoso assioma di un altro famoso barone, in questo caso de jure, Pierre de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere".
Emblematica, al proposito, la vicenda che nel corso del 2013 coinvolge un illustre cattedratico. Le procedure di selezione introdotte per i nuovi sistemi di reclutamento per associati e ordinari (Abilitazione scientifica nazionale) prevedono che quanti desiderano far parte della commissione di valutazione devono produrre il proprio curriculum scientifico. Se il ministero riterrà valida la produzione, il docente che si è autocandidato sarà ritenuto «degno» di entrare nella rosa dei commissari. Dopodiché, un’estrazione fra i vari candidati provvederà a designare i cinque membri della commissione. Un professore con una lunga carriera alle spalle e un invidiabile curriculum di pubblicazioni scientifiche, evidentemente assalito da una crisi d’ansia, decide di taroccare il proprio curriculum, di gonfiarlo, in definitiva, inserendo pubblicazioni mai comparse. Il caso è ancora più sconcertante se si pensa che, per poter inserire quelle pubblicazioni fantasma, il professore in questione provvede a fornirle del codice Isbn che, in editoria, certifica l’avvenuta pubblicazione. Palese, in quell’operazione, la complicità dell’editore. Estratto a sorte, il pro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Dedica
  6. Don Milani si è fermato a Barbiana
  7. I. Tipi da cattedra
  8. II. Riti e linguaggi della tribù accademica
  9. III. Identità
  10. IV. Insegnare
  11. V. Quale Riforma?
  12. Riferimenti bibliografici