La nuova frontiera
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La nuova frontiera

  1. 154 pagine
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La nuova frontiera

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«La nuova frontiera» non è solo la formula – memorabile – nella quale John F. Kennedy decise di racchiudere il senso e la sfida della sua presidenza. Quando, nel luglio del 1960, la pronunciò per la prima volta, l'America si trovava in un passaggio difficile della sua storia, non tanto per i rischi di una perdita della supremazia strategica, in un mondo dominato dalla guerra fredda, quanto per una sorta di insicurezza, di calo di fiducia nel proprio potenziale e nei propri destini. A essere chiamata in causa era la dimensione della storia americana, la sua connaturata necessità di tendere verso nuovi obiettivi e nuove conquiste, pena l'insuccesso e la sconfitta. Un benessere materiale più solido e più largamente distribuito, una più forte acquisizione dei diritti e delle libertà di tutti, un abbattimento delle barriere e delle discriminazioni razziali, e in fin dei conti la disponibilità di ciascun americano a prendere sulle sue spalle il proprio destino, erano i necessari presupposti senza i quali non avrebbe potuto funzionare, né trovare una sua legittimità, l'idea stessa di un modello americano da proporre al mondo. Tra i discorsi e gli scritti raccolti in questo volume – tutti concepiti nel brevissimo torno di anni intercorsi tra la candidatura di Kennedy alla Casa bianca e la fine tragica a Dallas – spicca non solo il fascino di una retorica dell'America civile che ha trovato in Kennedy forse il suo più abile rappresentante (e che solo Obama ha mostrato di saper emulare). È il concetto di storia come processo aperto e sottoposto, in ultima istanza, alla responsabilità democratica di tutti i suoi attori: è la fiducia nella superiorità della democrazia sul dispotismo. Ed è la convinzione – magistralmente espressa nel pamphlet Una nazione di immigrati, per la prima volta qui tradotto in italiano – che sono le diversità a fare la qualità dell'America, che la sua forza si esprime proprio in ragione del carattere composito del suo aggregato. Gli immigrati sono l'America, ci ricorda Kennedy con una forza argomentativa incontrovertibile. Pensiero che suona, dopo cinquant'anni, fortissimo – e scomodo – all'orecchio delle nostre incupite paure di vecchi europei.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788860365972

Una nazione di immigrati*

1. Una nazione di nazioni.
L’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana.
Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile.
«In equilibrio tra passato e futuro – scriveva di sé – da non sentire un’attrazione naturale e istintiva né verso l’uno né verso l’altro, potevo senza sforzo alcuno meditare tranquillamente su entrambi». Di ritorno in Francia, Tocqueville consegnò il proprio giudizio acuto e spassionato sull’esperimento americano alle pagine del suo capolavoro, La democrazia in America. Nessuno né prima né dopo ha scritto sugli Stati Uniti con tale acume. Inoltre, parlando delle successive ondate di immigrazione dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Spagna e dagli altri paesi europei, Tocqueville colse il fattore cruciale della fede dell’America nella democrazia:
Tutte le colonie europee contenevano, se non lo sviluppo, almeno il germe di una completa democrazia. Due cause portavano a questo risultato: si può dire che, in generale, alla loro partenza dalla madre patria, gli emigranti non avevano alcuna idea di una qualunque superiorità degli uni sugli altri. Non sono i potenti e i felici che vanno in esilio, e la povertà, come le disgrazie, sono i maggiori fattori d’eguaglianza tra gli uomini1.
E per dimostrare la potenza dello spirito egalitario che regnava in America l’autore aggiungeva: «Tuttavia è avvenuto che a parecchie riprese grandi signori siano passati in America in seguito a lotte politiche o religiose. Si fecero allora delle leggi per stabilirvi la gerarchia delle classi, ma presto si comprese che il suolo americano respingeva assolutamente l’aristocrazia terriera»2.
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.
Dal 1607, anno dell’arrivo nel Nuovo mondo dei primi coloni inglesi, oltre 42 milioni di persone emigrarono negli Stati Uniti. Questo flusso rappresenta il movimento migratorio più imponente mai registrato nella storia. Una cifra pari a due volte e mezzo il totale degli attuali abitanti di Arizona, Arkansas, Colorado, Delaware, Idaho, Kansas, Maine, Montana, Nevada, New Hampshire, New Mexico, North Dakota, Oregon, Rhode Island, South Dakota, Utah, Vermont e Wyoming.
Un altro dato che mostra quanto fosse importante l’immigrazione per l’America è il fatto che ogni americano, a eccezione di un solo gruppo, era un immigrato o figlio di immigrati.
L’eccezione? Will Rogers, in parte cherokee, sosteneva che i suoi antenati si trovassero al porto ad accogliere la Mayflower. Peraltro, alcuni antropologi ritengono che gli stessi indiani fossero emigrati da un altro continente e avessero scacciato i veri americani: gli aborigeni.
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del XIX secolo per Tocqueville. Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman,
Questi Stati sono il poema più ampio,
Qui non v’è solo una nazione ma
una brulicante Nazione di nazioni.
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Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro.
2. Perché vennero qui.
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un’epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell’altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l’emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema – lasciare la propria casa e intraprendere un’avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà – dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l’esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l’emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un’influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell’attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del XIX secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all’epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l’equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai 400 ai 1000, in ogni angolo.
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Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l’aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L’unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie – colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria – facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. Ciò significava ulteriore tensione proprio in un momento in cui la loro capacità di affrontare i nuovi problemi era già fiaccata.
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte – persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche – costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità».
L’anelito alla libertà di culto è stato trapiantato in America dagli emigranti dai tempi dei padri pellegrini fino a oggi. Ai nostri giorni, ad esempio, le persecuzioni contro gli ebrei e i cristiani nella Germania di Hitler e nell’impero comunista hanno spinto molte persone a lasciare la patria per cercare asilo in America. Non tutti trovarono subito ciò a cui aspiravano. I puritani della colonia della Baia del Massachusetts, che esiliarono Roger Williams e Anne Hutchinson nelle terre ancora selvagge, mostrarono verso i dissidenti religiosi ben poca tolleranza, proprio come gli anglicani avevano fatto con loro. In diverse epoche le minoranze religiose, dai quaccheri agli shaker passando per i cattolici e gli ebrei fino ai mormoni e ai testimoni di Geova, hanno subito discriminazioni e ostilità negli Stati Uniti. Ma è stata proprio la diversità religiosa a favorire la tolleranza: reclamando la libertà per sé, ciascun gruppo ha fatto sì che fosse garantita la libertà per gli altri. L’insistenza con cui le varie ondate di immigrati hanno rivendicato il diritto di praticare la propria religione ha contribuito a fare della libertà di culto uno dei capisaldi della dottrina americana. Questi individui, che mettevano a repentaglio la vita in nome del diritto di credere nel proprio Dio, non avrebbero certo rinunciato così facilmente a quel diritto nella nuova società.
La seconda grande spinta all’immigrazione è stata l’oppressione politica. L’America è da sempre un rifugio dalla tirannia. Essendo una nazione concepita nella libertà, ha offerto al mondo la promessa di rispettare i diritti dell’uomo. Ogni volta che in Europa una rivoluzione ha fallito, ogni volta che una nazione si è trovata a soccombere alla tirannide, gli uomini e le donne che amavano la libertà hanno radunato i loro cari e i loro averi e hanno attraversato l’oceano. E questo flusso continua ancora ai nostri giorni: la rivoluzione russa, i regimi del terrore nella Germania di Hitler e nell’Italia di Mussolini, la repressione della rivoluzione ungherese del 1956 per mano dei comunisti e gli spietati provvedimenti del regime di Castro a Cuba hanno indotto altre migliaia di persone a cercare riparo negli Stati Uniti.
Il fattore economico è ben più complesso di quello religioso e politico. Fin dall’inizio alcuni sono venuti in America in cerca di ricchezza, altri perché fuggivano dalla povertà e altri ancora perché venivano acquistati e rivenduti, quindi non avevano scelta.
Tutti questi motivi si sono intrecciati tra loro. I primi che sbarcarono sulle nostre coste erano attratti dal sogno di accumulare ingenti fortune, come i conquistatori spagnoli in Messico o in Perù. Questi avventurieri, che pensavano di realizzare in poco tempo grandi profitti con l’oro, scoprirono ben presto che la vera ricchezza consisteva nella coltivazione del tabacco o del cotone. Quando in Virginia, in North e in South Carolina, cominciò a svilupparsi l’economia delle piantagioni, questi coltivatori ebbero bisogno di manodopera a basso costo. Fu così che iniziarono a far arrivare dall’Inghilterra i cosiddetti servi a contratto, ossia uomini e donne che accettavano di lavorare per un determinato numero di anni in cambio di una libertà futura, nonché schiavi dall’Africa.
Il processo di industrializzazione fece aumentare la richiesta di manodopera a basso costo, mentre al contempo in Europa le caotiche condizioni economiche ne incrementarono la disponibilità. Sebbene molti emigranti continuassero a credere che le strade a New York fossero lastricate d’oro, i più erano spinti a emigrare dalla fame e dalle privazioni che pativano nei loro paesi. La carestia delle patate del 1845 in Irlanda portò in America almeno un milione di persone nell’arco di cinque anni. Gli industriali americani pubblicavano sui giornali europei annunci di lavoro in cui si offrivano di pagare la traversata a chi fosse disposto a emigrare in America per lavorare per loro.
Gli immigranti che vennero per motivi economici contribuirono in vari modi alla forza della nuova società. Quelli che provenivano da paesi con istituzioni politiche ed economiche all’avanguardia portarono con sé la fede in quelle istituzioni nonché l’esperienza per farle funzionare. Vi trasferirono altresì competenze tecniche e gestionali che contribuirono enormemente alla crescita economica del nuovo paese. E, soprattutto, contribuirono a dare all’America quella straordinaria mobilità sociale che costituisce l’essenza di una società aperta.
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l’attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un’intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c’era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l’eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli.
È stata questa l’origine dell’inventiva e dell’ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.
Queste furono le principali spinte che innescarono quel massiccio flusso migratorio. Ogni immigrato prestò la propria opera per rafforzare e consolidare quegli elementi che all’inizio lo avevano attirato in America. Le motivazioni di alcuni erano ordinarie, quelle di altri nobili. Ma insieme essi hanno fatto la forza e la debolezza dell’America.
Gli americani più saggi hanno sempre compreso il valore degli immigrati. Nella «lunga serie di abusi e usurpazioni» che indussero gli autori della Dichiarazione di indipendenza a compiere il passo fatale della separazione vi era l’accusa, mossa al sovrano britannico, di limitare l’immigrazione: «Egli ha tentato di impedire il popolamento di questi Stati, ostacolando a tal fine le leggi per la naturalizzazione degli stranieri, rifiutando di promuoverne altre atte a incoraggiare le migrazioni e contrastando l’acquisizione di nuove terre».
3. Ondate migratorie. La fase pre-rivoluzionaria.
Gli immigrati affluirono verso l’America a ondate. Ogni nuova ondata migratoria acquisiva vigore, prendeva slancio e raggiungeva un picco per poi mescolarsi in modo impercettibile con la grande marea di persone che già si trovava sulle nostre coste.
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Fu un cartografo tedesco, Martin Waldseemüller, a chiamare questo continente «America», in onore dell’esploratore italiano Amerigo Vespucci. Le tre caravelle che scoprirono l’America battevano bandiera spagnola, erano comandate da un navigatore italiano e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'essenziale di "La nuova frontiera"
  3. L'essenziale di "Kennedy"
  4. Introduzione di Giancarlo Bosetti
  5. Una nuova idea di presidenza
  6. Lo spirito di Berlino
  7. La nuova frontiera
  8. Noi e Chruščëv
  9. Un mondo nuovo
  10. Indipendenza e interdipendenza
  11. Una nuova idea di pace
  12. Ich bin ein Berliner
  13. Una nazione di immigrati