Ripartire dall'Africa
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Ripartire dall'Africa

Esperienze e iniziative di migrazione e di co-sviluppo

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Ripartire dall'Africa

Esperienze e iniziative di migrazione e di co-sviluppo

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Ripensare a un mondo caratterizzato da forme di co-sviluppo costruttive e condivise tra Nord e Sud del mondo è ancora possibile? Il volume si propone di rivisitare in chiave critica il nesso tra migrazione e sviluppo, in un periodo storico in cui le politiche pubbliche di cooperazione, sviluppo e integrazione appaiono in una fase di stallo, se non di regressione. In che modo quell'insieme di relazioni di scambio e di connessioni tra aree diverse del globo generate dalle migrazioni e animate da diversi soggetti pubblici e privati possono essere rilanciate nel mutato panorama contemporaneo? I contributi raccolti nel volume offrono spunti di riflessione sulle realtà africane, sulle politiche e le pratiche degli attori implicati e sulla recente esperienza quinquennale di co-sviluppo realizzata in Burkina Faso, seguita dal CeSPI, e a cui hanno partecipato fondazioni bancarie, Ong e associazioni della diaspora. La strada da seguire è duplice. Da una parte incrementare le azioni di cooperazione e interscambio dando voce e riconoscimento ai diversi attori, incluse le popolazioni non migranti, e promuovendo un'integrazione a largo spettro che coinvolga l'Africa e anche l'Italia. Dall'altra, ripensare il rapporto con i migranti e capire che costituiscono un fattore vitale del nostro futuro sociale, politico e culturale, che sono un'occasione per progettare e perseguire un nuovo patto sociale tra cittadini già inclusi e cittadini ancora da includere; e, in questo senso, che sono loro l'opportunità da cui ripartire per costruire relazioni interne e internazionali più integrate, giuste e solidali.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868439811
Argomento
Histoire
Parte terza
Scenari e orizzonti: pratiche e politiche

I. Transnazionalismo, sviluppo e «fare-casa» tra vecchie e nuove migrazioni*

di Sebastiano Ceschi e Paolo Boccagni

1. Il co-sviluppo tra house building e home making.

In questo contributo intendiamo soffermarci sulla relazione fra la casa – intesa sia come luogo fisico che come spazio simbolico e relazionale – e l’esperienza della migrazione, proiettandola all’interno della prospettiva del co-sviluppo. Il nesso tra il fare-casa e le migrazioni internazionali, infatti, già al centro di un’ampia riflessione di tipo sia empirico che teorico, recente e ancora in corso1, può rappresentare una possibile lente prospettica attraverso cui leggere pratiche e azioni transnazionali anche nella loro valenza di «sviluppo». Vale a dire che la dimensione del possedere e abitare una casa da parte del migrante può essere vista non solo come un elemento centrale e strategico per la sua traiettoria individuale e famigliare ma anche come terreno sul quale poter leggere, a volte in modo più evidente, altre in filigrana, dinamiche, effetti e controeffetti connessi con il più ampio ambito dello sviluppo2. Per un verso, infatti, la costruzione di una casa e, più in generale, gli investimenti immobiliari dei migranti e delle loro famiglie costituiscono uno dei possibili vettori di trasformazione socio-economica di una località e di potenziale dinamizzazione e miglioramento delle condizioni di vita della popolazione che vi vive (Beauchemin e altri 2013; Boccagni 2019). In questo caso, il fare-casa, declinato come house building, rappresenta una dimensione, un elemento costituente del nesso tra Migrazioni e Sviluppo.
Per l’altro verso, se ci riferiamo al fare-casa come a un insieme di processi non solo materiali ma anche emotivi, simbolici e politici che portano individui e gruppi a radicarsi ed eleggere il o i propri luoghi dell’abitare in un determinato spazio-tempo (Boccagni 2017a; 2017b), dunque lo intendiamo come home making, la sua relazione con lo sviluppo appare più complessa e articolata. L’investimento esistenziale verso una casa è frutto di un articolato sistema di implicazioni che hanno a che fare con il più complessivo «equilibrio transnazionale» del migrante e rimandano a dimensioni di diversa scala e tipo: dal livello di inclusione nella società di approdo alla dislocazione dei famigliari; dalla praticabilità del ritorno nel paese d’origine alla presenza di legami diasporici più o meno consistenti e duraturi. In questa seconda declinazione, viceversa, lo sviluppo o il co-sviluppo appaiono analiticamente come una variabile del nesso casa-migrazione. Infatti, le azioni di sviluppo – in quanto forme di implicazione transnazionale orientate su determinati soggetti (famigliari, comunità, località) e su determinati obiettivi (incidere positivamente sulla sostenibilità e qualità di vita della popolazione) – scaturiscono e dipendono, in ultima istanza, dalla configurazione del legame che il migrante alimenta e ricostruisce con i luoghi di partenza e arrivo, da come «fa sintesi» all’interno della dialettica casa-migrazione. In tal senso – ed è questo l’approccio adottato nel presente lavoro – perché ci sia proiezione verso lo sviluppo del contesto di origine è necessario che, a monte, sia attivo e perdurante il processo materiale e simbolico di investimento nei luoghi di provenienza; in sintesi, che nella condizione migratoria la propria provenienza sia ancora fonte di appartenenza, oltre che di opportunità, attraverso l’azione del sentimento di casa.
Nelle pagine che seguono cercheremo, in via sperimentale e ancora esplorativa, di avanzare nella riflessione sulla triangolazione analitica fra migrazione, fare-casa e sviluppo, a partire dalle riflessioni maturate nel dibattito internazionale degli ultimi anni, e con particolare riferimento all’emigrazione dall’America Latina (Lopez 2015; Zapata 2018; Boccagni 2019) e dall’Africa subsahariana (Osili 2004; Beauchemin e altri 2013; Page - Sunjo 2018). Questa «triangolazione» verrà successivamente interrogata rispetto alle recenti trasformazioni che hanno investito il campo migratorio e i flussi misti che lo attraversano, composti negli ultimi anni prevalentemente da richiedenti asilo.

2. La/e casa/e nella mobilità: un fatto migratorio totale.

La casa è, nella visione del «pensiero di Stato» (Sayad 2002) e nelle policy dell’immigrazione, uno dei primi passi necessari alla cosiddetta integrazione funzionale del migrante: lingua, abitazione e lavoro sono infatti i tre pilastri di questo zoccolo basico di dimensioni dell’inserimento nella società di destinazione. In quest’ottica, spesso guidata dall’obiettivo di massimizzare l’utilità del fenomeno migratorio per il paese ricevente (Zincone 2009), l’accesso alla casa è una delle condizioni e premesse necessarie per raggiungere un primo livello di inclusione: condizione per ottenere la residenza e i diritti connessi (sanità, istruzione, servizi sociali) ma anche premessa per il buon comportamento dello straniero e la sua accettazione sociale, se è vero che la casa è luogo di riposo e rigenerazione per riuscire a lavorare validamente, luogo dove potersi ritirare nella sfera privata e togliersi rapidamente dallo spazio pubblico.
Certamente, c’è anche un altro livello di integrazione che si può leggere attraverso la casa: quella simbolica, emotiva e relazionale. La casa diventa il luogo dove la soggettività di chi vi abita si radica, si espande e costruisce reti di significati, relazioni, memorie, pratiche e abitudini che la eleggono a luogo «speciale». In quanto «special kind of relationship with a place» (Douglas 1991; Boccagni 2017a), il fare-casa è un’esperienza processuale e fluida di appropriazione di spazi, di risignificazione di oggetti e gesti quotidiani, di conservazione del passato, di interpretazione del presente e di proiezione nel futuro. Tale processo, o abilità, ha fortemente a che fare con l’essere umano tout court, in quanto necessità ed esperienza antropologica umana (Cancellieri 2017). Dunque si tratta di un’esperienza che, seppur specifica e localizzata in singoli contesti sociali, si presenta come decisamente universale, trans-culturale ed elementarmente umana. La casa, in questo senso, è un essenziale «blocco costitutivo» di qualsiasi società (Chapman 2001).
Ma il fare/sentirsi a casa è anche esperienza peculiare e individuante della condizione migrante, qui considerata nella sua dimensione contemporanea e transnazionale. L’esplorazione della relazione fra il fare-casa e la migrazione dell’oggi, infatti, ha contribuito a decostruire, o meglio a de-essenzializzare, l’idea della casa come luogo originario, statico e immobile, come matrice unica dell’essere a cui fare necessariamente ritorno, per proiettarla invece in un processo aperto al divenire, multifocale e multi-situato, imprevedibile nei suoi esiti. Per quanto i migranti siano esposti a dispositivi o processi di «doppia assenza» (Sayad 2002), soprattutto dal punto di vista politico e della cittadinanza3, la loro condizione di transnazionalità è stata anche vista come una forma di doppia (o plurima) presenza in diversi luoghi, che consente l’attivazione di azioni e investimenti simbolici, relazionali e funzionali in diversi contesti di vita (si veda ad esempio Vertovec - Cohen 1999). L’approccio transnazionale e la sua visione multi-situata e simultanea delle relazioni sociali dei migranti hanno, infatti, aperto il campo alla considerazione della casa come uno degli elementi dirimenti della mobilità fisica, sociale e culturale connessa alle migrazioni, come articolazione plurale e interconnessa di forme e modi dell’abitare contemporaneamente in diversi luoghi. Nonostante la migrazione appaia una forma di allontanamento, di negazione della propria casa (un home-unmaking), in realtà essa ci svela la reversibilità potenziale, la flessibilità di ogni esperienza di casa che si muove tra sradicamento e ri-radicamento (Ahmed e altri 2003; Boccagni 2017a). Non esiste per forza un’unica casa elettiva, insieme luogo di partenza e di approdo finale del migrante, ma diverse dimore e spazi di vita possibili: una geografia più articolata di luoghi che possono essere risignificati dal migrante, ricostruiti nelle loro valenze emotive, esistenziali e identitarie, oltre che, naturalmente, materiali, oggettuali e produttive. In questo senso, il processo di homing, o di «accasarsi» nel mondo in cui si vive, è un’esperienza interattiva e processuale attraverso il tempo e lo spazio (Boccagni 2017a). I migranti dell’oggi la «maneggiano» all’interno di un quadro mutato e mutevole di interconnessioni multiple e di «compressione spazio temporale» (Giddens 1994; Harvey 1993). Il fare-casa è perciò anche cartina di tornasole di un più esteso processo di integrazione transnazionale in cui è continuamente impegnato chi è mobile; uno specchio dell’equilibrio multisituato e instabile in cui si muovono i migranti e le loro famiglie. Tale equilibrio riguarda, come è intuibile, anche il piano psichico-emotivo profondo di chi migra, la sua stabilità interiore e la sua capacità mentale ed emozionale di riorganizzarsi in un nuovo mondo. Questa dimensione è spesso chiara al personale medico e psicologico che accoglie i migranti dopo lo sbarco, persone sospese e «homeless» per eccellenza: «Se il problema principale dei rifugiati è lo sradicamento, e quindi la perdita del focolare domestico, l’obiettivo dell’accoglienza e dell’assistenza terapeutica dovrebbe essere il ripristino del concetto psicologico di “casa”, fornendo in questo modo ai rifugiati una spinta preziosissima ad attivare le proprie capacità di recupero e l’espressione della propria identità» (Stellacci 2018, p. 64).
Nell’esperienza di vita dei migranti, quindi, il concetto di casa si presta a essere letto su molteplici livelli: aspettativa e richiesta normalizzante per l’integrazione nella società ricevente; bisogno umano profondo e connaturato, ma situato e definito in mezzo alle contingenze di vita reali e immaginate; sintomo e spia al contempo degli assetti transnazionali del migrante e della sua famiglia, ma anche del rapporto tra località, territori, identità e diritti. In ciascuna di queste direzioni il fare/sentirsi a casa sembra uno di quegli aspetti suscettibili di coinvolgere molte dimensioni della migrazione. Sia rispetto al microcosmo della singola esistenza individuale/famigliare, sia allo sguardo più esteso e connettivo degli studi sociali, l’house building e l’home making appaiono come un fatto migratorio trasversale, pervasivo, onnicomprensivo.
In quanto oggetto di ricerca multiscalare, multidisciplinare e polimorfo, il fare-casa si può collocare a diversi livelli di analisi e interazione con altri oggetti. Le sue relazioni con i più disparati ambiti del percorso migratorio, del processo di integrazione e delle implicazioni transnazionali dei migranti possono essere esplorate in termini di causa, di effetto e di contro-effetto. In questa prospettiva, ricorsiva e concatenata, la casa viene vista come un’aggregazione di significati individuali e socio-culturali in interazione continua con il posizionamento spaziale, emotivo, simbolico e politico dei singoli e dei gruppi tra diversi luoghi e tra diversi investimenti. Questo vale anche in relazione ai processi di sviluppo nei contesti di immigrazione e in quelli di origine, come mostriamo nel prossimo paragrafo.

3. La lente della «casa» per gli studi su migrazioni e sviluppo.

L’investimento materiale, funzionale e produttivo su un’abitazione (che sia la sua costruzione, acquisto, estensione o ammodernamento) rappresenta il «precipitato» tangibile dell’esperienza migratoria e della sua riarticolazione spaziale e temporale. Costruire una casa nei luoghi di partenza, come nel caso delle cosiddette remittance houses (Lopez 2015), può essere letto nella gran parte dei casi come un modo per preparare e ottenere un ritorno di prestigio, non necessariamente definitivo; una strategia per «mettere al sicuro i propri diritti di appartenenza alla comunità di origine» (Osili 2004) e ribadire il proprio attaccamento alla famiglia. Costruire una casa, in quanto investimento al tempo stesso sociale ed economico, costituisce un modo concreto per aiutare la cerchia parentale rimasta in patria, un deposito sicuro per i propri risparmi, una dotazione per la famiglia per le proprie strategie di sopravvivenza e di produzione di reddito. Agli occhi dei famigliari e della comunità circostante, inoltre, la remittance house è un segno tangibile del raggiungimento dell’età adulta e dell’autonomia dai membri più anziani della famiglia da parte dei giovani migranti (Boccagni 2019). In tal senso, come già accennato in precedenza, lo studio degli investimenti immobiliari dei migranti durante le loro traiettorie di vita può costituire un prezioso punto di entrata nel dibattito internazionale sul rapporto tra integrazione e transnazionalismo (Carling - Hoelscher 2013). Inoltre, in quanto oggetto di ricerca composito, il processo di house building si presta a essere studiato non solo come uno degli esiti concreti della migrazione ma anche come pista operativa per scandagliare molti altri aspetti, spesso più nascosti o discreti, della migrazione: relazioni e negoziazioni intrafamigliari, ambivalenze e oscillazioni decisionali del migrante, mito e realtà del ritorno e complessità del reinserimento nei luoghi di origine, contraccolpi dell’integrazione, rappresentazioni e immaginari del qui e dell’altrove. Questi diversi aspetti esistenziali possono essere riletti attraverso l’analisi delle modalità e temporalità della costruzione, degli usi e delle strategie di gestione della casa, dei significati pratici e simbolici ad essa attribuiti, della cura degli spazi e degli oggetti, gli arredi e le forme di decorazione in essa presenti (Miller 2001).
Da un punto di vista degli effetti sullo sviluppo, se a livello individuale, «attraverso le loro iniziative immobiliari, i migranti aprono la strada agli investimenti, l’accumulazione e la trasmissione intergenerazionale della ricchezza realizzata all’estero» (Boccagni 2019), l’accumulo di beni privati (di tipo immobiliare) non necessariamente implica il miglioramento delle condizioni abitative pubbliche, al di fuori del circolo dei ricettori di rimesse. Le case delle rimesse non risolvono perciò la più ampia questione abitativa e immobiliare dei contesti di provenienza, rischiando invece di aumentare la segregazione spaziale e le diseguaglianze societarie e urbane, rinforzando nuclei intergenerazionali di privilegio (Page - Sunjo 2017). Si può quindi evidenziare una discrasia tra gli effetti del transnational housing al livello micro, generalmente positivi, e le più ambivalenti conseguenze su scala più ampia. C’è, infatti, una «notevole disconnessione tra i miglioramenti dei mezzi di sostentamento di cui beneficiano le famiglie attraverso la migrazione […] e il livello macro delle iniziative politiche, sociali ed economiche necessarie per trasformare le condizioni strutturali dei contesti di partenza dei migranti» (Zapata 2018, p. 2).
Se l’house building è certamente un processo complesso, mutevole nel tempo e articolato tra paesi diversi, si tratta comunque di un’attività concretamente rilevabile e direttamente produttiva di effetti economici e sociali. A seconda dei casi e del ruolo degli attori pubblici e privati in situ, essa può generare dinamiche di sviluppo che vadano al di là del singolo piano famigliare. Più complessa e indiretta è invece la relazione tra i processi di sviluppo locale e la seconda dimensione considerata del fare-casa, vale a dire quella dell’home making: il «sentirsi a casa», la ricostituzione di un rapporto intenso e profondo con un luogo successivamente al proprio displacement migratorio.
In tal senso, ogni migrante o rifugiato, nel momento in cui comincia a risiedere in un nuovo spazio, è esposto alla necessità di un qualche ri-r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Migrazione e sviluppo: l’esperienza delle fondazioni di origine bancaria. Prefazione di Giuseppe Guzzetti (Acri)
  6. Migrazione e sviluppo tra crisi e rinnovamento. Introduzione di Petra Mezzetti
  7. Parte prima. Dibattito: globalizzazione, migrazioni e co-sviluppo
  8. Parte seconda. Attori chiave, dinamiche ed esperienze
  9. Parte terza. Scenari e orizzonti: pratiche e politiche
  10. Conclusioni. Ripensare mobilità e sicurezza. di Sebastiano Ceschi
  11. Bibliografia
  12. Gli autori