Il paese mancato
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Il paese mancato

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Il paese mancato

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Dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta il paese è attraversato da sommovimenti profondi che coinvolgono le economie e le culture, le produzioni e i consumi, i soggetti sociali e gli immaginari collettivi. Il sopraggiungere del miracolo economico e delle speranze riformatrici del centro-sinistra e il rifluire successivo di entrambi; l'esplosione del movimento studentesco e dell'«autunno caldo», gli anni cupi della «strategia della tensione» e la «stagione del cambiamento» che sembra annunciarsi con il voto del 1974 sul divorzio e che è destinata a declinare all'indomani stesso del suo apparente trionfo, dopo le elezioni del 1975-76. Infine, il delinearsi della «crisi della Repubblica», in anni che vedono un'offensiva terroristica senza paragoni in Europa e l'evolversi di processi profondi di degenerazione delle istituzioni e della politica. Una ricostruzione fatta attraverso le fonti più diverse: i quotidiani e i periodici così come i rapporti di prefetti, polizia e carabinieri conservati nell'Archivio centrale dello Stato; i dibattiti che attraversano partiti e movimenti ma anche i film, le canzoni, la letteratura, i programmi televisivi.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432706
Argomento
Storia

VIII. L’anno e gli anni degli studenti

1. 1967: una pessima circolare del ministro Taviani…

Il 1° luglio 1966, due mesi dopo l’occupazione dell’ateneo romano, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani invia ai prefetti delle città universitarie una circolare riservatissima destinata a modificare un aspetto importante. Tradizionalmente, infatti, le forze dell’ordine intervenivano negli atenei solo su richiesta del rettore: d’ora in poi dovranno intervenire immediatamente – e anche preventivamente, se possibile – a meno che il rettore non lo vieti in modo esplicito1.
Non è questione di sfumature, e Taviani lo ribadisce il 27 gennaio 1967 con un’altra circolare riservatissima che vale la pena di riprodurre per intero:
Ministero dell’Interno. Gabinetto del Ministro
Riservatissima N. 15584/93
Oggetto: Occupazione di Facoltà da parte di studenti
Continuano a pervenire telegrammi di Prefetti di sedi universitarie, riguardanti l’occupazione di Facoltà da parte di studenti. Dalle notizie riferite nei telegrammi stessi, traggo la sensazione che non siano state sufficientemente chiare le mie precise disposizioni, impartite con circolare telegrafica numero 15584/93 del 1 luglio 1966. Ritengo perciò necessario ripeterle.
Non appena si ha notizia d’una occupazione – o della decisione in tal senso – da parte di organismi o di gruppi di studenti, il Prefetto deve subito prendere l’iniziativa di mettersi in contatto con il Magnifico Rettore e comunicargli che la Polizia procederà all’impedimento dell’occupazione, o allo sgombero, qualora essa sia già avvenuta. Solo nel caso in cui il Magnifico Rettore ponga un espresso divieto all’intervento della Polizia, il Prefetto si limiterà a far predisporre misure di vigilanza.
Il Ministro2.
Taviani ribadirà ancora queste disposizioni e Gui stesso le confermerà ai rettori nei primissimi giorni del 19683. Il rettore di Roma, da parte sua, le comunicherà pubblicamente agli studenti poco prima di autorizzare lo sgombero dell’ateneo, nel febbraio del 19684. Era difficile confermare in modo più efficace (e con effetti più disastrosi) agli occhi degli studenti il carattere autoritario che ancora segnava le istituzioni della Repubblica. Per dirla con il linguaggio degli universitari romani: la circolare «smaschera la posizione reazionaria del governo»5.
Si lasci pur perdere l’enfasi «sessantottina»: con la circolare di Taviani l’unica forma efficace di agitazione negli atenei veniva messa di fatto fuori legge. Le prime, elementari richieste di riforma didattica e di partecipazione degli studenti alle decisioni che li riguardavano diventavano rivendicazioni sovversive: procuravano manganellate e denunce, fermi e arresti.
Già nel 1967 i prefetti interpretano alla lettera le disposizioni ministeriali, ricordando talora ai rettori anche per iscritto il «dovere d’ufficio» di denunciare gli studenti che partecipano alle occupazioni6.
In questo modo modeste agitazioni diventano rapidamente mobilitazioni ampie: così è a Bari, con una manifestazione di cinquecento studenti dopo lo sgombero forzato di una limitatissima – e «minimalista» – occupazione di Chimica7. Così è a Napoli: qui il prefetto parla di un migliaio di manifestanti dopo lo sgombero di Architettura, e gli studenti denunciano «ripetute et violente cariche delle forze di polizia, che hanno fatto uso di manganelli e di catene contro gli studenti»8. E così è a Torino: un primo intervento della polizia a febbraio e la chiusura di Palazzo Campana, decisa dal rettore, provocano la protesta di diverse centinaia di studenti (un migliaio, secondo «Il Giorno», millecinquecento secondo il prefetto), «prontamente respinti da forza pubblica»9. «Mai prima d’ora – scrive «L’Espresso» – negli atenei italiani c’era stata un’agitazione tanto estesa e imponente»10. In quei giorni le occupazioni si estendono anche a Pisa: «dodici in tre anni», annotano le cronache11. Non vogliono diplomi, vogliono una scuola, scrive «Il Giorno», e riferisce così le ragioni degli studenti di Fisica:
«Noi non vogliamo diventare degli scienziati che inventano l’atomica e poi si pentono». La frase è drammatica ma assolutamente concreta. Sottoposti all’autorità del professore di ruolo gli studenti si applicano a una certa ricerca scientifica […] ma non sanno a cosa serve. Riduciamo in soldoni: uno studente viene incaricato di una ricerca su un metallo […], ma a cosa serve questo metallo? A fare un percussore di revolver o un contenitore di propellente di razzo? Gli studenti vogliono saperlo12.
Una riflessione sui contenuti del sapere sorregge dunque in varie forme la protesta, assieme alla critica alle «lezioni cattedratiche» e alla richiesta di momenti di confronto. Spigolando fra i volantini: «imparare e insegnare argomenti vivi e attuali», «partecipazione degli studenti alla ricerca», «seminari e non esami», «comitati paritetici studenti-docenti»13. Si aggiungano le richieste relative al «diritto allo studio», ben poco garantito dai limitati «presalari» istituiti nel 1963. Proprio nel 1967 inizia a circolare la Lettera a una professoressa, e nei volantini studenteschi troveremo molti suoi brani: «Fra gli studenti universitari i figli di papà sono l’86,5% […]. Fra i laureati: figli di papà 91,9%, figli di lavoratori dipendenti 8,1%»14.
Cresce anche la ricerca di nuove forme di organizzazione, con la valorizzazione dell’assemblea e la critica alle organizzazioni tradizionali. Il palazzo centrale dell’ateneo pisano, la Sapienza, viene occupato nel febbraio del 1967 da «alcune centinaia di studenti dell’Ugi, che si ribellano alle direttive della loro organizzazione», scrive Arrigo Benedetti15. Nel «documento della Sapienza» la centralità dell’assemblea studentesca e il rifiuto della delega sono ribaditi con forza, assieme a formulazioni in «politichese» d’epoca (rigorosamente marxista e ben poco comprensibile)16. Nella relazione a un’assemblea torinese Luigi Bobbio utilizza forse per la prima volta quella che sarà una parola d’ordine centrale, potere studentesco17. La propone anche in un più ampio articolo, sempre del 1967, assieme ad altre «anticipazioni»: «attraverso la preparazione universitaria si attua l’organizzazione del consenso […] e l’acquisizione della gerarchia dei valori della società del benessere»18.
Accenti convergenti vengono da assemblee milanesi19 e bolognesi20: qui e in molte altre città le iniziative contro la legge Gui si intrecciano alla mobilitazione per il Vietnam21. È spesso contestata l’inaugurazione dell’anno accademico: gli studenti vogliono porre al centro i problemi reali dell’università – scrive Corrado Stajano su «Panorama» – «rifiutando l’assurdo rito che ha per protagonisti professori in ermellino staccati da ogni realtà»22. Vengono occupate alcune facoltà anche a Genova: è un’«occupazione pacifica e piuttosto organizzata – scrive Camillo Arcuri –: al mattino assemblee e dibattito, al pomeriggio si studia in silenzio. C’è anche una chitarra fra i sacchi a pelo, le bottigliette di birra e le scatolette di carne»23.
Anche nel 1967 la mobilitazione è più estesa nelle Facoltà di Architettura. A Torino si chiedono seminari e una discussione reale sulla didattica e sulla ricerca: gli studenti occupano, la polizia interviene a più riprese, 220 studenti e assistenti sono denunciati. A Milano nuove figure di docenti – a partire dal preside, Carlo De Carli24 – si confrontano con gli studenti e accettano forme di sperimentazione che il rettore del Politecnico – invece – rifiuta: e nella pausa estiva gli assistenti volontari, che si erano impegnati nell’agitazione, sono di fatto estromessi dall’ateneo25.
È occupata anche l’Università di Venezia, ove la presenza di docenti aperti e autorevoli aveva creato da tempo un clima di confronto26. Qui l’autorità accademica rifiuta l’intervento della polizia. che entra però nell’ateneo grazie alla denuncia di un «privato cittadino»27. Questo tutore della legalità è Carlo Maria Maggi, dirigente veneto del gruppo neofascista Ordine nuovo: anni dopo sarà processato per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e per l’attentato alla questura di Milano del 197328.
La mobilitazione intellettuale e civile di un numero crescente di studenti mette alla prova organizzazioni tradizionali e istituzioni, che danno il peggio di sé.
Inizia l’associazione universitaria della sinistra, l’Ugi. In un congresso condotto a suon di colpi di mano i vertici delle Federazioni giovanili del Pci e del Psi estromettono le associazioni indocili29: sono quelle che hanno diretto le lotte studentesche nelle principali città, molti delegati comunisti seguono gli altri «eretici»30. Alla ripresa dell’anno accademico gli «sconfitti» di quel congresso guideranno le principali occupazioni, mentre l’Ugi scomparirà senza lasciare rimpianti, assieme alle altre associazioni31.
Un altro, più corposo elemento peserà a sua volta: il desolante dibattito sulla riforma universitaria che si apre in parlamento nell’autunno del 1967. Il modestissimo «piano Gui» non è sconfitto dalle agitazioni studentesche: è affossato invece dall’indecoroso e congiunto operare del conservatorismo politico e dei privilegi di casta. Nell’aula parlamentare si susseguono a raffica gli interventi di «deputatibaroni», soprattutto democristiani e liberali, che vogliono solo abolire uno dei pochissimi articoli decenti della legge: quello che prevede il «tempo pieno» e l’incompatibilità fra docenza universitaria e mandato parlamentare32.
Non poteva esservi una spaccatura più evidente e simbolica. Da un lato migliaia di studenti occupano l’Università Cattolica di Milano, Palazzo Campana a Torino, diverse facoltà a Genova, Cagliari, Pavia, e propongono letture generali – ancorché «ideologiche» – dell’università e della società italiana. Dall’altro, i deputati della Repubblica dissertano «sul diritto o meno di fare altri dieci mestieri oltre a quello per cui vengono mensilmente compensati dallo Stato»33. Scriveva Rossana Rossanda: «Poche volte il divorzio fra la realtà e il modo col quale i partiti di governo la affrontano è apparso così visibile e degradante per l’Assemblea legislativa, un deliberato e sprezzante voltar le spalle a quel che avviene nel paese per contemplare se stessi come gruppo di potere»34.

2. «Una sorprendente volontà d’agire».

Un comune denominatore sociale del movimento è fuori discussione, ma è anche vero che psicologicamente questa generazione sembra dappertutto caratterizzata dal semplice coraggio, da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento.
Hannah Arendt, Sulla violenza.
Fra il novembre del 1967 e i primi mesi del 1968 l’incendio divampa, coinvolgendo la stragrande maggioranza degli atenei italiani. L’anno successivo il movimento studentesco si estenderà con forza nelle facoltà e nelle università che erano rimaste ai margini, e investirà massicciame...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I. L’Italia fra «miracolo» e «congiuntura»
  6. II. La produzione e gli uomini
  7. III. Governo e non governo
  8. IV. Stato e istituzioni
  9. V. Nel vasto mondo
  10. VI. La sotterranea crisi delle «due Chiese»
  11. VII. «Sta succedendo qualcosa qui»
  12. VIII. L’anno e gli anni degli studenti
  13. IX. Mutamenti di scenario
  14. X. Gli anni degli operai: premesse e apogeo
  15. XI. Gli anni della «strategia della tensione»
  16. XII. Alle origini del tunnel
  17. XIII. 1974
  18. XIV. L’ultima occasione
  19. XV. La catastrofe