Storia del miracolo italiano
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Storia del miracolo italiano

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Storia del miracolo italiano

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Italia, anni cinquanta: la seconda guerra mondiale è finita ormai da qualche anno e il suo ricordo si allontana; trasformazioni radicali investono i modi di produrre e di consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro. È la fine dell'universo contadino. Irrompono nuovi gusti e più complesse culture, in un processo tumultuoso che ridisegna geografie produttive e sociali, insediamenti e poli di attrazione. L'intero paese si trasforma sotto un impulso irrefrenabile. È il «miracolo». La profondità della «grande trasformazione», e i molteplici impulsi che essa produce, vengono qui ripercorsi in un'indagine a tutto campo che analizza sia la capacità di tenuta di vecchi orizzonti mentali, sia i tratti di una «modernità» che si va affermando in modo prepotente quanto diseguale. Nell'agonia del centrismo emergono strutture e comportamenti degli apparati dello Stato largamente segnati dal fascismo, ma ora innestati nel quadro della nuova collocazione «atlantica» dell'Italia. Irrompono forme diverse di protagonismo collettivo, solo in parte eredi delle organizzazioni di massa delineatesi nel dopoguerra. Ed è l'avvento del centro-sinistra. Con questo volume, che dopo quattro edizioni nei «Progetti» Donzelli viene ora riproposto nelle «Virgolette», Guido Crainz ha dato inizio alla sua ricognizione a tutto campo della storia dell'Italia contemporanea: un percorso che ha conosciuto la sua seconda tappa con Il paese mancato, dedicato al periodo successivo, apertosi con i tumultuosi anni sessanta e chiusosi con gli scenari di stabilizzazione degli anni ottanta.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432799
Argomento
Historia

IV. La grande trasformazione

1. Alcune cifre e alcune domande.

A indicare in prima approssimazione alcuni tratti essenziali del «miracolo economico», le cifre possono esser prese a caso o quasi. Il reddito nazionale netto, calcolato a prezzi costanti del 1963, passa dai 17 000 miliardi del 1954 ai 30 000 miliardi del 1964: quasi si raddoppia, cioè, in un decennio1. Nello stesso periodo il reddito pro capite passa da 350 000 a 571 000 lire. Gli occupati in agricoltura sono più di 8 milioni ancora nel 1954, meno di 5 milioni dieci anni dopo: scendono cioè dal 40% al 25% del totale degli attivi, mentre nell’industria gli occupati passano dal 32% al 40% e nei servizi dal 28% al 35%2.
Fra i primi anni cinquanta e i primi anni sessanta gli investimenti nell’industria manifatturiera passano dal 4,5 al 6,3% del reddito nazionale lordo, la produttività industriale aumenta dell’84%. Il paese si inserisce nel positivo trend internazionale con una forza ancor maggiore: la produzione italiana è il 9% di quella europea nel 1955, oltre il 12% nel 1962. Paesi come Belgio, Svezia e Olanda sono sopravanzati, mentre è ridotto il divario storico con Inghilterra, Germania e Francia3.
È importante quanto si produce, ma anche cosa si produce: fra il 1959 e il 1963 «la fabbricazione di autoveicoli quintuplicò, salendo da 148 000 a 760 000 unità, i frigoriferi da 370 000 diventarono un milione e mezzo [...] e i televisori (che non erano più di 88 000 nel 1954) 634 000»4.
Nonostante il «miracolo economico» l’emigrazione all’estero aumenta: 250 000 persone nel 1954, una media annua di 380 000 persone nel 1960-62. All’emigrazione transoceanica si sostituisce progressivamente quella europea5, ove la Germania soppianta la Svizzera come meta principale6. L’emigrazione all’estero perde però il tradizionale rilievo a fronte delle colossali proporzioni delle migrazioni interne, che muovono più precocemente dalle campagne povere dell’Italia settentrionale e centrale e poi dal Mezzogiorno, lungo direttrici articolate e complesse. Fra il 1955 e il 1970, in base alle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche, abbiamo 24 800 000 spostamenti di residenza da un comune all’altro: 15 milioni all’interno del Centro-nord e 5 milioni all’interno del Mezzogiorno; 3 milioni seguono una direttrice che dal Sud va al Nord, un milione la direttrice opposta7. Se la prima esigenza è quella di scomporre dati così rilevanti, far emergere quello che la loro stessa corposità rischia di appannare, va innanzitutto sottolineata la grande rapidità dei processi. In Italia più che in altri paesi europei antiche aspirazioni ed elementari esigenze iniziano a realizzarsi contemporaneamente all’irrompere di consumi e bisogni nuovi. Un esempio fra tutti: l’italiano che esce dalla guerra è allo stremo, consuma 4-5 chilogrammi di carne bovina all’anno. Solo a metà degli anni cinquanta ritorna a mangiarne 9, come nel poverissimo e autarchico anteguerra: diventeranno 13 nel 1960 e 20 nel 1966, crescendo poi sino ai 25 del 1971, che resteranno sostanzialmente stabili8. All’inizio degli anni cinquanta meno dell’8% delle case possiede contemporaneamente elettricità, acqua, bagno e servizi interni: saranno quasi il 30% dieci anni dopo9. Frigoriferi e televisori irrompono dunque nelle case italiane contemporaneamente ad una alimentazione finalmente accettabile e a condizioni abitative che iniziano ad essere appena decenti: possiede il frigorifero il 13% delle famiglie italiane nel 1958, più della metà nel 1965; analogo, grosso modo, il trend dei televisori, più tardivo quello delle lavatrici.
Le moto sono un milione nel 1955, 4 milioni nel 1960 e crescono poi molto più lentamente fino al tetto di 4 300 000 del 196310. Sono sopravanzate ora dalle automobili: 1 milione al 1956, 2 milioni al 1960, 5 milioni e mezzo nel 196511. «L’Italia si rimpicciolì – ha scritto Galli della Loggia – e mentre cambiava il senso dello spazio cambiava anche la sua misura»12. Le cifre, i dati, le medie potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Annotava allora la voce amara di Luciano Bianciardi:
È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo, il consumo del pollame, il tasso di sconto, la statura media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia. Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti [...]. Io mi oppongo. Quassù io non ero venuto per far crescere le medie e i bisogni13.
Se questa era la Milano dei primissimi anni sessanta, diamo uno sguardo ai luoghi di partenza dei flussi migratori. In quegli anni Danilo Dolci intitolava Spreco un volume che proponeva alcune indagini da lui promosse in Sicilia. Sceglieva cioè di sottolineare non solo e non tanto il grandissimo quadro di miseria che quelle pagine mettevano crudamente in luce ma qualcosa di più profondo: su 100 proprietari di terreni su cui incombono le frane, annotava ad esempio, 92 non conoscono le leggi per la bonifica montana e 20 ritengono che le frane possano essere evitate solo da interventi divini e magici14. In questo contesto, gli Enti pubblici operanti (Ente di riforma agraria, Cassa per il Mezzogiorno ecc.) rappresentano esplicitamente e direttamente lo stato: i suoi valori, i suoi modi di essere, i modelli di comportamento collettivo che esso propone; e rappresentano, al tempo stesso, una via d’accesso alla modernità. Da questo punto di vista, la gestione clientelare e la corruttela che non di rado li caratterizzano15 hanno effetti devastanti che vanno ben oltre le perverse conseguenze immediate.
Si vedano anche altri aspetti, e si legga quanto scriveva il prefetto di Catanzaro alla fine del 1957:
Tutti i disoccupati sarebbero disposti a emigrare sia all’interno che all’estero se ne esistesse la possibilità [...]. La violazione della legge sul lavoro e degli accordi sindacali, specie per la miseria dei salari, è assai diffusa: i lavoratori restano in balia dei datori di lavoro [...]. Dato lo stato di bisogno e soggezione in cui versano, oltre che per ripugnanza naturale, raramente i lavoratori ricorrono allo sciopero16.
Si ascolti, anche, una delle testimonianze raccolte da Franco Alasia e Danilo Montaldi. Salvatore, immigrato a Milano dalla provincia di Caltanissetta, ha ben fatto l’esperienza delle lotte agrarie del dopoguerra, eppure ci appare «parte di una preistoria ben contemporanea»17: non solo per il suo modo di concepire le misure e le grandezze («quello n’aveva di terra, minimo minimo quattro ore di camminare con il cavallo sempre sulla sua terra»), ma per il più generale universo che dal suo raccontare costantemente emerge18. Con quali messaggi questi diversificati mondi vengono a contatto in questa fase rapidissima, convulsa e decisiva di trasformazione? In che modo nuovi bisogni e nuovi modelli culturali vengono a interagire con i precedenti orizzonti mentali, in un mondo segnato contemporanemante dall’affermarsi della scolarizzazione e da un nuovo universo della comunicazione di massa? E, ancora, quali sono i segnali che vengono dallo stato, dalle istituzioni pubbliche, in uno scorcio di anni che vede l’agonia definitiva del centrismo e l’avvio del centrosinistra (che vede, cioè, speranze e paure di cambiamento proprio sul terreno della vita collettiva e pubblica)? Si guardi pure alle logiche indotte dal mercato, ma si indaghi anche la presenza o l’assenza dello stato come ordinatore di norme, come centro di tutela di diritti e di doveri, come insieme di istituzioni cui tocca disegnare percorsi e modelli collettivi. Hanno un valore centrale i segnali che vengono – o non vengono – dai gangli decisivi della tumultuosa trasformazione: dagli stessi flussi migratori come dall’organizzazione di un territorio sconvolto, o da un mondo rurale che vede cambiare ruoli e orizzonti culturali di lunghissima durata.
E si veda, anche, come i territori e le collettività che più intensamente vivono il cambiamento trovino o meno nella propria cultura precedente, nei modi di essere maturati in una lunga storia, la capacità di interagire con i nuovi processi: di frenarne gli aspetti più fortemente disgreganti o perversi oppure di attutire le potenzialità modernizzatrici di essi.
In questo percorso, infine, è necessario indagare insieme la realtà delle trasformazioni e la loro immagine: o meglio, le immagini di esse che il paese si trovò allora ad avere, o cercò di darsi. Giornali e televisione, cinema e letteratura sono nel medesimo tempo riflesso e attori della società del boom: e come tali vanno, naturalmente, considerati.

2. Mondi rurali.

Nelle campagne, come s’è detto, vi sono 3 milioni di occupati in meno (da 8 a 5) fra il 1954 e il 1964; quasi 4 milioni in meno fra il 1951 e il 1965. Iniziando dalle aree più povere della collina e della montagna i flussi coinvolgono rapidamente anche le aree ad agricoltura avanzata, segnando la fine (o l’inizio della fine) dei diversi mondi rurali che compongono il paese. Se i primi osservatori paventarono l’avvento di «campagne senza agricoltura», altri hanno più acutamente segnalato il progressivo profilarsi di una «agricoltura senza campagne»: di processi produttivi intensificati, semmai, ma all’interno di metamorfosi radicali1.
Una diminuzione così rapida del peso dell’agricoltura avvicina semplicemente l’Italia ad altri paesi europei: senza scomodare le più precoci trasformazioni dell’Inghilterra, si veda il raffronto con Francia e Germania (tab. 1), e si tenga conto che in quello scorcio di tempo inizia il definitivo consolidamento in Europa della politica agricola comunitaria2.
L’inserzione progressiva della nostra agricoltura in un processo di modernizzazione sostanzialmente comune per l’insieme dei paesi industriali ha conseguenze di rilievo. A partire dai primi anni sessanta, ha osservato Guido Fabiani, è questo assetto internazionale ad essere sempre più determinante, e cessa progressivamente d’essere adeguata una spiegazione dell’agricoltura italiana che muova unicamente dai «caratteri originari» di essa (che muova cioè da un paradigma interpretativo radicato in una lunga tradizione e sicuramente fecondo per l’epoca precedente)3.
Si consideri inoltre il mutato rapporto fra intervento statale e produzione agricola. Fra 1951 e 1960 gli investimenti in agricoltura raddoppiano, passando da 265 a 533 miliardi. L’intervento diretto o indiretto dello stato riguarda nel 1960 il 73% di essi, mentre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Fra «continuità» e «doppio stato»
  7. II. La sinistra alla metà degli anni cinquanta
  8. III. Un anno di confine
  9. IV. La grande trasformazione
  10. V. La fine del centrismo e le nuove forme del protagonismo collettivo
  11. VI. Il riformismo perduto
  12. Dal miracolo alla crisi. Considerazioni in margine alla seconda edizione