Discorso e verità
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Discorso e verità

  1. 144 pagine
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Discorso e verità

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Chi è colui che può «dire la verità»? E quali rischi corre costui? Quanto gli può costare il suo «parlar chiaro»? E ancora: qual è il rapporto tra la verità e il potere? Deve coincidere, il dire la verità, con l'esercizio del potere, o deve essere un'attività del tutto indipendente e separata? Verso la fine del V secolo a.C., nella Grecia classica, la verità comincia ad essere percepita come un problema. Anzi, secondo Foucault, la problematizzazione della verità è l'elemento che caratterizza la fine della filosofia presocratica e l'inizio della filosofia così come ancora oggi noi la conosciamo. L'obiettivo dichiarato di queste Lezioni – tenute a Berkeley nel 1983 – è appunto quello di ricostruire, attraverso la problematizzazione del concetto di verità, «una genealogia dell'atteggiamento critico nella filosofia occidentale». Il metodo seguito è quello, rigoroso e affascinante, dell'analisi filologica. Protagonista di questo magistrale seminario foucaultiano è infatti una parola, il termine «parresìa», che connota, nella lingua greca, l'attività di colui che dice la verità. Seguendone il percorso nelle tragedie di Euripide, nei testi «socratici» di Platone, e via via in quelli di Aristotele e Plutarco, Epitteto e Galeno, Foucault restituisce a pieno le tensioni etiche della società greca, e insieme propone la questione centrale del suo metodo di indagine: vi sono momenti, nella storia del pensiero, in cui certe realtà – la verità, la criminalità, la follia, il sesso – diventano «un problema»; è su questi momenti che conviene addensare l'attenzione, è lì che bisogna indagare.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432829
Argomento
Storia

IV. La parresia e la cura di sé

1. La parresia filosofica.

La parresia socratica

Vorrei analizzare ora una nuova forma di parresia che era venuta emergendo e sviluppandosi già prima di Isocrate, Platone e Aristotele. Ci sono naturalmente importanti similitudini e analogie tra la parresia politica che abbiamo fin qui esaminato e questa nuova forma di parresia. Ma nonostante queste somiglianze, un certo numero di caratteristiche specifiche, direttamente connesse alla figura di Socrate, connotano e differenziano questa parresia «socratica».
Dovendo scegliere un testimone a proposito di Socrate come figura parresiastica, ho scelto il Lachete di Platone (noto anche come Sul coraggio, Περί ἀνδρείαϛ); e ciò per molte ragioni. Anzitutto, nonostante questo dialogo platonico sia piuttosto breve, la parola parresia vi compare tre volte (178a5, 179c1, 189a1) – tantissimo, se si tiene conto di quanto raramente Platone adoperi il termine.
All’inizio del dialogo è anche interessante notare che i diversi partecipanti sono caratterizzati dalla loro parresia. Lisimaco e Melesia, due dei protagonisti, affermano di voler dichiarare le proprie opinioni liberamente, usando la parresia per confessare che non hanno compiuto nulla di particolarmente importante, lodevole o speciale nella vita. Essi fanno questa confessione ad altri due cittadini anziani, Lachete e Nicia (entrambi famosissimi generali), nella speranza che questi ultimi vogliano anch’essi parlare apertamente e francamente, dal momento che sono abbastanza vecchi, influenti e gloriosi da poter essere franchi e non dover nascondere ciò che veramente pensano. Ma questo passo (178a5) non è quello che vorrei citare, poiché in esso il termine parresia è adoperato in un senso generico, e non evidenzia una connotazione specifica della parresia socratica.
Da un punto di vista strettamente teoretico, il dialogo è un fallimento, poiché nessuno è capace di dare una definizione razionale, compiuta e soddisfacente del «coraggio», che è l’argomento dell’opera. Ma nonostante il fatto che neppure Socrate sia in grado di dare simile definizione, alla fine del dialogo Nicia, Lachete, Lisimaco e Melesia concordano tutti sul fatto che Socrate sarebbe il miglior maestro per i loro figli. E anzi Lisimaco e Melesia gli chiedono di assumere questo ruolo. Socrate accetta, dicendo che tutti dovrebbero prendersi cura di sé e dei propri figli (201b4). E qui trovate una nozione che, come qualcuno di voi sa, mi piace moltissimo: il concetto di epimeleia eautou (ἐπιμελεία ἐαυτo
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), di «cura di sé». Abbiamo quindi, io credo, un movimento visibile nel corso di questo dialogo dalla figura parresiastica di Socrate al problema della cura di sé.
Prima di leggere i passaggi specifici del testo che vorrei citare, bisogna tuttavia ricordare qual è la situazione all’inizio del dialogo. Dal momento che il Lachete è molto complesso e intricato, potrò richiamare qui la vicenda solo in modo molto breve e schematico.
Due anziani, Lisimaco e Melesia, discutono circa il tipo di educazione da dare ai loro figli. Appartengono entrambi a eminenti famiglie ateniesi; Lisimaco è figlio di Aristide il Giusto e Melesia è figlio di Tucidide il Vecchio. Ma per quanto i loro padri siano stati un tempo illustri, Lisimaco e Melesia non hanno fatto niente di particolarmente speciale o glorioso nella loro vita: nessuna campagna militare importante, nessun significativo ruolo politico. I due usano la parresia per ammettere tutto ciò pubblicamente. E si pongono anche la domanda: «com’è che venendo da un genos (γένoϛ) così buono, da una così nobile famiglia, essi siano stati entrambi incapaci di farsi valere?». Chiaramente, come mostra la loro esperienza, avere alti natali e appartenere a una nobile casata ateniese non è sufficiente a dotare qualcuno di una disposizione e un’abilità ad assumere una posizione o un ruolo preminente nella città. Essi comprendono che ci vuole qualcos’altro, e cioè l’educazione.
Ma che tipo di educazione? Se consideriamo che il Lachete si svolge attorno alla fine del V secolo, un momento in cui moltissimi individui – la maggior parte dei quali si autodefinivano sofisti – proclamavano di poter fornire ai giovani una buona educazione, possiamo riconoscere qui una problematica che è comune a parecchi altri dialoghi platonici. Le tecniche pedagogiche che venivano proposte in quel periodo sfociavano spesso in alcune pratiche educative, per esempio la retorica (l’apprendimento del modo con cui parlare in un tribunale o in un’assemblea politica), o altre varie tecniche sofistiche, e talvolta l’addestramento militare e l’educazione del corpo. Ad Atene in quel periodo c’era anche un problema che veniva dibattuto come importante, e che riguardava il modo migliore di educare e addestrare i soldati di fanteria, che erano di gran lunga inferiori agli opliti spartani. E tutti gli argomenti politici, sociali e istituzionali circa l’educazione, che costituiscono il contesto generale di questo dialogo, si riferiscono al problema della parresia. In campo politico abbiamo visto che c’era bisogno di un parresiastes che potesse dire la verità a proposito delle istituzioni e delle decisioni politiche, e il problema era come riconoscere un simile portatore di verità. Nella sua forma essenziale, questo stesso problema riappare ora nel campo dell’educazione. Poiché se non si è bene educati, come si può decidere che cosa costituisce una buona educazione? E se il popolo deve essere educato, deve ricevere la verità da un maestro competente. Ma come si possono riconoscere i maestri buoni, portatori di verità, da quelli cattivi e inutili?
È proprio per aiutarli ad arrivare a un simile discernimento che Lisimaco e Melesio chiedono a Nicia e Lachete di assistere a una prova fornita da Stesileo, un uomo che dichiara di essere un maestro di oplomachia (óπλoμαχία), l’arte di combattere con armi pesanti. Questo maestro è un atleta, uno specialista, un attore e un artista. Il che vuol dire che per quanto egli sia esperto nel maneggiare le armi, non usa la sua abilità per combattere effettivamente il nemico, ma soltanto per far denaro, offrendo pubblici spettacoli e insegnando la sua arte ai giovani. L’uomo è una specie di sofista delle arti marziali. Dopo aver visto all’opera le sue abilità in questa pubblica dimostrazione, tuttavia, né Lisimaco né Melesio sono in grado di decidere se questa sorta di abilità nel combattere debba costituire parte di una buona educazione. Perciò si rivolgono a due figure ben note del tempo, Nicia e Lachete, e chiedono il loro parere (178a-181d).
Nicia è un generale di grande esperienza che ha riportato numerose vittorie sui campi di battaglia, e che è stato un importante capo politico. Anche Lachete è un generale rispettato, pur non avendo svolto un ruolo altrettanto importante nella politica ateniese. Entrambi esprimono la loro opinione a proposito della esibizione di Stesileo, e appare evidente che i due sono in completo disaccordo a proposito del valore di questa abilità militare. Nicia pensa che l’esperto militare abbia dato una buona prova, e che la sua abilità possa essere in grado di fornire ai giovani una buona educazione militare (181e-182d). Lachete non è d’accordo, e sostiene che gli spartani – che sono i migliori soldati di Grecia – non hanno mai fatto ricorso a simili insegnanti. Di più, egli ritiene che Stesileo non sia un soldato, dal momento che non ha riportato nessuna vera vittoria in battaglia (182d-184c). Attraverso questa discussione possiamo renderci conto che non solo i cittadini normali, privi di qualità speciali, sono incapaci di stabilire quale sia il tipo di educazione migliore, e chi sia in grado di insegnare tecniche meritevoli di essere apprese, ma neanche coloro che hanno una lunga esperienza militare e politica, come Nicia e Lachete, sono in grado di arrivare a una decisione unanime.
Alla fine, Nicia e Lachete concordano entrambi sul fatto che nonostante la loro fama, il ruolo importante svolto negli affari ateniesi, l’età, l’esperienza, e così via, è preferibile rivolgersi a Socrate, rimasto lì ad ascoltare tutto il tempo, per vedere cosa ne pensa. E dopo che Socrate ha ricordato loro che l’educazione riguarda la cura dell’anima (185d), Nicia spiega perché vuole fare in modo che la sua anima venga «messa alla prova» da Socrate, cioè perché è disposto a giocare al gioco della parresia socratica. Questa spiegazione di Nicia è, io credo, un ritratto a tutto tondo di Socrate come parresiastes:
NICIA
Non mi sembra che tu sappia che chi si trovi a ragionare con Socrate, come capita, ed entri in conversazione con lui, qualunque sia il soggetto in discussione, è trascinato torno torno ed è forzato a continuare finché non casca a render conto di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita; e una volta che c’è cascato, Socrate non lo lascia più prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte. Io che ho l’abitudine a lui so anche che è inevitabile che si sia trattati così e so pure benissimo che non gli sfuggirò neanch’io. Perché mi fa piacere, o Lisimaco, stare con lui e non credo che sia affatto male che ci sia richiamato alla mente che siamo vissuti e viviamo non bene, ch’anzi è forza maggiore che si sia più attenti per l’avvenire, se si subisce questo esame e se secondo il detto di Solone si vuole e si ritiene giusto imparare fino all’ultimo giorno di vita, senza credere che la vecchiaia da sola porti il senno. Per quanto dunque sta a me, non m’è affatto insolito, né d’altra parte inviso passare sotto il vaglio di Socrate, ch’anzi già da tempo sentivo che, con Socrate presente, il discorso non sarebbe stato più sui ragazzi, ma su noi stessi. Dunque, ripeto, quanto a me va benissimo di ragionare con Socrate come vuole1
Il discorso di Nicia descrive il gioco parresiastico di Socrate dal punto di vista di uno che è «messo alla prova». Ma a differenza del parresiastes che si rivolge al demos nell’assemblea, qui abbiamo un gioco parresiastico che richiede un rapporto personale, faccia a faccia. Così, all’inizio della citazione si afferma: «chi si trovi a ragionare con Socrate, ed entri in conversazione con lui» (187e). L’interlocutore di Socrate deve essere in contatto con lui, stabilire una qualche prossimità, per poter giocare il gioco parresiastico. Questo è il primo punto.
In secondo luogo, in questo rapporto con Socrate, l’ascoltatore è letteralmente condotto dal discorso socratico. Ma la passività dell’ascoltatore socratico non è dello stesso tipo di quella di un partecipante all’assemblea. La passività di un ascoltatore nel gioco parresiastico politico consiste nell’esser persuaso da ciò che ascolta. Qui l’ascoltatore è condotto dal logos socratico a «render conto (didonai logon, διδóναι λóγoν) di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita» (187e-188a). Dal momento che siamo inclini a leggere questi testi attraverso le lenti della nostra cultura cristiana, potremmo interpretare questa descrizione del gioco socratico come una pratica in cui colui che viene condotto dal discorso di Socrate deve dare un resoconto autobiografico della propria vita, o deve confessare i propri errori. Ma una simile interpretazione tradirebbe il significato reale del testo. Infatti, se confrontiamo questo passaggio con analoghe descrizioni del metodo di indagine di Socrate – come nell’Apologia, nell’Alcibiade maggiore, o nel Gorgia, in cui ritroviamo l’idea per cui essere condotti dal logos di Socrate equivale a «render conto di sé» – vediamo con molta chiarezza che ciò di cui si parla non è una confessione autobiografica. Nei ritratti che ne danno Platone o Senofonte, non vediamo mai Socrate pretendere un esame di coscienza o una confessione di colpe. Ancora una volta, qui, rendere conto della propria vita, del proprio bios, non significa fare un racconto degli eventi storici che hanno avuto luogo nella propria esistenza, ma piuttosto dimostrare se si è capaci di mettere in luce una relazione tra il discorso razionale, il logos, che si è in grado di usare, e il modo in cui si vive. Socrate sta indagando circa il modo con cui quel logos dà forma allo stile di vita di una persona, poiché egli è interessato a scoprire se vi è una relazione armonica tra le due cose. Più avanti, in questo stesso dialogo (190d-194b) per esempio, quando Socrate chiede a Lachete di dare ragione del suo coraggio, egli non vuole avere un racconto delle imprese di Lachete nella guerra del Peloponneso, ma sta chiedendo a Lachete di cercare di manifestare il logos che dà forma razionale, intellegibile al suo coraggio. Il ruolo di Socrate è dunque di chiedere un resoconto razionale della vita di una persona.
Questo ruolo è caratterizzato nel testo come quello di un basanos (βάσανoϛ), un «vaglio», una pietra di paragone che misura il grado di accordo tra la vita di una persona e il suo principio di intellegibilità o logos: «Socrate non lo lascia più prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte (πρὶν ἄν βασανίσ
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τα
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τα ε
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τε καὶ καλ
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ϛ ἄπαντα)» (188a). La parola greca basanos si riferisce appunto a una «pietra di paragone», cioè a una pietra nera che è usata per verificare la genuinità dell’oro, cosa che si ottiene attraverso l’esame della riga lasciata sulla pietra quando è strofinata dall’oro in questione. Allo stesso modo, il ruolo «basanico» di Socrate lo rende capace di determinare la vera natura del rapporto tra logos e bios che si realizza in quanti entrano in contatto con lui2.
Poi, nella seconda parte di questa citazione, Nicia spiega che, come conseguenza dell’esame socratico, uno può cominciare a curarsi del modo in cui vivrà il resto della propria vita, volendo ora vivere nella maniera migliore possibile; e questa volontà prende la forma di un particolare zelo nell’apprendere e nell’educare se stesso, indipendentemente dall’età che si ha.
Il discorso di Lachete, immediatamente successivo, descrive il gioco parresiastico socratico dal punto di vista di chi si interroga sul ruolo di Socrate in quanto «pietra di paragone». Sorge infatti il problema di sapere come possiamo essere sicuri che Socrate stesso sia un buon basanos al fine di misurare i rapporti tra logos e bios in chi lo ascolta:
In materia di discorsi il mio sentire, o Nicia, è semplice, o, se vuoi, non semplice ma duplice: talvolta può sembrare che li ami e talvolta che li detesti. Se ascolto qualcuno che parla della virtù o di qualche arte, che sia veramente uomo e degno dei discorsi che tiene, fortemente gioisco a contemplare come il parlante e le cose da lui dette si concordino e armonizzino. Un uomo simile lo sento proprio come un musico, che accordi in un’armonia bellissima non la lira o strumenti dilettosi, ma in realtà la sua vita stessa in accordo tra parole e azioni, secondo la musica dorica – e non ionica o frigia o lidia – che, sola, è armonia greca. Un tale uomo m’incanta di piacere con la sua voce e fa credere a chiunque che io ami i disc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Dire la verità
  6. Nota del curatore dell’edizione inglese
  7. I. Significato ed evoluzione della parola parresia
  8. II. La parresia nelle tragedie di Euripide
  9. III. La parresia e la crisi delle istituzioni democratiche
  10. IV. La parresia e la cura di sé
  11. Osservazioni conclusive
  12. Bibliografia