Quel diavolo di John Barleycorn
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Quel diavolo di John Barleycorn

  1. 226 pagine
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Quel diavolo di John Barleycorn

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Informazioni sul libro

«Ricordo che, subito dopo la pubblicazione del mio primo libro, fui invitato al Bohemian Club di San Francisco. Ci sedemmo su comode poltrone di pelle e ordinammo da bere. Non avevo mai udito un simile elenco di nomi di liquori e di cocktail a base di scotch. Conoscevo solamente le bevande dei poveri, delle città di marinai e di frontiera – birra scadente e whisky ancora più scadente. Nell'imbarazzo della scelta, ordinai un bicchiere di vino rosso, il che fece quasi svenire il cameriere – vino rosso dopo cena». Questo è solo uno degli aneddoti ironici che punteggiano quella che, a sua stessa insaputa, rimane come la vera e propria autobiografia di Jack London. Era il 1913, ed egli era all'apice del suo successo come autore di romanzi d'avventura – «libri vigorosi, vivi, ottimistici, che vanno incontro alla vita»; quand'ecco che, noncurante del rischio di scalfire tanta popolarità e soprattutto la sua immagine di narratore di grandi illusioni vitalistiche, London decide di gettare la maschera e svelare la sua seconda natura, quella «involontaria» di bevitore incallito. L'intento è dichiarato: puntare l'indice contro le regole della socialità che inducono gli uomini a bere per dimostrarsi tali, sin da piccoli. Non poteva sapere che di lì a tre anni la sua vita sarebbe prematuramente volta al termine e che quelle pagine sarebbero rimaste come la testimonianza della sua intera esistenza. Accanto alla lucida e coraggiosa denuncia che lo anima, a catturare oggi il lettore è il racconto vibrante di una vita vera, vissuta all'insegna dell'avventura e della sfida con la natura, contro i limiti del corpo e della mente. Una vita randagia, già di per sé eccezionale, che lo porterà dalle scorribande nella baia di Oakland con i «pirati» di ostriche, alle traversate artiche per la caccia alle foche, dalle rotte polverose dei cercatori d'oro del Klondike a quelle oceaniche verso il Giappone e l'Australia. Senza dimenticare la tenace disciplina che si autoimporrà dopo il successo: mille parole al giorno da produrre prima di concedersi un bicchiere o una cavalcata o un'uscita a bordo dell'amato yacht. «Martin Eden ero io», dice a un certo punto London, ricordando uno dei suoi più celebri personaggi – motivo in più per leggere questo racconto come il suo ultimo grande romanzo di avventure.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432867

IX.

La mia trasformazione in un vero e proprio bevitore avvenne gradualmente presso i pirati di ostriche, ma l’abitudine a bere pesantemente arrivò all’improvviso, e non per la necessità dell’alcol, ma per un bisogno intellettuale.
Più conoscevo la vita e più mi appassionava. Non dimenticherò mai l’eccitazione della prima volta che presi parte a una spedizione notturna. Ci radunammo tutti a bordo della Annie – uomini rudi, grossi e impavidi, e smilzi topi di banchina, alcuni ex galeotti, tutti nemici della legge e scampati alla prigione, che parlavano coi loro vocioni rochi, vestiti da lupi di mare; e Giorgio, il «Grosso», s’era perfino infilato le pistole nella cintura per mostrare che faceva sul serio.
Ah, lo so, a ripensarci ora, non erano che luride stupidaggini. Ma allora non stavo tanto a riflettere quando mi trovavo fianco a fianco con John Barleycorn e cominciavo ad accettarlo. Sapevo solo che quell’esistenza eroica e spregiudicata era la realizzazione delle avventure che avevo letto.
Nelson, «Sgraffia il Giovane», come lo chiamavano per distinguerlo da «Sgraffia il Vecchio» che era suo padre, possedeva in società con un certo Clam il caicco Reindeer. Clam era un temerario, ma Nelson era un maniaco del pericolo. Aveva vent’anni e un fisico erculeo. Quando, circa due anni dopo, gli spararono a Benicia, il medico disse che non aveva mai visto in un obitorio un uomo dalle spalle così larghe. Nelson non sapeva né leggere né scrivere, il padre l’aveva tirato su nella baia di San Francisco e le barche erano il suo elemento. Egli aveva una forza eccezionale e la fama della sua violenza in tutto il porto non era una barzelletta. Aveva accessi di rabbia e faceva gesti folli e terribili.
Lo conobbi durante la mia prima spedizione con la Razzle Dazzle, quando lo vidi staccarsi col Reindeer per dragare ostriche durante una libecciata così violenta che noi altri, con la doppia ancora, non osavamo muoverci per timore di arenarci.
Era fuori dal comune, e quando, incontrandomi al Last Chance, mi parlò, ne fui fierissimo. Ma provate solo a immaginare il mio orgoglio quand’egli mi offrì da bere. Ci appoggiammo al bancone e bevendo birra cominciammo a discorrere, da uomini, di ostriche e barche e del mistero di chi diavolo avesse mai preso a pallettoni la vela maestra dell’Annie.
Chiacchierammo e poi restammo lì al bancone. E io non riuscivo a capire perché stessimo lì. Avevamo già bevuto la nostra birra. Ma chi ero io per proporre di andarcene, se il grande Nelson voleva rimanere al bancone? Dopo qualche minuto, con mia sorpresa, mi propose di bere un altro boccale, e accettai. Restammo lì a chiacchierare, mentre Nelson non sembrava affatto disposto ad andarsene.
Voglio provare a spiegarvi il filo del mio ragionamento e la mia ingenuità. Prima di tutto, ero molto orgoglioso di stare insieme a Nelson, che era la figura più eroica fra i contrabbandieri di ostriche e gli avventurieri della baia. Disgraziatamente per il mio stomaco e per le mie membrane mucose, Nelson aveva lo strano ghiribizzo per cui provava piacere a offrirmi da bere. Io non avevo nessun pregiudizio contro la birra, e sarebbe stato assurdo se per il solo fatto che non me ne piaceva né il sapore né la consistenza, avessi rinunciato all’onore della compagnia di Nelson. Visto che bere birra e farla bere a me era il suo capriccio del momento, pazienza, mi sarei adattato a quel momentaneo inconveniente.
E così rimanemmo al bancone a parlare e a bere la birra che Nelson ordinava e pagava. A ripensarci ora, credo che fosse spinto dalla curiosità. Voleva capire che razza d’individuo fossi. Voleva vedere quante volte l’avrei lasciato offrire senza ricambiare.
Al sesto boccale, la solita prudenza mi consigliò di smettere e così trovai il coraggio per dirgli che dovevo tornare a bordo del Razzle Dazzle ancorata lì vicino.
Salutai Nelson e mi avviai lungo la banchina. Ma arrivato a sei boccali ormai John Barleycorn era già con me. Il mio cervello pulsava pieno di vita. Mi sentivo trasportato da una sensazione di virilità. Io, autentico pirata di ostriche, me ne tornavo a bordo della mia barca dopo aver bighellonato alla taverna con Nelson, il più grande di noi tutti. L’immagine di me e lui appoggiati al bancone a bere birra, era impressa nel mio cervello. E che stranezza, pensavo, quel ghiribizzo di natura che rendeva un uomo felice nel pagare da bere a uno come me, che non ne aveva voglia.
Nel riflettere, mi ricordai di aver spesso visto gli altri entrare nella taverna a due a due per bere e offrirsi da bere a vicenda. E anche quella volta a bordo dell’Idler, con Scotty e il ramponiere, non ci eravamo forse frugati le tasche alla ricerca dei pochi soldi necessari per pagare il whisky tutti insieme? E poi mi ricordai anche il codice che avevamo tra ragazzi: se un giorno uno offriva a un altro una «palla di cannone» o un pezzo di caramella morbida, si aspettava che il giorno dopo l’altro facesse altrettanto.
Ecco perché Nelson s’era attardato al bancone. Dopo il primo bicchiere, si aspettava che gliene offrissi uno io. E invece gli avevo lasciato pagare sei boccali di birra, senza offrirgliene nemmeno uno. E lui era il grande Nelson! Sentivo salire il rossore della vergogna. Mi sedetti sulla banchina nascondendomi il volto fra le mani. M’è capitato spesso di arrossire, ma mai in quel modo terribile: sentivo il calore che mi bruciava il collo, le guance e la fronte.
E seduto lì sulla banchina, divorato dalla vergogna, feci tanti pensieri e soppesai le valutazioni. Ero nato in povertà. Avevo vissuto nella povertà. Talvolta avevo patito la fame. Non avevo mai avuto giocattoli né divertimenti, come gli altri bambini. L’immagine della miseria pervadeva i miei primi ricordi. Le ristrettezze erano sempre state croniche. A otto anni avevo indossato la mia prima canottiera comprata per davvero al bancone di un negozio. E non era che una canottiera. Ogni volta che si sporcava mi toccava rimettere quelle orribili maglie di lana fatte in casa. Ero così fiero di quella canottiera, che volevo a tutti i costi portarla senza niente sopra. Fu quello il mio primo atto di ribellione alla volontà della mamma – una ribellione giunta all’isteria, finché non mi permise di portare la canottiera del negozio senza nient’altro, in modo tale che tutti la vedessero.
Soltanto chi ha conosciuto la fame può dare il giusto valore al cibo; soltanto i marinai e i viaggiatori del deserto sanno quanto l’acqua sia preziosa. E soltanto un bambino, con l’immaginazione di un bambino, arriva a comprendere il senso delle cose che non ha mai potuto possedere. Scoprii ben presto che le uniche cose che potevo avere erano quelle che riuscivo a procurarmi da solo. La mia infanzia pidocchiosa mi fece diventare pidocchioso. I primi oggetti che ero stato in grado di procurarmi da solo erano le figurine delle scatole di sigarette, i manifesti delle sigarette e gli album di figurine delle sigarette. Non avevo mai potuto disporre dei soldi che guadagnavo, perciò per potermi procurare questi tesori vendevo dei giornali in più. Scambiavo i doppioni con gli altri ragazzi, cosa che mi riusciva abbastanza facile, dal momento che ero sempre in giro per la città.
Non passò molto tempo che possedetti la serie completa di figurine di ogni fabbrica di sigarette: cavalli di razza, bellezze parigine, donne di tutte le nazioni, bandiere di tutti gli Stati, attori celebri, campioni di boxe ecc. ecc. E ogni serie l’avevo sotto tre forme: figurine, manifesti e album.
Cominciai allora a raccogliere serie intere di doppioni, e a fare gli album dei doppioni. Li vendevo in cambio di altre cose che gli altri bambini compravano con i soldi dei genitori. Naturalmente, loro non erano in grado di valutare adeguatamente le cose come sapevo fare io, che non potevo mai comprarmi quello che desideravo. Li scambiavo con francobolli, minerali, cianfrusaglie, uova d’uccelli, palline di marmo e vetro (avevo la più bella collezione di palline di quarzo che avessi mai visto in mano a un bambino; e il pezzo forte erano una manciata che valeva almeno tre dollari e che avevo ricevuto in pegno per venti centesimi da un fattorino che poi era finito al riformatorio prima di potersele riprendere).
Scambiavo qualsiasi cosa per qualsiasi altro oggetto, che poi riutilizzavo in decine di altri scambi, finché non riuscivo a procurarmi qualcosa di un qualche valore. Ero molto noto per questi scambi. Ero noto come uno spilorcio. Riuscivo perfino a imbrogliare gli straccivendoli, quando avevano a che fare con me. Gli altri ragazzi si rivolgevano a me per vendere le loro raccolte di bottiglie, stracci, ferrivecchi, semi, tele di sacco, lattine vuote, e mi pagavano persino una provvigione.
Era proprio quel ragazzo pidocchioso e spilorcio, abituato a sgobbare in una fabbrica per dieci centesimi all’ora, quello che se ne stava seduto lì sulla banchina, a ripensare alla faccenda della birra a cinque centesimi al boccale, che spariva in un attimo in cambio di niente. Ora stavo in mezzo agli uomini che ammiravo; e ne ero orgoglioso. Tutta la mia pidocchieria e i miei risparmi mi avevano forse procurato l’equivalente di un solo brivido dei tanti che avevo provato dal primo giorno di vita coi pirati di ostriche? Dunque, cosa valeva di più – il denaro o quei brividi? Quegli uomini non si facevano scrupolo di buttar via un soldo, oppure tanti. Sapevano essere grandiosamente prodighi e offrivano da bere a otto persone, con il whisky a dieci centesimi al bicchiere, come avevo visto fare a Frank il Francese. E Nelson aveva appena speso sessanta centesimi per le nostre birre.
Che cosa dovevo fare? Sentivo che mi attendeva un’importante decisione. Dovevo scegliere fra il denaro e gli uomini, fra la meschinità e l’avventura. O gettavo a mare tutte le mie valutazioni sul denaro e cominciavo a considerarlo qualcosa da spendere con spensieratezza, oppure gettavo a mare l’amicizia di quegli uomini con la loro strana mania di bere a dismisura.
Tornai sui miei passi verso la taverna dove trovai ancora Nelson sulla soglia. «Vieni a bere un bicchiere», gli proposi. Ed eccoci di nuovo al bancone a bere e chiacchierare, ma questa volta fui io a pagare dieci centesimi! Il frutto di un’ora intera di lavoro alla macchina, per una bevuta di qualcosa che non desideravo e che mi faceva schifo. Ma non fu difficile. Avevo acquisito il concetto. I soldi non contavano più. Ciò che importava era solo l’amicizia. «Ancora un altro?» proposi. Ne prendemmo ancora un altro, e io pagai. Nelson, che aveva la saggezza del bevitore incallito, disse al taverniere: «A me una piccola, Johnny». Il taverniere gli riempì il bicchiere solo di un terzo, ma il prezzo non cambiò: cinque centesimi.
Ormai ero abbastanza brillo e non soffrivo più di quella stravaganza. E poi, imparavo. Capivo che pagando da bere si pagava qualcosa di più della mera quantità. L’avevo toccato con mano. Si arrivava a un punto in cui la birra non aveva più alcuna importanza, contava solo il cameratismo del bere insieme. Ah, ma c’era dell’altro! Anch’io adesso potevo ordinare una birra piccola e ridurre di due terzi il pesante tributo che l’amicizia mi imponeva.
«Son dovuto tornare a bordo a prendere i soldi», commentai fra un discorso e l’altro, mentre bevevamo, nella speranza che Nelson l’avrebbe accettato come una giustificazione per il mio comportamento di prima.
«Oh, ma non c’era bisogno», rispose. «Johnny ti avrebbe fatto credito. Non è vero Johnny?».
«Ma certo!», assicurò Johnny sorridendo.
«Quanto ti devo io?», chiese Nelson.
Johnny trasse un libraccio da sotto al bancone, cercò la pagina intestata a Nelson e tirò una somma di parecchi dollari. Fui colto dall’improvviso desiderio di avere anch’io una pagina in quel registro. Sembrava quasi la certificazione definitiva della mia virilità.
Dopo un altro paio di boccali, che insistetti per pagare io, Nelson decise di andarsene, e ci separammo da veri amici. Io mi avviai lungo la banchina verso il Razzle Dazzle dove il Ragno stava preparando il fuoco per la cena.
«Dove sei stato?», mi chiese ridacchiando con tono cameratesco.
«Oh, sono stato con Nelson», dissi con aria d’indifferenza cercando di mascherare l’orgoglio che provavo.
Poi mi venne un’idea: eccone un altro. Una volta acquisito il concetto, tanto valeva praticarlo fino in fondo: «Andiamo da Johnny, a bere un bicchiere».
Strada facendo incontrammo Clam, il socio di Nelson, un aitante uomo di trent’anni, audace e baffuto. «Vieni anche tu, andiamo da Johnny», e venne anche lui. Arrivati alla taverna incrociammo Pat, il fratello della Regina, che stava uscendo.
«Perché tanta fretta?», lo salutai. «Andiamo a bere un goccio, sei dei nostri?».
«Ho appena finito», disse sulle sue.
«E che importa? Noi incominciamo adesso», replicai. Pat si lasciò persuadere e mi insinuai nelle sue grazie con un paio di boccali di birra. Ah! Ne imparai di cose su John Barleycorn, quel pomeriggio. In lui c’era qualcosa di più del sapore cattivo di quando lo ingoiavi. Per esempio, con la modesta somma di dieci centesimi, un lugubre e odioso individuo che minacciava di diventare tuo nemico, si trasformava in un buon amico. Divenne perfino cordiale, i suoi occhi brillavano di simpatia e le nostre voci si mescolavano nei pettegolezzi sul molo e sui banchi di ostriche.
«Piccola per me, Johnny», chiesi dopo che gli altri ebbero ordinato birra. Certo, lo dissi col tono di un bevitore consumato, con scioltezza, senza pensarci, come un’idea spontanea venuta lì per lì. Ripensandoci, sono sicuro che l’unico a sospettare che fossi un neofita della taverna era proprio Johnny Heinhold.
«Dov’è stato?», sentii il Ragno che chiedeva di nascosto a Johnny.
«Be’, è rimasto qui tutto il pomeriggio a ciondolare con Nelson», rispose Johnny.
Finsi di non aver sentito niente, ma altro che fiero! Perfino il taverniere mi dava il diploma di virilità. «È rimasto qui tutto il pomeriggio a ciondolare con Nelson». Parole magiche!
L’encomio di un taverniere con un boccale di birra!
Mi ricordai che il giorno in cui avevo comprato il Razzle Dazzle, Frank il Francese aveva offerto da bere anche a Johnny. I nostri boccali erano pieni e stavamo per bere. «Prendi qualcosa anche tu, Johnny», dissi come se fosse stata mia intenzione fin da principio e come se il ritardo dipendesse dall’essermi attardato in una interessantissima conversazione con Clam e Pat.
Johnny mi squadrò sorpreso, indovinando, ne sono certo, tutti gli sforzi che facevo per migliorare e si servì dalla sua personale bottiglia di whisky. Pensai: il whisky costa il doppio della birra! Ma fu l’ultimo sprazzo della mia avarizia: liquidai quel pensiero come ignobile, ricordando la mia nuova teoria, e non me ne curai.
«Metti tutto sul mio conto, questa volta», dissi a Johnny quando finimmo di bere; ed ebbi la soddisfazione di vedere una pagina del registro intestata col mio nome e con un debito appuntato a matita di trenta soldi. E intravidi, come in una specie di nebbia dorata, un futuro in cui quella pagina sarebbe stata appuntata, poi cancellata, e nuovamente appuntata.
Offrii da bere a tutti in un’altra occasione e allora, con mia grande sorpresa, Johnny si riscattò rispetto alla volta precedente. Offrì un giro a tutti da dietro il bancone, e calcolai che aveva pareggiato egregiamente i conti.
«Andiamo alla St. Louis House», suggerì il Ragno appena restammo da soli. Pat, che aveva spalato carbone per tutta la giornata, era andato a casa e Clam era tornato a bordo del Reindeer a preparare la cena.
E così il Ragno e io andammo alla St. Louis House – la mia prima volta –, una grande taverna dove si erano radunate forse una cinquantina di persone, per la maggior parte scaricatori di porto. E lì rividi Soup Kennedy e Bill Kelley. Poi arrivò Smith, della Annie – quello delle pistole alla cintura. E comparve anche Nelson. Conobbi molti altri fra cui i fratelli Vigy, padroni del posto, e soprattutto Joe Goose, dagli occhi malvagi e il naso storto, sempre con vestiti a fiori, che suonava l’armonica come un angelo fracassone e prendeva certe note che perfino gli abitanti del porto di Oakland sentivano e ammiravano.
Nel pagare da bere – si offriva a turno – mi ricordai a un tratto che, coi guadagni della settimana, non sarei riuscito a ripagare di molto il debito con Mammy Jennie. «E che importa?», pensai, o meglio, pensò John Barleycorn per me. «Ora sei un uomo e stai facendo amicizia con altri uomini. Mammy Jennie non ha bisogno dei soldi così in fretta. Non muore certo di fame. Lo sai bene. Ha altri soldi in banca. Lasciala aspettare, e glieli restituirai poco a poco».
Così conobbi un altro aspetto di John Barleycorn: inibisce la moralità. Certe cose che non faresti mai da sobrio, diventano facilissime quando non sei più sobrio. D’altra parte non puoi fare diversamente, dal momento che l’inibizione di John Barleycorn si erige come un muro tra i tuoi desideri del momento e i tuoi precetti di moralità di vecchia data.
Scacciai il ricordo del mio debito verso Mammy Jennie, mi feci nuovi amici e mi buscai una sbornia solenne sprecando con indifferenza il mio insignificante denaro. Non so chi mi riportò a bordo quella sera e mi rimise a letto, ma credo sia stato il Ragno.

X.

E così conquistai i galloni della virilità. Mi guadagnai subito una buona fama nel porto e fra i pirati di ostriche. Ero considerato un tipo in gamba e per niente codardo. E non so come, ma dopo le mie riflessioni sulla banchina di Oakland, non mi è più importato niente del denaro. Da allora nessuno mi ha più considerato un pidocchioso, mentre la mia indifferenza per il denaro è fonte di ansia e preoccupazione per qualcuno che mi conosce.
Ruppi così definitivamente col mio parsimonioso passato che mandai a dire a mia madre di dare via tutte le mie raccolte ai ragazzi del vicinato e non mi curai nemmeno di sapere chi avesse avuto l’una o l’altra. Ormai ero un uomo e spezzai tutti i legami che potessero unirmi alla mia infanzia.
La mia reputazione era sempre più alta. E quando in porto si seppe che ero riuscito, impugnando un fucile carico a doppia canna, e governando la barca con i piedi, non solo a dife...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Frontespizio
  4. I.
  5. II.
  6. III.
  7. IV.
  8. V.
  9. VI.
  10. VII.
  11. VIII.
  12. IX.
  13. X.
  14. XI.
  15. XII.
  16. XIII.
  17. XIV.
  18. XV.
  19. XVI.
  20. XVII.
  21. XVIII.
  22. XIX.
  23. XX.
  24. XXI.
  25. XXII.
  26. XXIII.
  27. XXIV.
  28. XXV.
  29. XXVI.
  30. XXVII.
  31. XXVIII.
  32. XXIX.
  33. XXX.
  34. XXXI.
  35. XXXII.
  36. XXXIII.
  37. XXXIV.
  38. XXXV.
  39. XXXVI.
  40. XXXVII.
  41. XXXVIII.
  42. XXXIX.