IV. Memoria letterale e memoria esemplare
1. United States Holocaust Memorial Museum a Washington versus Jüdisches Museum a Berlino.
Se il museo è il luogo dove muoversi in modo sistematico, dove un itinerario indirizzato comunica un messaggio preciso e intenzionale, il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Eisenman a Berlino ne costituisce l’antitesi: lungi dall’indirizzare, lascia liberi di attraversare senza meta i suoi plurimi e labirintici percorsi.
I memoriali e i mausolei di cui ci siamo sinora occupati pertengono all’ambito artistico: risvegliano attraverso un’idea, un gesto, un’immagine, la memoria di un evento, di un personaggio, di un periodo storico, lasciando, nei casi qui privilegiati, ampio margine di autonomia interpretativa al riguardante che, nell’ipotesi radicale della scomparsa del monumento, assume su di sé l’intera responsabilità della testimonianza.
Diversa la missione del museo: ospitare storia e storie attraverso oggetti, immagini, documenti, sistemi virtuali e interattivi. In modo obiettivo, apparentemente. «I musei sono i luoghi dove la memoria si tramuta in storia, come dire dove si pietrifica negli oggetti»: così Wajcman1, rinfocolando l’annosa disputa tra storia e memoria.
Una sentenza che omette in realtà due variabili. La prima è la presunta obiettività della narrazione storica. Il modo in cui gli stessi eventi sono raccontati, infatti, non è affatto univoco ma piegato a ragioni storiche, politiche e sociali, alla «religione civile» del paese ospitante. Ciò che è meno scontato, invece, è la non neutralità del contenitore architettonico sul «come» e sul «cosa» raccontare.
Abbiamo detto di Yad Vashem a Gerusalemme, grande opera in progress, che intreccia, nella pluralità di episodi monumentali e museali, la memoria della Shoah con la storia dello Stato d’Israele: memoria prima rimossa, poi abbrivio della rinascita, prova provata della necessità dello Stato. E le braccia spalancate dell’architettura di Moshe Safdie esprimono quel messaggio con sintesi efficacissima.
Nella messe di musei realizzati soprattutto negli ultimi trent’anni, ne selezioniamo tre: uno in Israele, il secondo negli Stati Uniti, il terzo in Europa. Non perché siano gli unici architettonicamente rilevanti, ma in quanto esemplari di tre diverse attitudini progettuali e dunque di tre diversi approcci alla storia e alla memoria. Il Museon Israel di Gerusalemme, il museo nazionale d’Israele, è opera dell’architetto Alfred Mansfeld: realizzato nel 1965, ha riaperto di recente i battenti dopo un lungo restauro e un riallestimento della collezione. Consiste del museo vero e proprio, a carattere enciclopedico, con 500 000 pezzi, di cui l’87% donazioni, che spaziano dalla preistoria all’arte contemporanea, attraverso una molteplicità di sezioni: archeologia, manoscritti, viale delle sinagoghe, oggetti dalla diaspora, arte israeliana, dipartimento di educazione, parco sculture… Una collezione che racconta la storia dell’ebraismo, non si limita semplicemente a documentarla: questa la prerogativa. Il contenitore consiste di moduli stereometrici di dimensione diversa, la cui altezza variabile è stabilita dai dislivelli della collina su cui poggiano. Tutti uguali ma tutti diversi, adottano un linguaggio universale ma aperto, flessibile e moltiplicabile, autonomo ma integrato al paesaggio antichissimo, in dialogo con le preesistenze monumentali del monastero bizantino dei crociati, ma anche con gli edifici contemporanei della Knesseth e dell’università. Assimilabile a un villaggio per il carattere allo stesso tempo disaggregato e coeso ma anche a un’acropoli per l’impervio percorso di avvicinamento e per la visione di scorcio dei singoli episodi architettonici. Un museo, insomma, in pace con se stesso e con l’intorno, con cui dialoga e si relaziona. Chissà se, nel progettare il memoriale di Berlino, in tutt’altro e assai meno armonico contesto, Eisenman non abbia tenuto conto dei moduli di Mansfeld, la cui diversità è affidata all’orografia del terreno, e la cui aggregazione «non compositiva» è memore di Sol LeWitt che, proprio nel 1965, muove i primi passi minimalisti. The Shrine of the Book, dove sono custoditi i preziosi Rotoli del Mar Morto, è parte del museo ma linguisticamente dissonante: opera di Frederick Kiesler, noto per gli organismi a guscio, le cavità scabre, le aggregazioni non finite, ha una forma originale e anomala: a pianta circolare, con un profilo sinuoso che evoca e asseconda le colline circostanti.
58. Alfred Mansfeld, Museo d’Israele, Gerusalemme, 1965.
Gli Stati Uniti sono per certi versi vicini a Israele: lontano dal teatro degli eventi, accolgono gli esuli in fuga dal nazismo prima e liberano i campi di sterminio poi, per ospitare infine nel 1945 profughi e dispersi. A differenza di Israele, però, devono raccontare a milioni di persone estranee alla storia del popolo ebraico tragedie occorse a distanze siderali. Di qui la scelta del United States Holocaust Memorial Museum (Ushmm) di Washington di presentare i fatti epicamente, con grande enfasi documentaria, in un contenitore appariscente ed esuberante.
Prima di entrare nel merito delle singole declinazioni architettoniche, vale sottolineare che, nel caso di Gerusalemme e Berlino, si tratta di musei ebraici che raccontano, nel primo caso, l’intera storia del popolo ebraico, nell’altro quella degli ebrei tedeschi, in particolare di Berlino. A Washington, invece, la Shoah da approdo assurge a protagonista del percorso museale. La differenza è sostanziale. La Shoah è un pezzo tragico, il più tragico, della storia millenaria dell’ebraismo: se nell’immediato dopoguerra, grazie all’afasia dei sopravvissuti, è a lungo rimossa e assorbita all’interno dei crimini del nazifascismo, a partire dagli anni sessanta, soprattutto in concomitanza con il processo Eichmann, assume una fisionomia autonoma la cui rilevanza nelle ultime decadi del XX secolo rischia di relegare nello sfondo il contesto storico che l’ha originata. L’era del testimone è il titolo dello straordinario saggio di Annette Wieviorka2: ripercorre la storia del peso crescente assunto nel tempo dalla testimonianza, da trascrizione privata a memoria della vita nei ghetti durante l’occupazione nazista o dell’esistenza di comunità distrutte da pogrom ed esilî, al suo uso pubblico decisivo in occasione del processo Eichmann nel 1961, fondato essenzialmente sulle testimonianze dei sopravvissuti. Se queste ultime hanno l’effetto «del fuoco in quella gelida stanza che è la storia», il processo «cambia le carte in tavola: il testimone è portatore di storia. In tal modo, l’avvento del testimone trasforma profondamente le condizioni stesse della scrittura della storia del genocidio»3. L’opinione di Wieviorka combacia così con quella di Wajcman sui musei e, potremmo aggiungere, con quella dell’artista portoghese Pedro Cabrita Reis quando dichiara: «Se la storia è una carovana nel deserto»4, con una rotta precisa e un sistema astronomico di riferimento, la memoria sono i suoi detriti, abbandonati lungo il tragitto, con cui l’artista costruisce un’altra storia, ondivaga e spaesata, precaria e temporanea. Storia versus memoria, l’una contro l’altra armata. Negli anni settanta e ottanta, anche sull’onda dell’emozione prodotta dalla guerra dei sei giorni e da quella del Kippur, la Shoah e la sua memoria acquistano via via un posto di primo piano nel dibattito politico internazionale; con qualche intenzione strumentale. Come attesta la vicenda travagliata dell’Holocaust Memorial di New York, la cui prima pietra è posata nel 1947 e il cui progetto, a firma del grande architetto Erich Mendelsohn, è abbandonato nel 1954. Se, a giudicare dall’iscrizione che accompagna la lapide sul luogo predestinato, i martiri della Shoah sono ricordati dopo gli eroi del Ghetto di Varsavia, nello stesso spirito di Yad Vashem, le ragioni addotte da Wieviorka per la mancata realizzazione sono eminentemente politiche: non contrariare la Germania di Adenauer nel momento della trattativa sulle «riparazioni» e, in tempi di guerra fredda, non rischiare l’anatema di filosovietici. La situazione si ribalta completamente negli anni settanta: da comprimaria nella storia della Resistenza al nazismo, la Shoah assurge a protagonista. Avulsi dalle cause e dal contesto che li rendono possibili, gli eventi raccontati divengono assoluti e autoreferenziali, incapaci di rendersi riconoscibili sotto altre spoglie. Come avverte Tzvetan Todorov nel testo capitale Gli abusi della memoria:
Dobbiamo mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per restare attenti di fronte al manifestarsi di situazioni certamente nuove, ma a volte analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione degli altri, non sono identiche a quelle di cinquanta, cento o duecento anni fa; nondimeno noi dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente. Ancora oggi, la memoria della Seconda Guerra Mondiale è viva in Europa, sostenuta da innumerevoli commemorazioni, pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche o televisive; ma la ripetizione rituale del «non bisogna dimenticare» non ha alcuna visibile incidenza sul processo di purificazione etnica, di torture e di esecuzioni di massa che nello stesso tempo si verificano all’interno stesso dell’Europa5.
Contro il «culto» della Shoah, avulsa dalle ragioni storiche che l’hanno originata, si pronunciano anche Claudio Vercelli ed Enzo Traverso: «Lo sterminio viene privato della sua qualità di prodotto di una volontà affermatasi politicamente e quindi storicamente identificabile […]. La Shoah è ridotta al problema del “come” – delle tecniche di attuazione appunto – e non del “perché”»6. «La memoria di Auschwitz si offusca via via che all’evento storico viene sostituito un complesso museale e visivo chiamato “Olocausto”, il quale rimuove ogni sforzo di rimemorazione, di riflessione e di comprensione critica, sostituendovi una crescente condensazione emotiva. Il cuore diventa, in questo caso, il surrogato di un’introspezione critica del tutto assente»7, incalza Traverso. E Claudio Magris, nel discorso pronunciato nel 2009 al Quirinale in occasione del Giorno della memoria:
Anche la Shoah esige la comprensione storica e la storia, come sappiamo, non è né giustiziera né giustificatrice, bensì è – o dovrebbe essere – intelligenza delle cose. Ma con ciò si pone una contraddizione, in quanto la Shoah si è trasformata da storia criminosa a evento metafisico, a male assoluto, e rifiuta di essere compresa, superata in quel giudizio storico che è, diceva Croce, «oltre il rogo» e dunque più sereno che furente. Ma è possibile guardare alla Shoah con la serenità dello storico «oltre il rogo»? Non significherebbe smussarla, relativizzarla, ridurne l’orrore? D’altronde è angoscioso che la Shoah possa paralizzare per sempre ogni giudizio storico, «trascendere» la storia – come afferma Wiesel – e dunque, in qualche modo, sconfiggere l’umana capacità di fare i conti con tutta la propria realtà, di cui si è artefici, vittime, complici, responsabili. Ma come è possibile inquadrarla storicamente e contemporaneamente mantenere il senso della sua assolutezza?8
Un interrogativo ancora aperto.
Negli Stati Uniti il fenomeno è ancora più esasperato.
La Shoah è divenuta un simbolo centrale nell’identità degli ebrei americani. Incontri pubblici su temi ebraici sono incompleti senza...