I. Una storia a ritroso
Esiste anche un giusto pessimismo, senza del quale non si fa nulla di grande. Esso è la forza amara che rende il cuore coraggioso e lo spirito operoso capace di opere durevoli.
Romano Guardini
Ho vissuto in diretta il collasso della classe dirigente del Pd in occasione della mancata elezione di Romano Prodi al Quirinale. Nella storia collettiva, come in quella delle persone, a volte c’è un evento che costringe a rivedere il passato sotto una luce diversa.
Sul piano personale ho sentito uno strappo con la mia parte. I famosi 101 non hanno esitato a metterci in ginocchio per tornare al governo con la destra. Eppure erano i «fratelli di lotta», le persone che abbiamo avuto accanto in tante battaglie. Erano i nostri «fratelli Giuda» per indicare, con le parole di don Primo Mazzolari1, una sorta di «peccato» che è in noi, non fuori di noi. Da quel giorno ho cominciato a esprimere pubblicamente il dissenso. Non si fa a cuor leggero. Nel mondo antico da cui provengo la disciplina non era un vincolo regolamentare, ma un atto spirituale: il senso nobile di sacrificare il proprio punto di vista a favore di un pensiero collettivo che si fa azione; anzi di più, una terapia antinarcisistica che regala la forza di trovarsi insieme agli altri a cambiare il mondo. Quando comandano i 101 non si può dare disciplina.
Sul piano storico, il 19 aprile 2013 è una data che periodizza la crisi della sinistra italiana. Quel giorno si colloca nell’intersezione tra diversi cicli politici in via di esaurimento: il fallimento della seconda Repubblica, lo sfinimento della generazione postcomunista e cattolico-democratica, la crisi dell’Europa di Maastricht, l’indebolimento del trentennio liberista. È stato un evento storico poiché raccoglie i fili del passato e proietta interrogativi sul futuro.
Nel presente mette in luce una verità più amara. La sinistra politica si trova oggi al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, come mai era accaduto, neppure nei momenti più difficili. Riconoscerlo è il primo atto per risalire la china.
1. Collasso.
L’evento diventerà un case study su come si suicida lo stato maggiore di un partito. Jared Diamond ha classificato le forme di Collasso dei popoli nei diversi continenti ed epoche, soffermandosi sulla civiltà dell’isola di Pasqua, caratterizzata dallo splendore delle sue grandi sculture, che scomparve improvvisamente dalla storia2. Si trattava di una comunità chiusa e divisa dall’inimicizia tra diversi clan. La tensione tra la forza divisiva interna e la forza centripeta che veniva dalla chiusura con l’esterno sprigionò un’energia autodistruttiva. La somiglianza col Pd è inquietante.
Se l’evento è tanto importante bisogna ricostruirne la cronaca. Mi rimarrà sempre nella memoria il gelo che sento intorno a me nella riunione della Direzione post voto mentre dico apertamente al segretario che è un errore candidarsi a premier dopo l’insuccesso elettorale. Almeno la metà di quella sala la pensa allo stesso modo, ma non lo dice, con un’ipocrisia che anticipa già l’esito dei 101. Il tentativo di costituire un governo di minoranza al Senato si arena di fronte al rifiuto del presidente, che interviene già nel merito manifestando la sua preferenza per l’accordo Pd-Pdl. In quel momento Bersani dovrebbe candidare un’altra personalità di sinistra per cercare una maggioranza possibile, e invece prosegue con il doppio binario di un’ampia condivisione per la scelta del Quirinale e di un «governo di combattimento». Questa linea consegna la soluzione del problema nelle mani di Berlusconi, il quale, mostrando una sapienza tattica di gran lunga superiore, sceglie in una rosa di nomi la candidatura di Marini, che avrebbe consentito un’alleanza di governo «a bassa densità», cioè un governissimo sotto mentite spoglie. Nell’assemblea dei gruppi del Pd la candidatura è bocciata da quasi la metà dei parlamentari, tra contrari, astenuti e non partecipanti al voto, ma i capi si ostinano a proseguire verso il primo fallimento. Presi dal panico, ribaltano la linea politica con la candidatura di Prodi. Il fondatore del Pd, uno dei politici italiani più stimati nel mondo, è affondato solo perché inviso al Cavaliere. Una minoranza impone all’intero partito la sua linea politica, non avendo né il coraggio né la forza di proporla a viso aperto nel dibattito. È un’abdicazione senza onore. È il collasso della classe dirigente.
Risulta patetico spiegare l’intera vicenda con l’indisciplina dei parlamentari, che nel caso delle elezioni al Quirinale è costituzionalmente protetta dal voto segreto. I franchi tiratori hanno una cattiva fama. Eppure, per merito loro sono stati eletti i migliori presidenti, da Einaudi a Pertini a Scalfaro3. In quel geniale partito che era la Dc – bisogna riconoscerlo – svolgevano una funzione moderatrice, di equilibrio e di saggezza, contro le decisioni rigide delle segreterie dei partiti. L’elezione del presidente, infatti, è il momento più creativo della vita parlamentare, poiché trasforma le posizioni di parte nell’elevazione del tutto. Non era mai accaduto invece che una parte strappasse il patto elettorale appena stipulato per fare il governo con la parte avversa, utilizzando il Quirinale come pedina.
Il collasso è un evento improvviso, ma è sempre preceduto da una lenta incubazione. Di seguito si cerca di comprenderne le cause vicine e lontane con un’inusuale esposizione a ritroso degli eventi, che può risultare scomoda per il lettore (e me ne scuso), ma è nella natura dei pensieri militanti.
Lo storico studia gli accadimenti secondo la freccia del tempo dal passato al presente. Il militante, invece, ribalta l’asse del tempo nel tentativo appassionato di spiegare gli affanni di oggi tramite gli errori di ieri. Il primo tra i suoi pensieri è la genealogia delle occasioni perdute. Per trovare nuova energia nella lotta.
La crisi della sinistra italiana merita l’angelo di Benjamin che ha lo sguardo rivolto all’indietro sulle sconfitte, mentre il vento della storia lo spinge in avanti.
2. Il bilancio di una generazione.
Con la sconfitta elettorale del 2013 il Pd ha perso la partita che vale il campionato tirando in tribuna un calcio di rigore a porta vuota. È arrivato impreparato alla fine della seconda Repubblica e ha perso l’occasione di guidare il paese verso il futuro. Il ventennio si chiude senza che la sinistra sia riuscita a battere definitivamente il berlusconismo. Il 19 aprile si è consumato il fallimento della nostra generazione. Per riconoscerlo ci vorrebbe sincerità e responsabilità. Aiuteremmo la generazione successiva a non ripetere i nostri errori. È utile ricordarli almeno a chi, tra i miei coetanei, ritiene troppo severo questo giudizio.
Nelle sconfitte storiche pesano le forze ostili dell’epoca – in queste pagine si tenterà di descriverle – ma esse risultano decisive solo quando trovano alimento nelle scelte anche piccole e apparentemente passeggere di coloro che a posteriori vengono chiamati perdenti. Provo a elencarle come promemoria di un autolesionismo da cui liberarsi in futuro.
Il primo e il più grave degli errori, da cui discendono tutti gli altri, è stato ammainare la bandiera dell’Ulivo che tante speranze aveva suscitato nel paese. Dopo il successo europeo la capacità riformatrice invece di innalzarsi si abbassò, fino alla stanca conclusione dei governi di centrosinistra. Si diede per persa la battaglia del 2001 prima di combatterla, con la fuga dalle responsabilità dei massimi dirigenti e la mai chiarita dabbenaggine nel mancato accordo con Di Pietro che avrebbe potuto ancora salvare l’esito elettorale. Dall’opposizione non si prepararono idee nuove per il governo, e non bastarono le quasi 300 pagine del programma elettorale per nascondere l’improvvisazione che emerse nel secondo Prodi e già prima in campagna elettorale. Le confuse dichiarazioni sulle soglie di reddito per la patrimoniale sperperarono il vantaggio elettorale accumulato. Si diede un brutto segnale agli elettori portando la composizione del governo, tra ministri e sottosegretari, al record di 101, un numero davvero fatale per il centrosinistra4. Dopo le «lenzuolate» sulle liberalizzazioni sembrò possibile recuperare il consenso, ma nei mesi successivi il governo infilò due autogol. Il provvedimento sull’indulto finalizzato meritoriamente a svuotare le carceri – ma privo di misure strutturali, tanto è vero che oggi si invoca il bis – fu un vero suicidio in quel momento di tensione sulla sicurezza. Poi venne la manovra fiscale, con l’annuncio in pompa magna di sgravi per i lavoratori che non ci furono e la riduzione del cuneo che invece regalò miliardi di euro agli industriali. Montezemolo incassò il risultato e prese a pesci in faccia il governo, per poi piegare la testa con la destra senza ottenere un euro. A fine anno crollarono i consensi e in una parte dell’opinione pubblica nacque una sfiducia verso la capacità di governo del centrosinistra che è durata fino a oggi.
Più gravi furono gli errori politici causati da una mentalità da ceto che si impadronì del gruppo dirigente del centrosinistra, inibendone la sagacia tattica. Dopo la vittoria elettorale del 2005 i capi di Ds e Margherita pensarono prima di tutto a come disporsi nei futuri incarichi istituzionali. Per non perdere qualche seggio parlamentare vietarono le liste regionali, legate ai governatori appena eletti, che avrebbero assicurato la vittoria al Senato. Per lo stesso motivo non presentarono la lista unitaria Ds-Margherita, che invece ottenne un ottimo risultato alla Camera. Si perse la piccola maggioranza di un seggio rinunciando ai voti di Marini e Napolitano eleggendoli alle massime cariche istituzionali. Si poteva, invece, offrire alla destra la seconda carica, facendo un bel gesto istituzionale e aumentando il margine di maggioranza. Infine, nel 2006 bisognava fare le primarie dei parlamentari, restituendo alla propria gente il diritto di scelta che la destra aveva negato a tutti gli elettori. Sarebbe stata la più dura e la più creativa contestazione del Porcellum e avrebbe portato tanti voti5.
A questa incredibile sequela di errori tattici si aggiunse una progressiva incomprensione dei mutamenti in atto nella società italiana. Si sono manifestati nei referendum del 2006 e del 2011, come è sempre accaduto in queste consultazioni, dal divorzio, all’aborto, alla preferenza unica. Quasi trenta milioni di italiani hanno salvato la Costituzione e hanno affermato il primato dei beni comuni. Si sono mobilitati senza trovare una guida nei dirigenti del Pd, che anzi hanno vissuto con fastidio quelle vittorie cercando di archiviarle prima possibile. A suscitare la partecipazione non era certo la questione tecnica degli acquedotti, era invece la saggezza popolare che, di fronte alla crisi più grave del secolo e dopo trent’anni di liberismo, chiedeva di uscirne con la solidarietà, con la dignità del lavoro e con i beni comuni. Un grande partito di sinistra avrebbe dovuto cogliere l’occasione, fare un congresso tipo Bad Godesberg per darsi un nuovo programma fondamentale e predisporre una campagna di mobilitazione per ottenere risultati a favore dei giovani e dei ceti popolari. Italia Bene comune, invece, è diventato uno slogan privo di proposte concrete.
La primavera del 2011 è l’ultimo momento utile per uscire a sinistra dalla crisi della seconda Repubblica. La mobilitazione spontanea dell’elettorato vince per la prima volta contro la destra a Milano, e a Napoli, a Cagliari. Perdono tutti i candidati sindaci espressi dal Pd, ma i dirigenti nazionali si intestano comunque il successo e proseguono per la propria strada. Non trovando una sponda a sinistra l’indignazione si coagula sotto le uniche bandiere disponibili della lotta alla casta. L’establishment accarezza la protesta con i suoi giornali per delegittimare tutti i partiti, al fine di impedire che il berlusconismo, di cui aveva ampiamente beneficiato, cadesse a favore della sinistra.
Il Pd manca l’unica risposta possibile – cioè intestarsi una lotta coerente ai privilegi per passare alla controffensiva dimostrando che non sono tutti uguali – e arriva indebolito alla fine della maggioranza di destra, trovandosi costretto ad accettare l’emergenza del governo tecnico. Da quel momento non si riesce più a rimettere al popolo la decisione elettorale, come invece si è fatto in una decina di paesi europei, anche quelli in forte difficoltà di bilancio, con risultati che hanno sempre stabilizzato i governi. Bersani non ha il coraggio di mettere in discussione il governo Monti neppure nella primavera del 2012, quando è già evidente il suo logoramento e ancora non è esploso il consenso grillino. Sceglie di fare le primarie in autunno invece di vincere subito le secondarie. Il coraggio non manca invece a Berlusconi, che riesce a presentarsi come forza di opposizione alle elezioni dopo aver votato tutte le leggi. La nostra campagna elettorale rivela una grave carenza di cultura di governo, come mai si era vista prima. Ce la caviamo dicendo «un po’ di equità e un po’ di lavoro», ma non può bastare nel cuore della più grande crisi del secolo. A destra, invece, calano con chiarezza gli assi, dall’Imu all’attacco all’austerità europea, facendosi capire dal proprio elettorato.
3. Due dissolvenze dall’Ulivo.
Avevamo fondato il Pd per risolvere la transizione italiana, ma l’obiettivo non è stato raggiunto. Con le primarie di Veltroni nel 2007 sembrò davvero possibile. Mi impegnai con entusiasmo nei dibattiti dei circoli di base. Ovunque scoprivo un potenziale enorme da mettere a frutto: a San Basilio, un quartiere popolare romano, il capo della vecchia sezione della Dc ricordava all’anziano compagno del Pci quando gli impediva di attaccare i manifesti ed entrambi ci scherzavano sopra, trovandosi ormai a lavorare insieme; all’assemblea di Donna Olimpia, altro luogo pasoliniano, oltre la metà dei partecipanti erano persone mai entrate prima in una sezione di partito e costringevano tanti vecchi militanti come me a ragionare diversamente dal passato. Nei circoli del Pd, in quel momento, si riscriveva la storia e si preparava l’avvenire. Invece gran parte degli ex-dirigenti di Ds e Margherita continuarono a fare le stesse cose di prima sotto una nuova bandiera. Quel ceto politico cambiò partito per conservare se stesso.
Si trascinò per inerzia l’organizzazione notabilare, senza cogliere l’occasione di inventare forme originali di associazione politica, pur tornando a scrivere nel simbolo la parola partito dopo tanto tempo. Milioni di persone alle primarie diedero la disponibilità a spendere un’ora di tempo per il Pd. Era il momento di canalizzare la partecipazione della domenica nell’attività dei giorni feriali, coinvolgendo quei cittadini nelle scelte e mettendoli in connessione tra loro secondo i diversi interessi di territorio o di issues. Il popolo delle primarie poteva costituire la base di un moderno partito popolare. Questa innovazione organizzativa non fu neppure pensata, gli elenchi dei partecipanti furono riposti nei cassetti e si puntò tutto sui talk-show televisivi.
Anche l’altra parola, democratico, conteneva un’opportunità da sviluppare. Ha un significato forte, ma rischia di banalizzarsi nell’uso quotidiano. Un partito che si chiama democratico vuole organizzare la democrazia, cioè alimentare i valori e i legami sociali che ne consentono la crescita. Di questo ci sarebbe bisogno come il pane per creare un nuovo ordine in una società incerta e smarrita di fronte alla crisi mondiale. E invece quella parola è stata scritta nel simbolo senza pensarci più di tanto, continuando a fare politica al vecchio modo.
Anche sul piano elettorale l’attrazione del nome democratico si è ristretta sia sul lato radicale sia su quello moderato. Sul primo si è consolidata negli anni duemila un’area di oltre il 10% che all’inizio esprimeva un’intransigenza democratica, per poi maturare sempre di più una sfiducia generalizzata verso il sistema dei partiti, fino all’esplosione grillina. Aver lasciato radicalizzare questi elettori ha indebolito la funzione di governo del Pd. Eppure non c’era alcun ostacolo ideologico che impedisse di rappre...