III. Titolo V: si riforma la riforma?*
1. Il federalismo si è inceppato!
È in atto oggi un sostanziale «blocco» del cantiere istituzionale del federalismo; per certi versi addirittura un vero e proprio smantellamento dell’edificio federale che ora appare poggiato su un terreno franoso. La crisi, oltre a gravose difficoltà economiche, ha portato con sé una ventata accentratrice che ha inficiato alcuni cardini delle autonomie conquistate nel decennio trascorso. Illustri costituzionalisti, economisti e storici confidavano che l’attuazione del federalismo potesse allocare le funzioni normative e amministrative in una dimensione molto vicina al cittadino partecipe:
Occasione irripetibile per rompere i cattivi miti che hanno tanto gravemente pesato sulla storia della nostra amministrazione […] l’attuazione del federalismo fiscale può offrire l’occasione per colmare il limite principale delle esperienze dell’intervento speciale, che non sono riuscite a generare una vera cooperazione fra governo dello Stato centrale, Regioni e sistema delle autonomie1.
Sulla carta, il federalismo infatti, secondo i commentatori più entusiasti, aveva il merito di garantire più trasparenza e più controllo da parte dei cittadini. «Per decenni ha dominato uno statalismo senza Stato», ricorda Renato Brunetta, scontando «il costo, sovente distorsivo, senza beneficio» dell’aumento della spesa pubblica, e chiarisce che: «La virtù principale del federalismo fiscale è di far sì che i cittadini abbiano molto chiaro a chi pagano le tasse e chi fa uso del reddito prelevato»2. Si propone, per questa via, un «federalismo competitivo» in grado di estendere la disciplina di mercato alla politica.
Regioni e Comuni avrebbero potuto dunque finanziare l’erogazione dei servizi mediante l’accesso al gettito erariale (le entrate dello Stato), in particolare l’Iva, incanalando inoltre tributi propri, fruendo infine anche del fondo perequativo, istituito nel 2001, per riequilibrare eventuali squilibri tra le Regioni e garantire a tutte determinati livelli essenziali di servizi.
Eppure, quando ormai il federalismo sembrava in fase di piena realizzazione, le speranze collettive sono state deluse da una serie contorta di interventi che ne hanno rallentato e in qualche misura svuotato l’impulso riformatore, fino a incrociare la grande crisi del 2007-2008.
Per contrastarne gli effetti devastanti e col dichiarato scopo di contenere la spesa pubblica, l’ordinamento istituzionale è stato proiettato in una direzione opposta a quella fin lì seguita, ricorrendo a misure addirittura impensabili di limitazione dell’autonomia finanziaria, funzionale e organizzativa degli enti locali, decise con lo strumento del decreto legge. Il modello organizzativo orizzontale, basato sulla condivisione e sulla partecipazione, che aveva caratterizzato l’esperienza dell’avvio del federalismo fiscale, è stato rapidamente sostituito da un modello prettamente verticale, ispirato a una logica gerarchica neocentralista.
In questa singolar tenzone tra centro e periferia i decisori politici smarriscono le ragioni strutturali e la peculiarità della crisi italiana.
«Oggi è a rischio la coesione sociale», ammoniva un anno fa la Banca d’Italia3. L’Italia cresce di meno e, al suo interno, si sono anzi aggravati gli squilibri generazionali e territoriali, ha sottolineato con puntiglio il governatore Ignazio Visco, sollecitando l’autocritica per l’intera classe dirigente, poiché: «Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi 25 anni».
E infatti non si può non evidenziare che forse troppo sbrigativamente in questi ultimi anni ha prevalso l’equazione «riduzione della spesa = riduzione dell’autonomia», basata sul presupposto che per affrontare la crisi bastasse risanare il debito e contenere la spesa. Da ciò il prevalere dello strabismo istituzionale teso a comprimere gli spazi conferiti agli enti locali, arrivando a sfumare quel barlume di autonomia finanziaria faticosamente avviato con la riforma del Titolo V nel 2001 e poi precisato con la legge delega nel 2009.
Anzi, nel corso degli anni, è andato avanti, fino a prevalere, un vero e proprio «commissariamento a macchia d’olio» in settori importanti, dalla sanità ai rifiuti, al risanamento ambientale, affidando i poteri straordinari agli stessi presidenti di Regione, in alcuni casi corresponsabili dei guasti politici che avevano obbligato lo Stato a commissariare le diverse strutture. In Calabria addirittura, per recuperare l’ampio deficit della spesa sanitaria, è prevalso, negli ultimi anni, un totem chiamato tavolo Massicci, perché intestato a un dirigente del ministero del Tesoro4.
Ed è proprio nel servizio sanitario che l’Italia è ancora spaccata a metà:
Nel 2012 nel Centro-Nord su 100 ricoverati si dichiaravano soddisfatti dei servizi ospedalieri quasi un cittadino su due (43%, con punte del 56% nel Nord-Est), al Sud meno di 1 su 5 (19,6%). Il «turismo sanitario», che misura la percentuale di emigrati in altra regione sul totale dei ricoveri, flette leggermente in dieci anni, passando al Sud dal 10,7% a 9,4%; ma è sempre una cifra doppia rispetto al Centro-Nord (5%)5.
Infine non si può non osservare che la via dei commissari al risanamento della spesa, in più casi e in più regioni, si è impantanata ai confini dell’illegalità, specie nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
Al Sud dal 2009 al 2011 la percentuale di rifiuti destinati alla discarica è scesa dal 71 al 57%, per arrivare poi nel 2012 al 51%, quota ancora decisamente distante dal Centro-Nord (33%). Distanza di venti punti anche riguardo alla raccolta differenziata, praticata nel 2012 dal 46% della popolazione al Centro-Nord e dal 26% al Sud6.
Oggi giustamente c’è chi rimarca in termini netti che è «tutto da ridefinire il rapporto dialettico centralismo-decentramento che ha segnato gli ultimi vent’anni della storia d’Italia»7. A partire ovviamente dalla più aggiornata valutazione, che sarà illustrata nelle pagine successive, degli effetti duplici di tale impostazione sia sul fisco che sulla pubblica amministrazione. Non prima di aver concentrato brevemente lo sguardo su alcune significative tappe dell’itinerario federalista, dopo le importanti riforme degli anni novanta, dalle leggi n. 142/1990 e n. 59/1997, alla riforma del Titolo V, alla legge attuativa n. 42/2009 e alla norma costituzionale sul principio del pareggio di bilancio votata in Parlamento nel 20128.
2. Dallo Stato accentrato a quello «federale a costituzione invariata».
La prima decisione formale di superamento dello Stato centrale, per come era stato definito sin dal percorso risorgimentale, si era manifestata esplicitamente con l’elezione dei Consigli regionali del 1970 e con l’approvazione degli Statuti, promulgati il 22 maggio 1971, ad eccezione di quelli dell’Abruzzo e della Calabria, definiti nel luglio successivo a causa dei ritardi provocati dalle aspre lotte per la scelta del capoluogo, con ferite laceranti fino all’istituzione di due sedi istituzionali in ciascuna di queste regioni9. In particolare, «la suicida rinuncia della Calabria a un centro di direzione unitario ha esasperato più che in altre regioni la dispersione della spesa e la bassa qualità dei servizi»10.
Circa trent’anni dopo, con l’approvazione della legge delega n. 59 del 15 marzo 1997 (c.d. legge Bassanini), era stato attuato un decentramento amministrativo, etichettato come «federalismo a costituzione invariata», con la definizione dei principî fondamentali di sussidiarietà, efficienza ed economicità, cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali, responsabilità e unicità dell’amministrazione pubblica.
Detta legge era fortemente ispirata all’attuazione dell’art. 3 che affidava alla Repubblica il compito di porre in essere tutte quelle misure atte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale del principio di eguaglianza per tutti i cittadini. Si conferiscono pertanto alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi «relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici»11. Si configura insomma un massiccio e rilevantissimo trasferimento di funzioni amministrative, e dei connessi beni e risorse, dall’amministrazione statale verso le amministrazioni regionali e locali, esaltando per la prima volta in modo esplicito nell’ordinamento italiano il principio di sussidiarietà, già presente nella normativa europea.
Si può oggettivamente riconoscere che l’approvazione di detta legge ha rappresentato una prima, embrionale risposta alle istanze secessionistiche provenienti da talune aree del Nord del paese. Nel frattempo infatti la Lega, forte del consenso conseguito nelle elezioni politiche del 1992, esaspera la tutela di egoismi nordisti proponendo la secessione delle regioni settentrionali, indicate collettivamente come «Padania».
Gianfranco Miglio, teorico del movimento indipendentista, elabora, già nel dicembre 1993, un progetto di stravolgimento dello Stato unitario, conosciuto come «decalogo di Assago», che prevede la creazione di tre macroregioni e la conservazione delle cinque regioni a statuto speciale esistenti.
In quel periodo, la Lega Nord su queste basi programmatiche estende un movimento che si caratterizza con alcune iniziative eclatanti fino all’occupazione con le armi in pugno di piazza San Marco issando la bandiera della secessione sul campanile.
Le forze politiche e sociali di centrosinistra si interrogano a buon diritto e a più riprese sulle ragioni del consenso calamitato dalle proposte indipendentiste12, ma il travaglio della riflessione incide sull’elaborazione e sulla strategia parlamentare che sbocca nella riforma del Titolo V approvata con legge costituzionale n. 3/2001.
Alcune disposizioni sono tuttavia eclatanti. L’articolo 117 è stato ribaltato, con la definizione dettagliata non solo delle materie soggette alla potestà legislativa statale e alle «competenze concorrenti»13, bensì anche del principio che affida altre materie al potere esclusivo delle Regioni.
L’enunciazione delle materie di pertinenza esclusiva dello Stato pone implicitamente come più rilevante la competenza regionale rispetto a quella statale, fino a favorire un’interpretazione tendenziale verso una futura trasformazione dell’Italia in una Repubblica federale.
La vicenda, si sa, è molto più complessa.
«Il problema è che oggi si fa molta confusione con i termini», commenta Luigi Ventura. «Quando sento parlare di federalismo ad esempio, mi pare che spesso ci si riferisca soltanto ad una migliore attuazione dell’autonomia normativa, politica, finanziaria e del decentramento di cui all’art. 5 della Costituzione. Non bisogna farsi fuorviare. Il federalismo è divenuto una bandiera per certe forze politiche e un semplice motivo di propaganda per altre»14.
Chiarito che «in natura non esiste un federalismo per scissione», che gli Stati federali si sono formati per aggregazione di Stati a ...