I matti del duce
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I matti del duce

  1. 256 pagine
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I matti del duce

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Mania politica, schizofrenia, paranoia, isterismo, distimia, depressione. Sono queste le diagnosi che compaiono nei documenti di polizia o nelle cartelle cliniche intestate agli oppositori politici rinchiusi in manicomio negli anni del fascismo. Diagnosi più che sufficienti a motivare la segregazione per lunghi anni o per tutta la vita. Quali ragioni medico scientifiche hanno giustificato il loro internamento psichiatrico? Quali, invece, le ragioni dettate dalla politica del regime contro il dissenso e l'anticonformismo sociale? Molto si è scritto rispetto all'esperienza degli antifascisti in carcere o al confino, ma la possibilità che il regime abbia utilizzato anche l'internamento psichiatrico come strumento di repressione politica resta ancora poco indagata. Attraverso carte di polizia e giudiziarie, testimonianze e relazioni mediche e psichiatriche contenute nelle cartelle cliniche, Matteo Petracci ricostruisce i diversi percorsi che hanno condotto gli antifascisti in manicomio. Alcuni furono ricoverati d'urgenza secondo le procedure previste dalla legge del 1904 sui manicomi e gli alienati; altri vennero internati ai fini dell'osservazione psichiatrica giudiziaria o come misura di sicurezza; altri ancora furono trasferiti in manicomio quando già si trovavano in carcere e al confino. Dall'analisi degli intrecci tra ragioni politiche e ragioni di ordine medico emerge con forza il ruolo giocato dalla sovrapposizione tra scienza e politica nella segregazione di centinaia di donne e di uomini, tutti accomunati dall'essere stati schedati come oppositori del fascismo.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433048

I. L’internamento negli ospedali psichiatrici provinciali

Il primo canale di accesso degli antifascisti in manicomio che prenderemo in considerazione è rappresentato dall’internamento psichiatrico nei manicomi provinciali: l’internamento civile, che colpiva soggetti che non avevano commesso nessun reato e, conseguentemente, non dovevano subire nessun processo. Nello stesso tempo l’internamento civile era diverso anche da un provvedimento di Ps. Non si doveva infatti riunire nessuna Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, come invece avveniva, lo vedremo nel terzo capitolo, per la diffida, l’ammonizione politica o l’assegnazione al confino. Per far rinchiudere d’urgenza un soggetto, potevano essere sufficienti una segnalazione, un’ordinanza di Pubblica sicurezza e un certificato medico; senza clamori, senza proteste, in silenzio.
Tuttavia, a condurre gli schedati politici in manicomio non era soltanto una decisione d’autorità, ma un percorso nel quale ognuno dei soggetti giocava il proprio ruolo: il regime, ai suoi più alti livelli, che in qualche caso indicò il ricorso all’internamento psichiatrico per uno specifico schedato politico; le autorità periferiche di Ps – questure, prefetture e podestà – nel ruolo di esecutori degli ordini superiori ma protagoniste esse stesse di episodi nei quali sembra emergere una volontà punitiva più che sanitaria; gli schedati politici poi manicomializzati, infine, che con le loro condotte e loro azioni contribuirono a far maturare negli organi di polizia la convinzione che essi potessero realmente rappresentare un pericolo per il fascismo. Convinzione che a volte poteva essere fondata, altre volte basata solo sulle testimonianze di soggetti più o meno interessati, altre ancora costruita intorno a teoremi insussistenti e falsati dall’interpretazione paranoica di fatti e circostanze insignificanti.
Dai documenti emerge che più che da una singola causa molto spesso il ricorso al manicomio fu determinato dall’emergere di concause integratesi tra loro. Se le ragioni dell’internamento potevano essere molteplici e tra loro concomitanti, le procedure seguite restavano però sempre le stesse: quelle previste dalla legge sui manicomi e gli alienati del 1904, rimasta perarltro invariata fino alle prime riforme della fine degli anni sessanta e alla definitiva riforma Basaglia, con la legge 180 del 1978. La rivoluzione fascista, che negli anni avrebbe progressivamente aumentato le distanze che la separavano dall’Italia liberale, con la definitiva messa a bando della libertà di stampa, delle libertà sindacali e politiche e infine con la soppressione della Camera dei deputati e la sua sostituzione con la Camera dei fasci e delle corporazioni, si fermò davanti alle porte dei manicomi, dimostrando una sostanziale continuità con i governi precedenti, almeno rispetto alle norme che regolavano l’internamento e la gestione delle strutture.
Ciò dipese dal fatto che, come vedremo, la legge del 1904 presentava in sé caratteristiche di flessibilità ed elasticità d’interpretazione che la rendevano permeabile a un regime impegnato sin dall’inizio a mettere fuori gioco gli oppositori e a colpire il dissenso, con ogni mezzo. In particolare, si dimostrò particolarmente efficace la possibilità di internare d’urgenza un soggetto, quanto meno per il tempo necessario all’osservazione. Nella maggioranza degli internamenti psichiatrici di schedati politici il ricovero venne disposto ricorrendo a questa procedura, che si caratterizzava per l’elevata arbitrarietà della decisione.
I casi che sono stati esaminati mettono in luce diverse personalità e diversi percorsi individuali, caratterizzati dallamilitanza politica o dalla devianza e dalla marginalità (o dall’insieme di questi fattori). Questa circostanza rende necessario differenziare coloro per i quali la schedatura di polizia era contemporanea alle segnalazioni del loro squilibrio mentale, da coloro, invece, per i quali questa risaliva a tempi precedenti. Occorre cioè distinguere coloro che, volendo semplificare, erano considerati già pazzi e, a causa delle loro azioni e intenzioni avevano dato modo di pensare a un’appartenenza politica classificabile genericamente come dissenso antifascista, da coloro che erano innanzitutto antifascisti e soltanto dopo sarebbero diventati, o sarebbero stati rappresentati, come dei malati mentali. Nel primo caso, le possibilità che nel manicomio fossero ricercate delle soluzioni punitive sembrano ridursi. Le informazioni, almeno secondo gli elementi raccolti dalla polizia sul conto di questo tipo di internati, restituiscono biografie segnate dalla devianza sociale o dai segni di un’effettiva alienazionementale. Nel secondo caso, invece, le segnalazioni sullo squilibrio psichico miravano a screditare personalità che, seppur integre dal punto di vista della condotta sociale e morale, erano abbondantemente segnate dal tratto della pericolosità politica. A quel punto, il riconoscimento della follia trasformava velocemente i soggetti da oppositori in vere e proprie minacce sociali. Nello stesso tempo, per questa seconda tipologia di internati si evidenzia la finalità repressiva perseguita attraverso il ricovero psichiatrico, e, come vedremo, affiorano con maggior nitidezza le forzature operate dagli organi di polizia rispetto alle poche garanzie previste dalla legge a tutela dei diritti individuali.
Il caso di Antonio, operaio del Livornese e soldato nella prima guerra mondiale, potrebbe essere rappresentativo del primo gruppo. Sconosciuto alle autorità di polizia, nel 1935 inviò una lettera alla Società delle nazioni e al negus d’Etiopia, chiedendo di essere arruolato come volontario «nell’esercito abissino», che da poco aveva cominciato a difendersi contro l’aggressione italiana. Significativamente, insieme alla definizione di «antifascista» annotata a margine della descrizione del «colore politico», il suo fascicolo conserva quella di «squilibrato mentale» scritta a fianco della richiesta di indicazione di segni particolari, come cicatrici, tatuaggi, «deformità» e altro. Era già stato ricoverato una volta nel 19281.
Diversamente, Luigi era conosciuto alle autorità sin da prima della marcia su Roma per essere stato un «fervente repubblicano, intelligente e battagliero». Come Antonio, anche Luigi era un ex combattente. Nato a Pisa nel 1886, in gioventù era emigrato a Montebelluna, dove si era avvicinato allamilitanza politica e, insieme allamoglie, era stato impiegato nella segreteria dell’onorevole Guido Bergamo, nel periodo in cui il parlamentare – già interventista di sinistra e decorato sette volte in guerra, fondatore dei Fasci di combattimento a Bologna da cui si era poi distaccato – aveva trasformato il Trevigiano in una roccaforte del Pri. Dopo l’affermazione del fascismo, Luigi aveva cominciato a esercitare la professione di viaggiatore di commercio e la polizia sospettava che nei suoi frequenti viaggi trovasse più di un’occasione per dedicarsi alla propaganda. Il 9 giugno del 1925, giorno antecedente il primo anniversario del rapimento di Matteotti, fu arrestato perché aveva convinto alcune donne a esporre una fotografia del deputato socialista con «un lumicino e dei fiori rossi». Nel maggio del 1927 venne diffidato dalla questura di Treviso e, dopo poche settimane, fu rimpatriato a Pisa: a quel punto cominciò il suo calvario. Non riusciva a trovare lavoro e, trovandosi disoccupato e senza mezzi di sussistenza, cominciò a vivere una «vita turbolenta». Decise di tornare dalla moglie e dai due figli che cominciavano a risentire economicamente della sua assenza, cosa che fece nel maggio del 1928, ma venne quasi subito arrestato e condannato a un mese e mezzo di carcere, scontati i quali fu ricondotto a Pisa. Scrisse allora una lettera a Mussolini, inviandone una copia anche alla prefettura, dove si diceva «senza mezzi» e incapace di «resistere». Era troppo lontano dalla famiglia: non poteva né aiutarla né «vigilarla». Doveva assolutamente raggiungerla. Non negava i suoi trascorsi repubblicani e rivendicava i suoi meriti di «primissimo interventista» e combattente. La lettera arrivò sul tavolo della Segreteria particolare del capo del governo il 20 luglio 1928. Luigi era già stato fatto internare nel reparto di osservazione dell’ospedale di Pisa: la prefettura sosteneva fosse stato colpito da nevrastenia. Dopo più di sei mesi passati in ospedale, il 24 gennaio del 1929 venne internato nel manicomio di Volterra2.

1. La legge del 1904 e il regolamento del 1909.

La legge denominata «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati» era stata approvata nel febbraio del 1904. Essa stabiliva che dovevano essere «custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale» qualora risultassero «pericolose a sé od agli altri» o provocassero «pubblico scandalo»sociale, e che, a maggior ragione. In via ordinaria, l’ammissione dei ricoverati poteva essere chiesta da familiari, dai tutori e «da chiunque altro», sempre in tutela degli «interessi degli infermi e della società». Ogni autorità locale di pubblica sicurezza poteva ordinare il ricovero in via provvisoria, ma soltanto in caso di urgenza e sulla base di un certificato medico. Dopo un periodo di osservazione, che non avrebbe dovuto superare i trenta giorni, l’eventuale internamento definitivo sarebbe stato deliberato dal tribunale locale, «in base alla relazione del direttore del manicomio». A quest’ultimo veniva riconosciuta la piena autorità sugli aspetti sanitari, economici e organizzativi dell’istituto, mentre restavano in carico alle province le spese per il mantenimento degli alienati poveri; la vigilanza sul funzionamento degli istituti era affidata al ministero dell’Interno e ai prefetti3.
Arrivata abbondantemente in ritardo rispetto al resto d’Europa, la legge fu una risposta «all’impressionante aumento dei ricoverati» che si era registrato negli anni delle profonde trasformazioni sociali, politiche ed economiche introdotte in Italia dalla seconda rivoluzione industriale4. Infatti, dal 1875 ai primi anni del Novecento, gli internamenti negli istituti per alienati avevano fatto registrare una progressione costante, sia in termini assoluti che in proporzione al totale degli abitanti. Alla fine del 1902, in un clima di urgenza e necessità alimentato dalla pubblicazione dei risultati di un’inchiesta condotta sull’Ospedale psichiatrico di Venezia, il ministro Giolitti presentò un progetto di legge che avrebbe provocato uno scarso dibattito parlamentare e che non sarebbe stato approvato prima di aver recepito le istanze del mondo psichiatrico, che riuscì alla fine a far reinserire il principio della piena autorità della direzione medica sul funzionamento interno dei manicomi. Un principio che era stato sempre presente nei progetti elaborati in precedenza, anche se poi erano rimasti lettera morta. Luigi Lucchini – giurista liberale e tra i pochi parlamentari a sollevare delle perplessità nel corso del dibattito – definì «sconfinato e quasi dispotico» il potere che si stava così riconoscendo agli psichiatri, dato che, vista l’incompetenza tecnica del tribunale, il procuratore del re si sarebbe potuto basare solo sul giudizio dei medici5.
Le preoccupazioni di Lucchini si sarebbero poi rivelate fondate. Il numero dei ricoverati negli ospedali psichiatrici, che già era cresciuto progressivamente tra gli anni settanta dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo – passando da 12 913 ricoverati nel 1875 a 36 845 nel 1902 –, non trovò un freno nell’individuazione della magistratura come autorità deputata alla decisione sull’internamento definitivo. Già nel 1905 i ricoverati erano aumentati ancora, arrivando a superare le 39500 unità6.
La procedura d’internamento d’urgenza da eccezione divenne subito regola, trasformandosi da garanzia per la cura del malato, nel caso in cui i familiari restassero inerti di fronte alla malattia, in un’arma di «attacco alla libertà individuale» dei soggetti, colpiti senza che nessuno potesse intervenire in loro difesa (perché la procedura non prevedeva l’assuzione delle considerazioni provenienti dai parenti o dall’ambiente del malato) e senza l’attivazione di altri meccanismi di accertamento e di tutela (in quanto nella procedura d’urgenza non erano previste le testimonianze giurate, che fondavano invece la procedura ordinaria)7.
Un’interpretazione delle ragioni di questa progressione del numero dei ricoveri appiattita troppo sulla relazione diretta tra internamento e andamento delle strategie repressive e di controllo sociale sarebbe però riduttiva e correrebbe il rischio di limitare la comprensione della complessità del fenomeno. La legge del 1904 non va infatti considerata come la registrazione di una volontà meramente repressiva esercitata dal potere politico e subita, loro malgrado, dagli psichiatri, ma piuttosto come l’intreccio tra i propositi di una classe politica che si richiamava all’assunto della «pericolosità del malato di mente» – per «pregiudizio» e «per una logica di difesa sociale dalle classi subalterne» – e la volontà di una parte del «sapere medico» che da tempo spingeva per partecipare alla riforma delle istituzioni finalizzata «alla repressione dei comportamenti antisociali»8. Alla fine, la si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. Introduzione
  7. I. L’internamento negli ospedali psichiatrici provinciali
  8. II. L’internamento psichiatrico nei manicomi giudiziari
  9. III. L’internamento psichiatrico degli antifascisti in carcere o al confino
  10. IV. La vita in manicomio