Parte quarta
Le poesie
Avvertenza
I componimenti lirici conservati nel Fondo Lico si presentano, nella maggior parte dei casi, come copie di lavoro sulle quali Alvaro interviene a correggere, modificare, ritoccare. Ricchi di cassature e di cancellature (non sempre decifrabili del tutto), tali componimenti sono, il più delle volte, trascritti in diverse copie, da Alvaro ma, forse, anche dallo stesso Lico (in alcuni casi pare, infatti, di cogliere una «calligrafia diversa» da quella dello scrittore di San Luca). Si è constatato che, nelle varie trascrizioni, le copie che non presentano cassature e interventi sono attribuibili proprio a questa «calligrafia diversa» che, di volta in volta, trascrive le varie poesie; si suppone che tale calligrafia possa essere di Lico, anche perché presenta tratti di somiglianza con la mano che ha scritto la Biografia su Alvaro. Questa nostra ipotesi non ci porta, comunque, a escludere che tale «calligrafia diversa» possa essere dello stesso Alvaro, che magari, trascrivendo, ha utilizzato una scrittura più «ponderata» e «meditata», sganciata dall’estro creativo estemporaneo. E tuttavia, è facile osservare che laddove esiste una trascrizione alvariana con poche cassature, quasi una «bella copia», la scrittura che ne risulta sembra differire da questa «calligrafia diversa». Insomma il dubbio permane.
Per alcune liriche, inoltre, si è potuto notare come le diverse trascrizioni, relative allo stesso componimento, differiscano tra loro per la presenza di alcune varianti (puramente grafiche o significative); in questi casi è stata individuata la trascrizione alvariana che – limitatamente ai componimenti conservati nel Fondo Lico – risulta essere l’ultima sulla quale lo scrittore ha lavorato. Laddove, invece, esiste una trascrizione dattiloscritta, si è mantenuta in toto – al di là delle varianti presenti – tale versione. Più difficile si è presentata la ricostruzione testuale di quei componimenti per i quali il Fondo Lico conserva soltanto delle carte – di sicura mano alvariana – che presentano correzioni e cassature frequenti e ripetute. In questi casi, è stato possibile decifrare la scrittura di Alvaro grazie alle trascrizioni delle liriche fatte, probabilmente, da Lico.
Inoltre, per rendere più scorrevole la lettura, sono state attuate nei componimenti (soprattutto nei casi in cui mancava una versione definitiva) alcune modifiche dei segni di interpunzione.
Si segnala infine che, non di rado, per quanto riguarda il Fondo Lico la stessa scrittura di Alvaro presenta una calligrafia astrusa, di getto, e quindi difficile da sciogliere e da comprendere.
Tali premesse suggeriscono la necessità di ulteriori studi e analisi filologico-critiche del materiale (soprattutto per quei componimenti che mancano di una «bella copia» e si presentano con cassature e correzioni frequenti), utili anche per meglio comprendere l’approccio di un giovane scrittore alla poesia classica e contemporanea.
I versi giovanili di Corrado Alvaro
di Pasquale Tuscano
Corrado Alvaro iniziò a scrivere, e a fantasticare, ancora ragazzo. A diciassette anni si pose «con le Muse in disciplina»1, come scrisse di se stesso fanciullo il Leopardi, che a dieci anni aveva tradotto in versi il primo libro delle Odi di Orazio. I primi componimenti poetici di Alvaro che conosciamo portano la data «Agosto 1912»: Eliodora e I due ricordi; seguono Avvento di Redenzione, La genitura e Nozze d’oro, scritto per l’occasione di un cinquantesimo anniversario di matrimonio. Certamente avrà composto dei versi anche prima, e molti ne avrà recitati e improvvisati. La poesia era una componente familiare di casa Alvaro. Il padre, Antonio, era maestro elementare di discreta cultura, che, per un paese aspromontano, era la sapienza fatta persona, colui al quale si guardava come al «regolatore di tutte le manifestazioni del nostro villaggio – scriverà Alvaro in Memoria e vita – come voce della tradizione, come testimone e fedele […]. Rimatore in dialetto, e spesso saporitissimo […], voleva che il suo primo figlio fosse un poeta». E non un poeta «al modo dei moderni», ma di quelli che, un tempo, avevano cantato «gli eroi, i cavalieri, i santi. Questi erano per lui i soggetti degni di canto, com’è ancora pel popolo. Egli era nato nel popolo»2. Tale persuasione del padre va accompagnata dal suo impegno tenace di operare perché la cultura si prendesse la meritata rivalsa sull’arroganza della «roba». Egli aveva sperimentato su di sé tale arroganza. Per avere in moglie Antonia, figlia del segretario comunale Giampaolo, possidente e notabile del paese, dovette scontrarsi con l’intero parentado. «Era un uomo a stipendio, e perciò considerato un cattivo partito […]. Le sorelle di mia madre – scrive Alvaro – furono date per l’appunto a pastori ricchi»3. Al contrario, il maestro elementare Antonio «stimava l’ingegno sopra ogni cosa, e poi la cultura, infine la ricchezza di cui aveva il rispetto e il terrore come d’una potenza occulta»4. In Un treno nel Sud, Alvaro scriverà che «il problema meridionale non è soltanto di povertà e di disgregazione sociale. È anche un problema di cultura»5.
Oltre che in casa, Corrado respirava il profumo maliardo del paese, con la sua geografia, collocato a ridosso della montagna circondata da cime impervie rivestite di un manto verde, circondato da fiumare dalla vista e dal linguaggio orfici, mute e aride d’estate, terribilmente chiassose e straripanti d’inverno, e con la storia millenaria perpetuatasi coi suoi miti e i suoi riti ancestrali, che il padre, «sottile e arguto come un antico»6, gli aveva consegnato, e raccomandato, come un patrimonio sacro. E perché i figli fossero buoni custodi, pensò di mandarli «lontano ad apprendere le buone maniere e un linguaggio corretto»7. Così, a dieci anni, Corrado deve lasciare la casa paterna. Proseguirà gli studi nel collegio dei gesuiti di Villa Mondragone, presso Frascati, dove era preside il famoso grecista padre Lorenzo Rocci.
Per cogliere il senso di tale «passaggio», e le ovvie conseguenze emotive, occorre tenere presente quanto scrive sempre in Memoria e vita, pagine, si sa, che rimarranno colonna portante della sua visione della vita e fondamentali per l’interpretazione puntuale della sua opera di scrittore. Ci racconta che il padre gl’insegnò, anzitutto, a osservare, e ad ascoltare, le persone e le cose che ci circondano, tutte, con estrema curiosità e interesse:
Tutto voleva vedere mio padre, dai visi ai frutti […]. Le parole più frequenti che sentivo da lui erano: «vedi, guarda» […]. Io gli andavo sempre dietro, curioso della vita virile. Così feci conoscenza della gente nelle stanzette a terreno, senza pavimento, colla roccia della montagna inclusa tra le quattro mura come un mobile, che serviva da focolare e per posarvi la fiaccola di legno di pino che era il mezzo più comune d’illuminazione8.
Tale «storia dell’animo» dell’adolescente Alvaro va letta, e intesa, riferendosi sempre alla coeva storia regionale, nazionale ed europea, che si svolgeva in quegli anni, alle quali suggestioni egli partecipava con appassionata sensibilità.
A parte lo scontato fascino dell’artificioso mondo delle conoscenze scolastiche e delle letture paterne degli autori da lui prediletti (Manzoni, Cantù, D’Azeglio, Mastriani, Balzac), Alvaro adolescente visse un rapporto diretto, personale, con l’ambiente, con le vicende quotidiane della vita del paese, i gesti essenziali ed elementari delle persone con le quali condivideva tutti gli eventi. E, almeno fino ai dieci anni, visse una vita felice, la cui memoria avrebbe custodito gelosamente, con la piena consapevolezza, anche quando gli obblighi paterni, che lo esigevano «poeta» a qualunque costo, gli fecero sperimentare un mondo diverso da quello della casa paterna e dell’ambiente sanluchese fatto di solidarietà, di complicità, di rispetto e di godimento di tradizioni antiche e sempre affascinanti, che, pur nei momenti meno gioiosi, rendevano apprezzabile ogni tempo dell’esistenza. Scrive in Memoria e vita:
Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati. Il paese era gramo e povero in confronto alla ricchezza del mondo, e a me pareva il più ricco e il più vario9.
Era il segreto arcano del vivere che, già nel 1905, il collegio dei padri gesuiti di Villa Mondragone gli aveva messo in discussione. La primitività istintiva, l’immediatezza anche ne...