Nella tela del ragno
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Nella tela del ragno

  1. 374 pagine
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Nella tela del ragno

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Informazioni sul libro

Il lavoro è al centro della lunga crisi che opprime l'Italia. Il paese ha le ali legate, come se fosse immobilizzato in una ragnatela. Ben prima della crisi, i paesi più avanzati hanno fatto precise scelte rispetto al funzionamento del mercato del lavoro, al sostegno all'innovazione e alle politiche di governo, mentre l'Italia non riesce a promuovere proprio questi tre aspetti che sono fondamentali per costruire le condizioni dello sviluppo. Secondo Romano Benini, da anni consulente delle maggiori istituzioni pubbliche e private che operano sul mercato del lavoro in Italia e all'estero, l'unica possibilità per creare occupazione oggi passa attraverso un adeguato sistema di servizi, politiche e incentivi capace di restituire ai cittadini un ruolo attivo, dalla scuola alla pensione. Per liberarsi finalmente dalla tela del ragno bisogna infatti pensare a un diverso modello di crescita che ponga lo sviluppo umano come base dello sviluppo economico. Il libro propone un confronto tra la situazione italiana e quella degli altri Stati europei, esaminando le logiche, le caratteristiche e i risultati della strada verso il lavoro che tali Stati stanno compiendo con riforme necessarie per riattivare il mercato. Se nella prima parte del volume si esplora la tela del ragno, nell'ultima si delineano alcune vie d'uscita: un programma per il lavoro fatto di dati, valutazioni e proposte concrete che rimettano al centro l'uomo e consentano di guardare progettualmente al futuro.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433109
Argomento
Business

Parte seconda
Come ne usciamo

L’attività propria dell’intero genere umano è di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, per prima cosa attraverso la riflessione, in secondo luogo per agire di conseguenza.
Dante, Monarchia, libro IV, I

Le parole chiave

Non è difficile descrivere la cause, i motivi del declino italiano di questi anni. I giornali, non solo in Italia, sono da tempo pieni delle cronache dei fatti di malcostume che mostrano la crisi della politica, dei fatti delle chiusure delle aziende che mostrano la crisi dell’economia, dei fatti della disoccupazione che mostrano la crisi del lavoro. Tuttavia è davvero chiaro anche quali siano i motivi che hanno portato a questa situazione, anche se magari lo ritroviamo solo negli scritti di qualche economista o esperto. Le stesse ricette su come uscire dalla crisi hanno una base comune: basta vedere cosa ha funzionato nei paesi a noi più vicini che sono riusciti a invertire la rotta e a raddrizzare la barca sulla via per lo sviluppo. Le ricette politiche possono certo divergere, ma restano pure teorie se l’Italia non ripristina i fondamentali per lo sviluppo, che questi anni scellerati hanno decisamente compromesso. La politica, mai così vicina a essere più un problema che una soluzione, spesso accentua la descrizione delle soluzioni da adottare, ma il più delle volte si tratta di posizioni strumentali. È la logica del divide et impera, molto spesso il politico o il sindacalista da enfasi al suo punto di vista, di solito parziale, per poter avere quella «visibilità» di cui si nutre, in assenza di risultati concreti. In ogni caso l’Italia è oggi al primum vivere, alla ricostruzione dei fondamentali delle democrazie avanzate.
È molto chiaro cosa è successo e cosa dobbiamo fare. Serve semmai disciplina e volontà, come ammonisce la stampa internazionale, stupita di come l’Italia riesca ancora a non fare e a cercare alibi anziché intervenire per rendersi di nuovo capace di determinare il proprio destino. Diventa utile allora chiarire i diversi punti di una strategia di intervento fissando le parole chiave, gli snodi necessari per intervenire e per recuperare capacità, competitività e benessere. Le parole chiave sono anche in questo caso parole chiare. Lo sviluppo è da vedere come un risultato: la condizione che permette di far emergere le potenzialità di una persona, di un territorio, di una nazione. Non sono condizioni astratte, figlie della teoria economica (anche se sulla «teoria della capacità» ci sono stati in questi anni alcuni importanti premi Nobel), ma indicazioni ben precise, che valutano i parametri con cui si possono valutare e persino misurare l’esistenza e il livello delle condizioni della capacità, della competitività e del benessere.
Per questo motivo andiamo a verificare lo stato di salute italiano e quello delle altre democrazie avanzate considerando i parametri del benessere, nelle diverse parole chiave che li esprimono.
Valutiamo in primo luogo il metodo. Perché se il modo è sbagliato, i risultati non possono arrivare. Il metodo seguito in questi anni dai decisori italiani è quello di chi ha preferito tener separato tutto quanto andava connesso, determinando in questo modo una serie di disconnessioni a catena, tra la ricchezza e il lavoro, l’economia la società, la scuola e l’impresa, la politica e i cittadini, che hanno compromesso lo stato di salute del paese. La prima parola chiave riguarda quindi il metodo sbagliato seguito, la separazione, e quello invece da seguire, la connessione.
Possiamo poi passare in rassegna i diversi indicatori del benessere, per capire cosa abbiamo e cosa ci manca, cosa abbiamo fatto e cosa dobbiamo fare. Non si tratta nemmeno in questo caso di una teoria dell’autore, ma di una semplice messa in ordine di quanto emerge in modo chiaro dalla enorme quantità di dati, ricerche, analisi a disposizione. Nessun modello teorico, ma un confronto sui fenomeni, sulle evidenze e sui risultati. Un confronto da cui provare a fare una lettura, una riflessione che provi a spiegare quale sia e dove stia la forza, il potere che frena e condiziona un cambiamento sempre più atteso e necessario.
Gli indicatori che valutiamo per misurare cosa abbiamo e cosa ci serve per creare lavoro e sviluppo riguardano queste successive parole chiave:
1) la capacità, la competitività e lo sviluppo per capire cosa ci rende capaci d’agire in un mondo profondamente cambiato e cosa ci manca per essere più capaci e cosa tiene insieme i diversi aspetti della capacità;
2) le competenze, per capire cosa significhi saper fare nel terzo millennio e cosa abbiamo fatto e dobbiamo fare per poter imparare a lavorare;
3) l’orientamento, per capire quali servizi operino per aiutare, informare, orientare verso le scelte e le opportunità chi vuol essere capace, imparare, lavorare o cambiare la propria condizione;
4) i servizi per il lavoro e la formazione, per capire quanto siano importanti e come funzionano i servizi che aiutano nella ricerca del lavoro e nel fare incontrare chi cerca lavoro e chi cerca lavoratori;
5) l’attivazione, per capire cosa sia necessario per portare le persone a essere attive, dentro e fuori il lavoro, e quindi capaci di progettare e costruire le proprie condizioni di vita;
6) l’innovazione, per capire come sia importante e come sia possibile avere strumenti e servizi in grado di dare forme e dimensioni nuove alla nostra azione;
7) la creazione e la progettazione, per capire come sia possibile sostenere la creazione di nuove iniziative nell’economia e nella società e promuovere il lavoro autonomo e le imprese;
8) gli incentivi, per capire quali siano e come funzionano gli strumenti che dovrebbero sostenere lo sviluppo e il lavoro e come collegare queste agevolazioni alla creazione di posti di lavoro;
9) i mestieri e i saperi, per conoscere e valutare il patrimonio di esperienze e conoscenze che trasforma il sapere in saper fare, e produce beni e servizi di qualità;
10) l’ambiente e il sistema, per conoscere i luoghi, le forme e gli strumenti che permettono a un territorio di essere operoso e di promuovere benessere;
11) la competizione e il mercato, per valutare come persone capaci in un sistema operoso e organizzato possano competere sul mercato dei beni e dei servizi;
12) i poteri e le responsabilità, per capire se e come i poteri e le responsabilità pubbliche, il rispetto della legalità e l’efficienza del sistema possano generare benessere e cosa serva per migliorare il funzionamento del sistema;
13) il pubblico e il privato, per valutare quale possa essere la distinzione e il rapporto tra i servizi e gli strumenti pubblici e privati che aiutano lo sviluppo e la creazione di opportunità;
14) la valutazione e la decisione, per sapere se è possibile misurare gli effetti e i risultati di tutto quanto viene realizzato per creare lavoro e sviluppo, per cambiare e migliorare quanto non funziona e può funzionare meglio, per decidere in modo corretto e utile.
Se proviamo a definire un sistema di interventi, per costruire una strategia che permetta di recuperare e stimolare le capacità delle persone, costruire condizioni per lo sviluppo e per migliorare il livello di benessere, sono forse questi i parametri che vanno considerati.
In questo modo possiamo, nei diversi aspetti, vedere cosa funziona e cosa non funziona e provare a definire, nel confronto con chi sta meglio di noi, quali sono gli interventi necessari. È del tutto evidente come tutto quanto viene conosciuto e approfondito nei diversi ambiti serve a poco se non si realizza lo sforzo più difficile: tenere insieme. Ogni nazione è infatti un organismo, in cui agiscono persone e comunità, in cui sono presenti bisogni e domande e operano diversi interessi e condizionamenti. Ogni organismo sociale ed economico avanza nel dare un equilibrio e una direzione a un simile sistema. L’Italia di questi anni ha sofferto in equilibrio, nel tenere insieme in modo sano i diversi interessi e condizionamenti e nel dare una risposta alle domande e ai bisogni che sono emersi. Se non c’è equilibrio è anche difficile prendere una direzione. Questa è la crisi della politica in Italia, perché è la politica, attraverso gli strumenti della democrazia, che ha la funzione di definire una rappresentanza della società, comporre interessi e bisogni, definire una strategia e proporre una direzione. La crisi italiana di questi anni è insieme una crisi della politica, dell’economia e della società. Ecco perché l’analisi attenta di questo stato di salute, di questi parametri che valutano ciò che abbiamo e ciò che manca per creare benessere è anche un’analisi politica. È decisamente un’analisi politica se intendiamo per politica ciò che intendevano i Greci: l’arte di governare la società, la polis, per il bene di tutti coloro che vivono nella società, nessuno escluso. Quando la politica non riesce a svolgere questa funzione, diventa inevitabilmente un problema in più, che pesa sulla società e sull’economia. La connessione tra società, economia e politica è infatti l’unica via per creare sviluppo e benessere e il lavoro è la dimensione dell’attività umana che può tracciare e definire questa via nel prossimo futuro, come d’altra parte è stato nel passato. Per questo diventa utile indagare e conoscere cosa è accaduto negli ultimi anni e cosa dobbiamo invece far accadere.

La separazione e la connessione

In questi anni è successo qualcosa di importante: un sistema, un ordine che si era organizzato nel dopoguerra e aveva generato una buona crescita economica, ma un limitato sviluppo, è entrato in crisi. Le vicende della crisi iniziata nel 2008 come conseguenza della crisi finanziaria globale, sono forse una «crisi nella crisi». La politica, che in Italia rappresenta la sintesi degli interessi e dei poteri più tradizionali, ha fatto fatica a cogliere questo passaggio, a capirlo e quindi a dare risposte. Per questo motivo la politica negli ultimi anni ha rappresentato spesso un problema e non ha offerto soluzioni e gli italiani che credevano nei partiti o quantomeno in alcuni politici si sono disaffezionati, sono rimasti delusi.
Tale ritardo nel rapporto tra politica, economia e società ha un motivo di fondo: la politica italiana è fatta e gestita da coloro che intermediano gli interessi rappresentati e costituiti ed è stata occupata in questi anni soprattutto dai rappresentati di quel sistema che è stato messo in difficoltà dalla crisi del 2008 e che ha generato quell’indebolimento progressivo del sistema Italia che ha determinato i pesanti effetti della crisi in corso e prodotto conseguenze che ci fanno parlare di declino.
Si tratta di un vero e proprio malfunzionamento della democrazia: dopo la stagione referendaria degli anni novanta che portò alle prime elezioni con i collegi uninominali e a un tentativo di dare una risposta attraverso regole nuove alla crisi della rappresentanza, non a caso gli anni del decennio perduto dello sviluppo italiano coincidono con il decennio perso di una democrazia che aveva reintrodotto i criteri della nomina e della cooptazione e non della libera scelta della classe dirigente. Questa mancata fluidità e trasparenza della rappresentanza politica ha immediati e diretti effetti sul funzionamento dell’economia e della società. Non si creano i presupposti per aggiornare e modificare il sistema e migliorarne il funzionamento, si determina un decadimento della capacità di governo che indebolisce non tanto la politica, quanto le politiche, gli strumenti che servono per governare i territori e sostenere lo sviluppo.
Di conseguenza i cambiamenti comunque avvengono, spesso generati altrove, ma anziché promuoverli siamo costretti a subirli e in ogni caso non ne ricaviamo vantaggi. È una situazione simile alla vicenda descritta in precedenza, quando gli imprenditori italiani del prêt-à-porter degli anni novanta, dopo aver contribuito a determinare una forte domanda di Made in Italy, si sono buttati sulle rendite di Stato e hanno lasciato il campo libero a un ignoto sarto spagnolo, pronto a rispondere con prodotti adeguati a quella domanda, a quel desiderio di Italia.
D’altra parte i cambiamenti minacciano sempre alcuni tra gli interessi tradizionali in campo: gli interessi minacciati usano allora proprio la politica per difendersi, per garantirsi. In alcuni casi, la paura di affrontare il cambiamento fa perdere importanti occasioni anche a chi non coglie l’occasione che il cambiamento porta sempre con sé: il mettersi in discussione, la capacità di rinnovarsi e di diventare migliori e più forti. L’incapacità di assecondare, rappresentare e governare in modo adeguato la fase di passaggio degli ultimi decenni del secolo scorso ha determinato un progressivo venir meno degli interventi di riforma, che hanno limitato la capacità di azione e quindi di reazione rispetto agli eventi. Questo fenomeno ha indebolito gli anticorpi che il sistema italiano doveva liberare per contrastare la crisi finanziaria ed economica, che è esplosa con effetti sulla società e sul lavoro unici tra gli stessi paesi più avanzati.
Quando c’è un forte problema economico e la società non si riorganizza di conseguenza e non si avviano forti riforme è perché il problema è anche nella democrazia e nel suo funzionamento, perché i pochi che non hanno interesse al cambiamento condizionano le esigenze della maggioranza e le scelte da compiere. Quando gli editorialisti e gli osservatori stranieri si pongono la domanda che lascia tutti quanti perplessi sul perché l’Italia che sa bene cosa va fatto non abbia la disciplina e la volontà per farlo, forse si dovrebbero interrogare su come coloro che hanno avuto in questi anni il potere reale per cambiare le cose fossero proprio tra coloro che non avevano convenienze per farlo, mentre coloro che avevano la necessità del cambiamento non avevano e non hanno la forza di imporlo.
In questi decenni nel mondo abbiamo assistito a un passaggio di fase, che nelle economie più avanzate ha portato a una crisi del sistema economico e sociale connesso al tradizionale assetto del capitalismo industriale e finanziario. Questa crisi va cavalcata e ammaestrata, per non subirla e poterne avere vantaggi diffusi. Il modello tradizionale andato in crisi ha determinato negli ultimi anni vantaggi sempre inferiori e per pochi, aumentando invece i rischi sulla sostenibilità, l’ambiente e il benessere di un sistema basato solo sull’accumulo e sul consumo. Per questo qualcuno arriva ad auspicare una decrescita. Il futuro che si sta costruendo potrebbe persino produrre non solo nuove opportunità, ma anche un diverso stile di vita. Ecco perché le resistenze rispetto al cambiamento sono figlie o dei vantaggi dei pochi detentori delle rendite improduttive o dei timori indotti da un disagio diffuso, generato da una politica che non sa decidere, scegliere e governare, in una democrazia che ha smesso di funzionare e di garantire la rappresentanza di ogni condizione.
La fine nelle democrazie avanzate dell’ordine economico e sociale garantito dal modello del capitalismo industriale e quindi del lavoro fordista ha da tempo messo la parola fine a tutte le soluzioni politiche e normative e di welfare che sono state garanti di quel sistema.
Ciò comporta necessariamente dei cambiamenti sia nel metodo che negli strumenti che fanno funzionare il sistema. Se tali cambiamenti non ci sono o sono parziali il sistema non funziona. È quanto è avvenuto nell’Italia di questi anni, in cui la nostalgia dell’ordine e delle soluzioni del modello che ha garantito la crescita ha prevalso rispetto alle speranze che possono arrivare dal futuro. In fondo è un atteggiamento anche psicologico, figlio di un paese invecchiato e rannicchiato alle sue certezze, come una vecchia signora che si ostina a indossare un abito un po’ fuori moda.
Quest’epoca porta con sé prospettive che possiamo vedere e capire se proviamo a guardare con occhiali nuovi, provando a mettere in discussione quei paradigmi, quei luoghi comuni che hanno accompagnato per molti anni la società e la politica italiana. L’atteggiamento che aiuta il cambiamento è la consapevolezza del fatto che ciò che ha funzionato in una certa fase non è detto che funzioni per sempre, e la fiducia che dal cambiamento possano arrivare opportunità. D’altra parte nella cultura orientale, non per caso, la parola crisi ha lo stesso significato della parola opportunità e nella nostra cultura significa invece scelta. Proviamo allora a vedere quali siano i nuovi paradigmi che l’Italia fa tanto fatica a governare e a promuovere, per capire quali siano le logiche, i comportamenti e le forze che questi paradigmi mettono in discussione e che quindi fanno resistenza al cambiamento.
Questi sono gli anni in cui alcuni aspetti di fondo necessari per il benessere, la qualità della vita e il buon funzionamento della società si sono separati. Questo è il tempo delle connessioni e della necessità di riconnettere, mettere di nuovo in collegamento le componenti che creano un sistema che funziona e che promuove sviluppo e capacità.
La separazione da cui trovano origine e spiegazione molte delle difficoltà di questo momento storico, nell’economia, ma anche nella giustizia sociale ha a che vedere con il venir meno della connessione tra ricchezza e lavoro. Non si tratta di un fenomeno che incontriamo ovunque e comunque, ma è del tutto evidente come la ricchezza degli ultimi decenni sia stata generata in Italia, come abbiamo sottolineato, più dalle rendite, dai guadagni e dalle speculazioni che dal lavoro. Se poi consideriamo la quota di ricchezza prodotta attraverso vantaggi di posizione e che non si è generata attraverso gli scambi di beni e servizi sul mercato, questa caratteristica diventa uno degli aspetti di fondo dell’economia italiana. La separazione tra ricchezza e lavoro va quindi intesa come la possibilità che il denaro sia generato non tanto dal saper far bene un prodotto o un servizio, ma da altre cause in cui il «saper far bene» non è determinante. Questo distacco tra ricchezza e lavoro, che nei tempi più antichi era oggetto di forme di severo controllo e nella dottrina cristiana era fonte di peccato, porta con sé un’idea del lavoro che non solo si riduce a mera fonte di reddito, ma che vede il lavoro solo come un mezzo tra i tanti attraverso cui procurarsi denaro.
Il distacco tra ricchezza e lavoro produce quindi conseguenze dal punto di vista economico, ma anche sociale e culturale e disegna un modello ben definito di relazioni, che condiziona le scelte di vita. Una conseguenza di questa disconnessione è la separazione che si viene a creare tra il lavoro, da un lato, e il mercato, dall’altro. In un sistema in cui la quota di reddito e guadagno derivante da rendite supera quella derivante da lavoro e la remunerazione dell’operosità è resa meno conveniente della remunerazione della posizione acquisita (di solito con dinamiche poco trasparenti, fino alla corruzione), l’idea di lavoro viene sostituita dall’idea di posto. La parola «posto» esprime in modo chiaro quel tipo di attività umana in cui non si esprime tanto il valore aggiunto della perizia, del risultato, della capacità, ma soprattutto la posizione che determina un vantaggio in termini di rendita, reddito o qualsivoglia posizione di forza o di potere. Se il lavoro esprime la capacità d’agire, il saper fare, l’idea di posto esprime la rendita, il saper stare. Il distacco tra ricchezza e lavoro porta con sé conseguenze ulteriori rispetto al valore della capacità, dello sforzo, del rischio, del merito e del talento e determina scelte e comportamenti che non prevedono nessun tipo di sostegno allo sforzo, al merito, alla capacità.
Sono questi gli anni in cui, con la fine della prevalenza del modello fordista del lavoro industriale nelle democrazie avanzate, si determina il venir meno della connessione tra il lavoro dell’uomo e la quantità della produzione industriale. La produttività sempre di più si genera non attraverso l’aumento delle ore lavorate e i ritmi di produzione, ma attraverso una capacità di innovazione che riguarda l’organizzazione del lavoro e l’utilizzo delle tecnologie più avanzate. I rapporti umani, il welfare, il benessere in azienda costituiscono nel sistema postfordista e nelle aziende più evolute dei nuovi fattori di miglioramento della stessa capacità produttiva.
È davvero questa una fase di forti potenzialità di cambiamento, che possiamo anche decidere di esorcizzare e di non sostenere, ma che vanno conosciute, per capire come tali trasformazioni stiano aiutando diversi paesi a compiere le decisioni necessarie per migliorare il presente e costruire le condizioni per il futuro. È necessario provare a conoscere i paradigmi nuovi di questo inizio di millennio. Diventa importante provare a conoscere come si contrasta la separazione tra ricchezza e lavoro e come si determinano le nuove connessioni nelle democrazie avanzate del sistema occidentale.
Un simile futuro disegna e propone delle ipotesi interessanti, dei percorsi da cui è possibile costruire condizioni per un diverso modello di sviluppo, più attento alla persona e all’ambiente in cui viviamo. Sono ancora ipotesi, ma le nazioni che si sono decisamente avviate su questa strada ne stanno avendo dei risultati di sicuro interesse.
Diventa possibile superare la separazione tra economia e stato sociale, superare i limiti di un sistema che vedeva nel welfare solo un costo. D’altra parte non è possibile pensare al benessere in una società se questo benessere viene considerato un peso per l’economia. È quanto è accaduto in diverse nazioni europee già a partire dal dopoguerra, nella costruzione di uno Stato sociale che in molti casi non dava tuttavia spazi di scelta e di libertà per la persona, ma che era teso solo a garantire il lavoro per tutti e i rischi del disagio. Nella nuova fase la qualità sociale non è più solo una sorta di risarcimento e di premio del meritato riposo, ma diventa una condizione necessaria per lo sviluppo, per l’economia. Si determina una connessione diretta tra la qualità del lavoro, della società e dell’economia. Si lavora bene dove si vive bene, si produce bene nei luoghi in cui è possibile anche riposarsi bene e condividere il tempo libero. Le nazioni più avanzate con la migliore qualità della vita sono diventate in questi anni anche nazioni più competitive nell’economia. È un fenomeno che riguarda le economie più mature e i sistemi più evoluti, che non coinvolge ancora i paesi di recente sviluppo, ma la crescita si sta affermando sempre più come crescita in qualità, quindi sviluppo, e sempre meno come crescita solo per quantità, come mera produzione di ricchezza economica. In questa dinamica di grande portata sono chiare le scelte che vanno fatte e come l’Italia rispetto a simili scelte sia ancora un paese in bilico, non del tutto proiettato sulla prospettiva di civiltà. Il benessere per chi lavora non si esprime solo in termini di diritti, che si possono esigere in azienda e che vengono difesi attraverso i contratti di lavoro. Si tratta di una dimensione nuova che rende necessario un welfare che si esprime e si garantisce non solo per chi già lavora, ma anche per chi cerca ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Parte prima. Dove e perché abbiamo sbagliato
  7. Parte seconda. Come ne usciamo
  8. Parte terza. Ritorno al lavoro
  9. Nota bibliografica