Avevamo la luna
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Avevamo la luna

  1. 360 pagine
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Avevamo la luna

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Il vero '68 italiano? Un'anticipazione del 2013? Sono le ipotesi che avanza il libro di Michele Mezza a proposito degli anni tra il 1962 e il 1964. Un triennio in cui le prospettive di un cambiamento di ruolo e di status del paese potevano realmente mutare. L'autore si chiede se non fu proprio nelle more di quella occasione mancata che si consumò l'ambizione della sinistra italiana di poter governare questo paese. In quel fatidico triennio si alternarono molte lune. Dalla stagione di Kennedy al Concilio di papa Giovanni XXIII, dai Beatles e i Rolling Stones alle prime forme di sapere produttivo dell'Olivetti, all'annuncio della rivoluzione giovanile. Mezza descrive quegli anni in Italia come una straordinaria opportunità che ci fu strappata di mano. Un buco nero che ancora abbiamo dinanzi in questi mesi. Ogni capitolo è sorretto dalla testimonianza di un opinion leader che riflette sulle occasioni di ieri e i problemi di oggi: Giuseppe De Rita e Franco Ferrarotti, Alfredo Reichlin e monsignor Luigi Bettazzi, Claudio Martelli e Elserino Piol… Un libro corale e multimediale. Nelle sue pagine troverete infatti anche filmati e link digitali. Grazie ai codici a barre di seconda generazione, i QR code, con uno smartphone potrete arricchire la lettura con film, fotografie o controllare testi e citazioni direttamente dai siti che li ospitano. Il libro diventa così una vera piattaforma cross mediale.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433116

III. La giraffa diventa giaguaro

Quest’ideologia (il neocapitalismo) manifesta però anche un’altra tendenza: quella che ricerca l’emancipazione delle forze produttive dall’egemonia del capitale, quella che insegue sia pure attraverso una concezione «mistificatoria» del profitto l’autonomia della tecnica e del progresso sociale dall’ipoteca capitalista. In questo senso l’ideologia neocapitalista coglie ed esprime insieme la contraddizione fondamentale dello sviluppo capitalistico: quella che esiste fra lo sviluppo delle forze produttive e la natura dei rapporti di produzione.
Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. […] Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e con essa muore la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione.
Fra le due riflessioni che riportiamo corrono esattamente vent’anni. Sarebbe un buon test per molti indovinare quale delle due sia la più datata, cronologicamente.
La prima è un passaggio della relazione di Bruno Trentin ai lavori del convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del neocapitalismo, del 1962; la seconda è estratta da un’intervista concessa dall’allora segretario generale del Pci Enrico Berlinguer a Ferdinando Adornato dal titolo La sinistra verso il 2000, pubblicata dall’«Unità» il 18 dicembre 1983.
Venti anni trascorsi accanto al più impetuoso processo di riclassificazione dei modelli e delle figure sociali della produzione moderna non bastarono al più arguto Partito comunista dell’Occidente a individuare la talpa che stava scavando sotto i suoi piedi.
Ma il dato che colpisce, ed è in qualche modo l’origine di questo libro, è l’intuizione contenuta nel pensiero di Trentin che, in quel magico tempo dell’inizio degli anni sessanta, contaminò settori importati del Pci proprio agli albori del processo informatico. Un’intuizione che venne poi ibernata e rimossa in modo che non lasciasse traccia.
Tanto è vero che vent’anni dopo, quando il massimo dirigente del Pci, Berlinguer, torna sul tema che si era dispiegato sotto i suoi occhi, con una diffusione massiccia della microelettronica nelle strutture industriali, non si ritrova eco del dibattito del ’62 nella riflessione del segretario comunista, che appare meno ricca e approfondita dell’analisi di Trentin.
La citazione di Berlinguer appare datata nel linguaggio (trasformazione socialista) e nella gerarchia fra le figure sociali richiamate (il lavoratore sfruttato attorno al quale si raccolgono i tecnici, gli intellettuali, i giovani). Due indizi che denunciano l’appartenenza a un’altra epoca della storia politica nazionale. È comunque un documento storico della cultura comunista, sia per lo spessore dell’autore, sia per il tema trattato, l’informatizzazione della produzione, una materia vissuta ancora venti anni dopo il convegno dell’Istituto Gramsci come estranea, ostica, se non proprio ostile, per la politica di sinistra.
Infatti, nel 1983, Berlinguer, con il tono di addentrarsi pionieristicamente in una materia del tutto sconosciuta, sembra inerpicarsi lungo un sentiero che gli risulta chiaramente faticoso ed estraneo. Nel suo ragionamento trapela un tentativo, che oggi ci appare decisamente naif, di adattare una realtà assolutamente innovativa alle vecchie categorie teoriche del passato: la lotta collettiva per la trasformazione e il lavoro comunque sfruttato. Possiamo dire che in questa dichiarazione rintracciamo tutti gli ostacoli ideologici e i ritardi culturali che ancora oggi fanno velo alla cultura della sinistra nell’interpretare e decifrare i processi sociali connessi alla pervasività tecnologica. Va riconosciuto, proprio in considerazione del contesto, al massimo dirigente del Pci il coraggio politico, oltre che la curiosità intellettuale, di misurarsi pubblicamente su un terreno che lui viveva come insidioso e ancora oscuro nelle sue dinamiche e implicazioni. Nelle sue parole infatti si scorge la percezione di una materia che comunque gli appare rilevante e si intravede il suo sforzo di dare una bussola al partito, ovviamente con gli strumenti di cui dispone.
Nell’intervista Adornato lo incalzava sul modo in cui la sinistra del lavoro dovesse fronteggiare la diffusione dell’elettronica negli ambienti produttivi e gli chiedeva se questo fenomeno non imponesse una rettifica all’impianto ideologico e strategico del Partito comunista, prima ancora che alla sua linea politica, in particolare sul nodo ideologico della centralità della fabbrica nella società moderna. I due protagonisti dell’intervista sembrano, come abbiamo già notato, quasi ignorare o almeno rimuovere completamente quanto, proprio sul tema dell’informatizzazione della produzione, era stato profeticamente elaborato dallo stesso Pci nel 1962 e mostrano chiaramente di ignorare che in quel momento ci si trovava già nel pieno del tornante che stava portando l’Occidente da un’innovazione tecnologica che insisteva sui segmenti esecutivi, o ancor meglio ripetititivi dell’azione manifatturiera, con l’estensione delle macchine a controllo numerico, alle prime forme di digitalizzazione di funzioni cognitive e discrezionali degli individui, con l’avvento del personal computer.
In quelle settimane Ridley Scott terminava il montaggio dello storico videoclip di Apple, che lanciava sul mercato il secondo computer da tavolo dell’azienda di Cupertino, il Macintosh, una macchina che avrebbe rivoluzionato l’immaginario globale quando il 22 gennaio del fatidico 1984, al Tampa Stadium in Florida, durante il terzo tempo del Super Bowl, la mitica finale fra i vincitori dei due campionati nazionali di football americano, fu trasmesso dinanzi a 77 milioni di spettatori televisivi.
Da quel momento iniziò la corsa alla nuova frontiera dell’individualismo informatico. Il senso di quel brevissimo ma straordinariamente suggestivo filmato1 (vedi QR code) è più esplicito di un saggio sociologico: la fabbrica fordista vista come una vera galera, che opprime, più che alienare, i suoi addetti, e la liberazione degli individui dal lavoro vissuto come condanna che, rompendo tutti i luoghi comuni, irrompe con la carica eversiva di un rovesciamento di ogni regola e valore sociale più che tecnologico. Questo è stato il personal computer: una risposta a una domanda sociale, che proprio con le lotte degli anni settanta aveva reclamato la propria emancipazione dalle costrizioni del lavoro di massa e non un consumo superfluo indotto da persuasori occulti.
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Un fenomeno che era già iscritto nell’orizzonte italiano con la Programma 101 dell’Olivetti, il vero telaio informatico del XX secolo, che, come gli analoghi telai a vapore di Manchester per Engels, poteva annunciare una nuova era proprio in Italia, se solo qualcuno avesse avuto voglia di intendere. Ma quello che sicuramente non era evidente nemmeno ai pionieri di Ivrea è quanto sarebbe accaduto dopo, sull’onda di una diffusione molecolare delle interconnessioni fra i milioni di personal computer. Uno sconvolgimento, in corso da almeno venticinque anni, parallelo e per certi versi convergente con la crisi della politica in generale e della sinistra in particolare. Una coincidenza che non può non colpire gli osservatori. Rovesciando i trend che hanno guidato la politica nel secolo scorso, oggi constatiamo come la caduta della rappresentatività dei partiti di sinistra si accentui proprio nelle aree dove più marcata è l’innovazione tecnologica e la diffusione della rete. Si è rotto il legame fra progresso e sinistra.
È questo il fenomeno che vorremmo, almeno nell’ambito del caso italiano, indagare. Perché la terza rivoluzione industriale – dopo vapore ed elettricità, il microchip – arresta la progressione parallela fra emancipazione economico-sociale e affermazione di una cultura progressista?
Due sono i fattori che mutano radicalmente. Il primo riguarda la natura dei processi produttivi. Come ci dice Manuel Castells, forse il più completo analista della società contemporanea nel primo volume della trilogia sull’Età dell’informazione: «Ciò che è cambiato non è il tipo di attività che impegna l’umanità ma la sua abilità tecnologica nell’impiegare come forza produttiva diretta ciò che contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la sua superiore capacità di elaborare simboli» (Castells 2000, p. 107). Castells sintetizza con questa formula un cambio epocale: la produzione qualitativa interviene non più prioritariamente con la trasformazione manifatturiera della natura da parte dell’uomo ma con lo scambio fra individui di simboli numerici. Come ancora spiega questo snodo teorico Umberto Sulpasso nel suo saggio Darwinomics (2011): «non è la pura e semplice abbondanza di sapere quella che consente di poter affermare l’esistenza di una Civiltà del Sapere, ma sono le modalità della sua produzione, i modi di accesso dei soggetti, la circolazione dello stesso»2 (vedi QR code).
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Il secondo dato che cambia contenuto e contenitore delle relazioni sociali riguarda il meccanismo indotto dalla connettività in rete di milioni di individui che si scambiano, e dunque producono, contenuti attraverso il social network. Come spiegano Don Tapscott e Anthony D. Williams nel loro fortunatissimo libro Macrowikinomics: «Il socialnetworking sta diventando social production, una produzione sociale in base a cui gruppi paritari autorganizzati possono progettare e produrre di tutto, dal software alle motociclette» (Tapscott - Williams 2010). Un fenomeno che ha portato nel 2010 la «Business Harvard Review», la bibbia del capitalismo mondiale, a concludere la propria inchiesta sulle nuove forme di impresa con la constatazione per cui «al tempo della rete i clienti sono più importanti degli azionisti per le imprese moderne».
Usando una delle metafore più abusate nel dibattito culturale di questi ultimi due secoli, potremmo concludere che con la rete i nani si emancipano dai giganti e non hanno assolutamente più la necessità di arrampicarsi, come esortava nel XII secolo Bernardo di Chartres, sulle loro spalle per vedere più lontano.
Di conseguenza – questo è il punto dolente per la sinistra – matura la crisi dei mediatori, i giganti per antonomasia, che perdono il loro primato sui rispettivi utenti e clienti: gli intellettuali, i chierici, i maestri, i dotti, i leader, i partiti, i sindacati, i manager, perfino i medici e gli scienziati, diventano consulenti e occasionali esperti di processi cognitivi a rete, dove l’elaborazione e l’intuizione diventano sempre più dimensione collettiva dell’atto creativo. È la demolizione della costruzione teorica di Lenin e, prima di lui, di Hegel: l’idea e il partito, come spirito del mondo che guida e governa i destini delle masse. Questa è la radice della diffidenza tecnologica che rende la sinistra prudente, lenta, scettica di fronte ai nuovi processi del networking. Una diffidenza che non è originata da un limite culturale o da un’incapacità di leggere i nuovi processi, quanto dalla resistenza a misurarsi su terreni e con meccanismi che prevedono, inesorabilmente, la rimozione di primati e gerarchie preordinate. È una crisi di ruolo più che di cultura.
Un passaggio epocale, questo del protagonismo degli individui in rete, che non fu colto né nel momento del suo avvio, appunto nei primi anni ottanta, né nel corso dei decenni successivi dove si riprodussero i tentativi di assimilare il processo innovativo a un déjà vu, a un fenomeno da omologare o rimuovere interpretando quella trasformazione come una semplice evoluzione dei nuovi sistemi industriali o, ancora peggio, una variante del sistema televisivo, come dimostra una dichiarazione di Enrico Letta, uno dei più liberal fra i dirigenti del Pd, dei primi mesi del 2012:
Da diciassette anni siamo in condizione unica rispetto al mondo dei media in tutta la società occidentale. Dobbiamo cercare di dare risposte che anticipino i tempi: se perdessimo i quattordici mesi che avremo di fronte daremmo l’idea di essere indietro. Diamo un messaggio agli altri partiti e al governo: tema dei media, digitalizzazione del paese hanno bisogno di un forte impulso: non è la legge elettorale, di questo si deve occupare il governo. Noi siamo un pilastro della maggioranza e chiediamo con forza di avere questi temi in agenda, trovando soluzioni regolamentari e cominciando investimenti. Ci sentiamo di dare oggi questo messaggio, che va tarato capitolo per capitolo, investendo in casi diversi parlamento, governo, authority, attori economici.
E ancora:
Dobbiamo essere competitivi su questi temi come lo siamo nel settore della meccanica di precisione, della manifattura: dobbiamo essere competitivi anche su tv e web. Per farlo dobbiamo riconoscere che il punto di partenza è lontano, perché siamo indietro. Non dimentichiamo che anagraficamente siamo un paese più vecchio perciò probabilmente la richiesta del pubblico spinge di più sul freno che sull’acceleratore. Allora c’è bisogno di porci il problema come leadership del Paese di spingere3 (vedi QR code).
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Rispetto alle considerazioni di Berlinguer del 1983, l’intervento di Letta, che risale a quasi venti anni dopo, sembra segnare un’ulteriore regressione concettuale. Sebbene alle spalle del ragionamento di Letta ci sia ormai il consolidamento della digitalizzazione come infrastruttura del pensiero e dell’economia contemporanea, sembra quasi che il dirigente del Pd propenda ancora a considerare la rete semplicemente come una forma di comunicazione, come un media più sofisticato, al massimo come un nuovo linguaggio, ma non come una trasformazione del paradigma produttivo ed economico, che in qualche modo Berlinguer aveva percepito, seppur con l’impacciato tentativo di ridurlo a una semplice variante dell’imperituro macchinismo manchesteriano. Nonostante l’esplosione della new economy, l’avvento di Google, di Facebook, la straripante capitalizzazione di Apple, la pervasività degli smartphone – con la diffusione di un comportamento universale per cui ogni individuo può misurarsi da pari a pari con la potenza di calcolo dei grandi apparati centrali, processo che comporta la riconfigurazione delle economie planetarie le quali, in virtù della rete, vengono disintermediate dai grandi centri tradizionali della ricchezza occidentale –, nonostante tutto questo, ritorniamo a una logica da sovrastruttura, da menestrelli.
Letta, che – ripetiamo – è uno dei più avvertiti e aggiornati dirigenti della nuova cultura del centro-sinistra del XXI secolo, non trova di meglio che omologare l’intero processo di diffusione del networking, come forma di riconfigurazione della produzione della ricchezza tramite il passaggio di informazioni da punto a punto, a una ordinaria evoluzione del sistema televisivo.
In entrambi i casi, comunque, la cultura politica riformatrice non si mostra in grado di intendere l’elemento discontinuo e rivoluzionario che la nuova relazione sociale indotta dalla rete comporta, ossia la centralità del singolo operatore nel processo di valorizzazione della circolazione informativa con il conseguente scavalcamento di tutte le tradizionali funzioni mediatorie su cui la politica e le istituzioni avevano basato i propri poteri. Paradossalmente potremmo dire che Berlinguer, non sentendosi minacciato nel suo ruolo di leader del partito, avesse maggiore audacia nell’accostarsi alle discontinuità della rete rispetto ai dirigenti degli attuali partiti di centro-sinistra, che sembrano più preoccupati di garantire un collegamento fra lo scenario socio-economico e la propria base sociale.
Berlinguer, per di più, aveva anche da recuperare la difficoltà di trovarsi in una congiuntura politica non facile in quello scorcio finale di 1983. Una congiuntura politica problematica, che avrebbe portato a un’accelerazione del declino della rappresentatività del suo partito, come avremmo poi visto nello scontro sulla scala mobile del 1985. Una fase che, proprio per la sua negatività, poteva essere un’occasione propizia per sollecitare un gruppo dirigente più spregiudicato ad avventurarsi sui nuovi terreni dell’analisi economica, così come, in quegli stessi anni, fece, ad esempio, la sinistra di Mitterrand in Francia, in competizione con la destra tecnocratica di Giscard d’Estaing, e con la sfida del suo rapporto Nora-Mine4 (vedi QR code) sull’inizio dei processi di informatizzazione nel paese.
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Un’analisi seria delle ragioni del declino avrebbe potuto anche spingere il più robusto partito comunista dell’Occidente alla ricerca di un colpo d’ala, di una riflessione più di fondo sulle ragioni di un logoramento che investiva l’intera sinistra «lavorista». Il leader comunista, in effetti, cercò di spingere oltre l’orizzonte tradizionale il suo sguardo, dopo l’archiviazione della politica del compromesso storico, politica sulla quale era ben impressa la sua effigie. Una ricerca, la sua, che non approdò a una soluzione altrettanto definita e robusta come la precedente. Abbandonata la linea tutta politicista della solidarietà nazionale, il Pci sembrò rivolgersi alla società civile per ritrovare vigore, ma non riconobbe lo scenario sociale. Produzione, cultura e giovani – i tre mondi in cui affondavano le radici del partito – erano in grande subbuglio, e non si comprese da dove veniva la tempesta. Erano evidenti i segni di un cambio radicale di fase, che avrebbe reso obsoleta la cassetta degli attrezzi messa insieme nel secolo della fabbrica. Ma in quale direzione si andasse non era altrettanto chiaro.

1. Il computer reaganiano?

Bisognerebbe forse riflettere – cosa che a sinistra non è stata fatta neppure all’indomani degli sconvolgimenti del 1989 – sulle ragioni per cui una stagione politica come quella del più brutale liberismo, segnato da un ripiegamento di ogni ambizione di promozione sociale, abbia coinciso con il decennio del computer, ossia con la fase in cui si innescavano fenomeni destinati a liberare il lavoro e la creatività di milioni di uomini e a stabilire i presupposti per una riorganizzazione delle gerarchie economiche del pianeta, con l’emergere di realtà che negli anni fordisti rimanevano ai margini dell’economia globale.
In sostanza la domanda che lasceremo sospesa, credo possa suonare più o meno così: come mai quando nel mondo il capitale era contrastato sia sul terreno politico, con il sistema sovietico, sia su quello sociale, con la conflittualità del movimento operaio, gran parte dell’umanità viveva in uno stato di ineliminabile prostrazione e subalternità, mentre quando la storia sembrò fermarsi, dando ragione, unilateralmente, alle culture più liberiste, si è assistito a un vortico...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Istruzioni per l' uso
  6. Ringraziamenti
  7. I. Quaranta mesi in libera uscita
  8. II. Molta bellezza, ma poca potenza
  9. III. La giraffa diventa giaguaro
  10. IV. I segni dei tempi
  11. V. L'Italian Game delle lucciole
  12. VI. La luna non è per noi. Considerazioni conclusive sul cronotopo italiano, di ieri e di oggi
  13. Cronotopi di un autore invisibile: Esercitazione multimediale di Stefano Panunzi
  14. Cronologia a cura di Gianfranco Zucchi
  15. Riferimenti bibliografici
  16. Elenco dei filmati