III. Il fronte militare
1. La guerra totale.
I combattimenti terrestri ebbero luogo su diversi fronti. Quello occidentale vide gli scontri concentrarsi sul confine tra Francia, Germania e Belgio. A oriente, invece, su un fronte lungo il doppio, circa 1600 chilometri, gli eserciti si scontrarono in più regioni: tra Germania, Austria-Ungheria e Russia a nord; tra le prime due, alleate della Bulgaria, contro la Serbia e la Romania nei Balcani; tra Austria-Ungheria e Italia sulle Alpi; tra Impero ottomano e Russia nell’Anatolia orientale; tra Impero ottomano e truppe britanniche, neozelandesi e australiane nella penisola di Gallipoli, a sud di Costantinopoli.
La guerra, però, si estese ben presto ad altri scenari: in Medio Oriente, sul canale di Suez e nell’odierno Iraq, regioni appartenenti all’Impero ottomano; in Estremo Oriente, dove il Giappone si impadronì dei possedimenti tedeschi in Cina e si spartì quelli nel Pacifico con gli inglesi, aiutati da australiani e neozelandesi; in Africa, dove in alcune colonie – Africa sudoccidentale tedesca, oggi Namibia, ma soprattutto Africa orientale, corrispondente all’incirca a Tanzania, Ruanda e Burundi – la resistenza delle truppe germaniche durò diversi anni. Qui, pur se non esistono cifre precise, è stato calcolato che scomparve a fine guerra circa un decimo della popolazione, senza contare le migliaia di morti che anche in queste regioni mieté l’influenza spagnola, di cui parleremo più avanti.
Ci furono poi varie spedizioni di soccorso da parte dell’Intesa. Quella alla Serbia che, dopo l’occupazione del paese da parte di austro-tedeschi e bulgari, vide i resti del suo esercito portati in salvo da navi in prevalenza italiane, ma pure francesi e inglesi, insieme a 30 000 prigionieri austriaci, poi rinchiusi nei campi di prigionia dell’Asinara, in Sardegna. Furono così salvati circa 140 000 serbi, arrivati in condizioni terribili a causa della denutrizione e delle epidemie di tifo e colera, mentre circa 300 000 di loro erano morti nel corso della ritirata.
Truppe italiane andarono inoltre a combattere in Albania e con circa 50 000 uomini in Macedonia (nella zona di Salonicco). Qui, insieme ai serbi sopravvissuti, raggiunsero nel settembre del 1916 i reparti anglofrancesi che, dopo il fallimento dello sbarco a Gallipoli, erano stati inviati in quella regione con l’intento di soccorrere la Serbia e spingere le titubanti Grecia e Romania a partecipare al conflitto. La spedizione era stata realizzata contro il volere del re Costantino di Grecia, marito della sorella del Kaiser, ed era quindi paragonabile, dal punto di vista del diritto internazionale, all’invasione del Belgio. Anche se va tenuto conto che il primo ministro Eleutherios Venizelos (1864-1936) gera invece favorevole all’ingresso in guerra. Ad ogni modo, la situazione si risolse quando il re fu costretto ad abdicare dopo le pressioni anglo-francesi. Venizelos, che era stato allontanato, fu richiamato al suo posto e la Grecia poté entrare ufficialmente nel conflitto nel giugno del 1917.
Altri soccorsi ancora furono indirizzati alla Romania che, entrata in guerra a fine agosto del 1916, si trovò presto in grandi difficoltà nell’affrontare gli austro-tedeschi e i bulgari. Difficoltà tali da costringerla a firmare un armistizio nel dicembre del 1917 e poi la pace nel maggio dell’anno successivo. La resa le costò la cessione dei pozzi petroliferi per 99 anni e di milioni di tonnellate di grano, olio e legno, oltre a decine di migliaia di bovini, maiali e capre. Tutte risorse preziosissime per gli Imperi centrali, che ne avevano assoluto bisogno per continuare la guerra e recuperare una parte di ciò che, come vedremo, il blocco navale anglo-francese aveva tolto alla loro popolazione.
Fu dunque sul suolo europeo che il conflitto raggiunse la massima intensità. Se fino a quel momento i Cavalieri dell’Apocalisse – i nemici mortali dell’umanità capaci di metterne in discussione la sopravvivenza – erano stati innanzitutto le carestie e le epidemie, ora fu la guerra a rivelarsi capace di raggiungere una pari, o addirittura superiore potenza distruttiva.
Tra il 1914 e il 1918, infatti, a causa dei combattimenti, morirono circa dieci milioni di uomini e tra i 30 e i 40 milioni furono feriti (nella seconda guerra mondiale, il totale dei morti sarebbe salito a più di 50 milioni). L’Europa orientale e sudorientale vide il numero di vittime militari più alto, sia in termini assoluti che percentuali. L’esercito rumeno e quello bulgaro, ad esempio, persero circa il 30 per cento dei propri soldati, ovvero il doppio rispetto a francesi e tedeschi. Nell’Impero ottomano le perdite raggiunsero invece il 20 per cento, anche in questo caso circa il doppio di italiani e inglesi.
Cifre enormi, spaventose, a cui vanno aggiunti altrettanti milioni di vittime provocate dalla miseria, dalla fame e dalle malattie indotte dal conflitto. Poco prima della sua conclusione, infatti, si diffuse un’influenza particolarmente virulenta in grado di avere effetti devastanti su popoli debilitati da anni di privazioni. Il virus si manifestò per la prima volta in Kansas e da lì partì per trasformarsi in una terribile pandemia. Poiché, per non allarmare ulteriormente la popolazione i governi dei paesi in guerra ordinarono di censurare le notizie relative alla diffusione della malattia, mentre nella Spagna neutrale questo non accadde, l’influenza divenne subito nota come «spagnola». Ci furono tre ondate della malattia, che entro l’estate del 1919 provocò, anche a causa della polmonite batterica che ne era conseguenza, un’ecatombe, e per lo più di individui tra i 20 e i 40 anni. In anni recenti si è stimato che ne fu contagiato il 20 per cento della popolazione mondiale e che i morti siano stati alla fine circa 50 milioni: 20 milioni solo in India, ma 700 000 negli Usa, 500 000 in Germania e Italia, 400 000 in Francia, 250 000 in Gran Bretagna. In effetti, la «spagnola» ha rappresentato uno dei casi di più rapida e letale globalizzazione dei virus dell’età contemporanea e, com’è stato giustamente notato, ciò non sarebbe forse accaduto senza l’indebolimento organico provocato dalle privazioni alimentari e senza l’enorme spostamento di uomini e merci in tutti i continenti che la prima guerra mondiale aveva provocato (Sondhaus 2014, pp. 393-5).
Anche questo fenomeno indica dunque come tra il 1914 e il 1918 la guerra sia stata effettivamente mondiale. Ma anche, per tanti aspetti, totale. Ora, guerra totale vuol dire: avere obiettivi di guerra totali (ovvero mirare alla capitolazione incondizionata dell’avversario o alla sua completa distruzione); utilizzare metodi totali di guerra (il che significa disponibilità a violare il diritto internazionale e tutti i limiti morali ufficialmente riconosciuti); ricorrere alla mobilitazione totale (cioè finalizzare tutte le risorse umane e materiali agli scopi bellici); e cercare il controllo totale della vita nazionale (subordinando l’intera vita privata e pubblica agli obiettivi bellici) (Kramer 2007, p. 331). Tutti i paesi in guerra conobbero dinamiche simili.
La guerra totale rappresenta quindi una delle novità più terribili del XX secolo. In realtà, questa definizione era stata già utilizzata nel secolo precedente da Carl von Clausewitz (1780-1831), ma per definire le operazioni militari che miravano ad annientare il nemico, non per fare riferimento alla militarizzazione e al coinvolgimento dell’intera società. Nel 1916 era stata però ripresa in una nuova accezione dal giornalista francese Léon Daudet (1867-1942) dopo il bombardamento dei dirigibili Zeppelin tedeschi su Parigi nel mese di gennaio. Con quella definizione Daudet aveva voluto sottolineare come nella guerra attuale lo scontro si svolgesse ormai contemporaneamente su due fronti: sia contro i nemici esterni che contro i nemici interni (accusati dal giornalista di aver complottato per impedire che scattasse l’allarme aereo), ovvero contro i propri connazionali che si erano venduti allo straniero per indebolire attraverso il disfattismo, il boicottaggio, il passaggio di informazioni riservate ecc., la tenuta morale e militare del proprio paese.
Tabella 6. Perdite militari.
Paese | Mobilitati e dispersi | Morti | Feriti di guerra | Prigionieri |
| | | | |
Potenze alleate | | | | |
Russia | 18.100.000 | 1.800.000 | 4.950.000 | 2.500.000 |
Francia | 7.891.000 | 1.375.000 | 4.266.000 | 537.000 |
GB, Imp. e Dom. | 8.904.467 | 908.371 | 2.090.212 | 191.652 |
Italia | 5.615.000 | 578.000 | 947.000 | 600.000 |
Stati Uniti | 4.273.000 | 114.000 | 234.000 | 4.526 |
Giappone | 800.000 | 300 | 907 | 3 |
Romania | 1.000.000 | 250.706 | 120.000 | 80.000 |
Serbia | 750.000 | 278.000 | 133.148 | 15.958 |
Belgio | 365.000 | 38.716 | 44.686 | 34.659 |
Grecia | 353.000 | 26.000 | 21.000 | 1.000 |
Portogallo | 100.000 | 7.222 | 13.751 | 12.318 |
Montenegro | 50.000 | 3.000 | 10.000 | 7.000 |
Subtotale | 48.201.467 | 5.380.115 | 12.830.704 | 3.984.116 |
| | | | |
Potenze centroeuropee | | | | |
Germania | 13.200.000 | 2.033.000 | 4.216.058 | 1.152.800 |
Austria-Ungheria | 9.000.000 | 1.100.000 | 3.620.000 | 2.200.000 |
Turchia | 2.998.000 | 804.000 | 400.000 | 50.000 |
Bulgaria | 400.000 | 87.500 | 152.390 | 27.029 |
Subtotale | 25.598.000 | 4.25.200 | 8.388.448 | 3.629.829 |
| | | | |
Totale | 73.799.467 | 9.405.315 | 21.219.152 | 7.613.945 |
Fonte: J. Winter, Le vittime. Morti, feriti, invalidi, in La prima guerra mondiale, II, ed. it. a cura di A. Gibelli, Einaudi, Torino 2007, p. 449. Nota: nella maggior parte dei paesi belligeranti, i dispersi sono conteggiati insieme ai morti. Può accadere, però, che siano conteggiati insieme ai prigionieri come avviene in Russia, dove le statistiche mescolano le varie categorie molto diverse tra loro.
Per estensione, guerra totale divenne così l’espressione per indicare che nessuno poteva più chiamarsi fuori dal conflitto. E che ciò fosse vero, fu dimostrato non solo dall’influenza spagnola ma, come vedremo, anche da altri tragici fatti. La guerra sottomarina indiscriminata, attuata dai tedeschi prima nel 1915 e poi di nuovo nel 1917, causò infatti l’affondamento di centinaia e centinaia di navi e la morte di migliaia di passeggeri, compresi cittadini di nazioni estranee al conflitto. Lanci di bombe sia da dirigibili che da bombardieri pesanti colpirono le zone del fronte ma pure quelle interne, come Napoli (nel marzo del 1918), Parigi, Londra e vari centri abitati tedeschi e austriaci, provocando altre centinaia di vittime (a Karlsruhe, in Germania, fu colpito il tendone di un circo, dove morirono 154 bambini). Inoltre, gli abitanti delle regioni di confine non solo dovettero subire le violenze che sempre accompagnano le invasioni, ma a decine di migliaia furono deportati per essere utilizzati come manodopera in condizioni semischiavistiche nei paesi nemici e persino come scudi umani per evitare il bombardamento delle fabbriche e delle proprie prime linee.
2. La trincea.
Nell’agosto del 1914 solo Francia e Germania disponevano di eserciti numerosi che potevano essere mobilitati nel giro di breve tempo. La Russia aveva sì un numero ancora maggiore di effettivi, potendo contare su una popolazione di circa 170 milioni di abitanti, ovvero quasi il doppio di Germania e Austria-Ungheria messe insieme, ma le sue armate erano nettamente inferiori per armamento, non godevano di un efficace sostegno da parte dell’apparato industriale del paese e non erano in grado di avviare una rapida mobilitazione a causa dello stato arretrato del sistema di ferrovie e di comunicazioni interne. La Gran Bretagna si era invece rifiutata, fino a quel momento, di ricorrere alla leva obbligatoria, potendo perciò contare solo su un esercito professionista altamente addestrato, ma poco numeroso. Tuttavia, anch’essa dovette cedere all’enormità del conflitto e nel gennaio del 1916 si decise ad adottare il sistema della coscrizione obbligatoria, dalla quale erano esentati solo i lavoratori dei settori strategici.
Le forze armate tedesche, nelle intenzioni del comando, avrebbero dovuto aggirare le difese francesi e arrivare a Parigi nel giro di sei settimane. Ma l’accanita resistenza dei belgi all’invasione del proprio paese rallentò l’avanzata germanica e diede ai francesi la possibilità di rafforzare il fronte nord-occidentale. Tre mesi più tardi, per fermare l’avanzata tedesca che rischiava di sfondare le linee difensive approntate insieme ai francesi, i belgi aprirono le chiuse tra Nieuwpoort e Diksmuide facendo entrare l’acqua del mare, che creò una palude lunga circa una trentina di chilometri, larga tra i 2 e i 4, e profonda circa un metro. Questo imprevisto ostacolo impedì ai tedeschi di raggiungere la costa belga, da cui avrebbero potuto partire anche per invadere l’Inghilterra, e rese ininterrotta la linea del fronte occidentale dalla Svizzera alla Manica. Ciò contribuì a immobilizzare definitivamente la linea dei combattimenti per i successivi quattro anni.
Nello stesso tempo, si rivelarono presto infondate anche le speranze dell’Intesa che il «rullo compressore» russo potesse rapidamente mettersi in moto per schiacciare da est i tedeschi. Questi ultimi, dopo aver subito un’imprevista offensiva russa, nei mesi successivi riuscirono anzi a contrattaccare e a fermare i nemici nella famosa battaglia di Tannenberg, sul fronte orientale. Qui, a fine agosto del 1914, si verificò una delle disfatte più spettacolari della guerra: in pochi giorni fu completamente distrutta la seconda armata russa, che vide quasi 100 000 dei suoi uomini fatti prigionieri e subì 50 000 perdite tra morti e feriti, oltre a 500 cannoni.
Con il tipico andamento altalenante di questo fronte, i russi reagirono tuttavia con altri attacchi di successo, come nel giugno del 1916. Qui, sotto il comando del leggendario generale Aleksej Brusilov (1853-1926), avanzarono di ben 100 chilometri, catturando più di 300 000 soldati nemici. Il loro successo, insieme al fallimento dell’offensiva tedesca a verdun e all’ingresso della Romania nel conflitto, avrebbe portato nell’agosto successivo alla sostituzione di Eric von Falkenhayn e alla nomina a capo di Stato maggiore di Paul von Hindenburg (1847-1934), che a sua volta indicò Erich Ludendorff (1865-1937) come Generalquartiermeister (una sorta di vice-capo di Stato maggiore). Da quel momento, sarebbero stati loro, gli eroi di Tannenberg, a guidare le forze armate fino alla sconfitta.
Nelle regioni orientali, la maggiore lunghezza del fronte, la maggiore dispersione delle truppe e lo stato più arretrato dei trasporti che ostacolava il rapido afflusso di riserve per impedire, o quanto meno tamponare, gli attacchi nemici, continuarono a permettere improvvise avanzate in profondità e conseguenti ritirate. Sul fronte occidentale, come abbiamo detto, invece, si affermò rapidamente una situazione di stallo da cui sostanzialmente non si sarebbe più usciti.
L’enorme massa di soldati mobilitati contribuì a far fallire i piani originari di una guerra di movimento che mirasse a una rapida conclusione del conflitto. Già l’offensiva tedesca sulla Marna, respinta dai francesi nell’autunno del 1914, aveva dimostrato l’incapacità dei contendenti di sfondare le linee nemiche grazie alla forza d’urto della fanteria, messa in enorme difficoltà sia dal micidiale fuoco di sbarramento dell’artiglieria e delle mitragliatrici, che dalla capacità di entrambi gli eserciti di rimpiazzare rapidamente le perdite subite.
In effetti, il grande sviluppo delle vie di comunicazione dei decenni precedenti aveva permesso l’arrivo in pochi giorni di centinaia di migliaia di tedeschi in Belgio, ma allo stesso tempo aveva messo in grado anche i francesi di far affluire rapidamente i rinforzi sulla Marna grazie ai treni e agli autoveicoli (leggendario è restato il trasferimento dei rinforzi francesi da Parigi al fronte a bordo dei taxi). Nessuno riuscì così ad assicurarsi la vittoria decisiva e la fine del conflitto, prevista inizialmente per il Natale del 1914, si spostò in un futuro impossibile da precisare.
La guerra di movimento si trasformò in una logorante guerra di posizione, in cui perse gran parte del significato un altro degli elementi che da sempre avevano accompagnato gli scontri militari: la carica della cavalleria con funzione di sfondamento delle linee nemiche. Ormai la potenza delle mitragliatrici e la lunga gittata anche dei fucili, che potevano colpire un bersaglio a molte centinaia di metri di distanza, costrinse a utilizzare questo corpo più per la ricognizione che per il combattimento.
La necessità di difendersi dal fuoco nemico portò alla costruzione di un fronte fortifica...