Diritto e menzogna
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Diritto e menzogna

  1. 162 pagine
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Diritto e menzogna

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Scopo di questo libro è avviare finalmente un discorso di verità sull'annosa questione della giustizia nel nostro paese. Il cittadino appare sfiduciato e percepisce come ostile il sistema nel suo complesso. Una legislazione malamente concepita e coordinata che ha finito con il ridurre il diritto a un discorso verboso, a disposizione di interpreti che cercano di forzarlo a vantaggio di interessi di parte. Un'impunità diffusa, agevolata dalle complicazioni processuali e frustrante per il cittadino onesto e osservante. Una formazione professionale difettosa, affidata a università che restituiscono alla società dei tecnici, ma non dei giuristi in grado di percepire i contesti socio-politici da cui le regole scaturiscono e a cui sono destinate. Una magistratura costituzionalmente disegnata più come centro di potere che come potere di servizio, con un tasso di entratura in organi di garanzia eccessivo e sproporzionato. Un'avvocatura a cui la Costituzione ha assegnato la funzione della difesa processuale, ma che non per questo può ritenersi autorizzata ad agire per sviare la retta applicazione della legge. Privati cittadini che usualmente dichiarano il falso per ottenere benefici economici. Così il diritto si fa strumento di alterazione di tutto un contesto storico: può giungere a negare se stesso, divenendo uno strumento di legittimazione di menzogne istituzionali. Ma solo buoni ordinamenti normativi potranno restituirci buone società. Perciò è necessario che si generi, a partire dalle facoltà giuridiche, una robusta opera di riacculturamento. C'è bisogno di operatori più dotti e più eticamente corredati, meno tecnici e meno formalisti: il diritto non può essere un attrezzo per i giochi del potere o una specie di scommessa sul futuro, ma è una promessa istituzionale che va presa sul serio da tutti.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433192

III. Il diritto che mente

1. Potere e diritto.

Probabilmente Machiavelli fu il primo a teorizzare che la politica si sarebbe dovuta costituire in scienza: un sapere con un proprio statuto, fatto di regole prudenziali autonome da discipline o valutazioni esogene, religiose o etiche che queste fossero; e con l’unico fine di conservare o acquisire il pubblico potere. Nel famoso capitolo XVIII del Principe, quello ove si addita la via per «vincere e mantenere lo stato», si enuncia programmaticamente che gli strumenti in alternativa sono due: «le leggi» o «la forza». Anzi, si ha cura di precisare che il più delle volte occorrerà far uso della seconda perché le leggi non bastano e, quando sarà necessario, si dovrà esulare da esse, dai limiti che ogni regola giuridica inevitabilmente fissa, senza alcuna titubanza o scrupolo1.
Almeno qui Machiavelli non teorizza nulla di nuovo perché la storia (da cui egli, del resto, trae ispirazione ed esempio continuo) aveva già tante, troppe volte fatto vedere come il diritto potesse degenerare semplicemente a strumento nella discrezione piena del potere: un mezzo di sopraffazione spesso subdolo perché naturalmente sorretto da un’istanza di giustizia e di verità. Proprio così: il governo di una società politica come pure dei rapporti interindividuali in essa presenti possono dipendere dal successo di azioni sostenute da induzione o circonvenzione a cui faccia velo un uso strumentale del diritto che offra loro quel che cercano, la legittimazione. Il diritto può allora validare – legittimare appunto – false rappresentazioni della realtà condotte in funzione di operazioni di potere. Ma può accadere che quest’uso disinvolto del diritto – e delle sue forme – si abbia pure in altri contesti, per esempio, nell’indottrinamento politico o religioso. Come può ancora darsi, di riflesso, che in sede scientifica o didattica si esponga e si esplichi un diritto che non c’è perché nei fatti esso è applicato o è deviato dal perseguimento di finalità diverse da quelle a esso istituzionalmente proprie.
La storia di questo uso vario del diritto e delle forme giuridiche – del loro asservimento al potere, della loro pubblica presentazione artificiosa o artefatta – è una storia lunga e potrebbe sostenersi che in essa si riveli un carattere dell’azione politica e normativa dell’Occidente. Vi è, forse, una vicenda da cui questa storia sembra avere trovato come il suo principio: una vicenda risalente a un paio di migliaia di anni orsono e però a noi perfettamente restituita dalle fonti.
Ad Ankara, l’antica Ancyra, nei luoghi del vecchio quartiere di Ulus, vi sono le rovine di un tempio romano del I secolo d.C.: questi resti – complessivamente due pareti laterali e la fronte anteriore che le unisce – sono noti in tutto il mondo con una denominazione – monumentum ancyranum – che potrebbe apparire eccessiva. Così non è se si considera che quelle due pareti – una delle quali per giunta attraversata da un largo squarcio – recano inciso un racconto straordinario, quello delle imprese e della vita pubblica (Res gestae) di Ottaviano Augusto, narrate in prima persona dal loro protagonista. Una testimonianza storica, dunque, di valore unico, una storia ancora capace di rapire il lettore per l’assoluta grandezza delle vicende esposte e del loro artefice e protagonista2. Ma qui preme sottolineare come le Res gestae abbiano introdotto – anzi tipicizzato – un modello relazionale tra pubblico potere e forme giuridiche in cui a queste ultime è accollata la funzione di mascherare manovre di potere in realtà devianti rispetto all’ordine costituito e legittimo.
Il capitolo più noto delle Res gestae è probabilmente il XXXIV: «durante il mio sesto e settimo consolato – afferma Augusto riferendosi al 28 e, particolarmente, al 27 a.C. – dopo che posi fine alle guerre civili, per la cui condotta il consenso generale mi aveva attribuito la supremazia assoluta, dal mio potere trasferii la repubblica alla libera decisione del senato e del popolo romano». Un’affermazione che dovette essere recepita dall’opinione pubblica se la ritroviamo addirittura nei componimenti sepolcrali: «ritornata la pace – si legge nella cosiddetta Laudatio Turiae – in tutto il mondo, ristabilita la repubblica, ci toccarono tempi quieti e felici. Nacquero figli desiderati che la sorte a lungo ci aveva rifiutato»3. E le fonti narrano che il vincitore di Antonio veniva spontaneamente acclamato in ogni dove egli si recasse come fecero quei passeggeri e marinai di una nave di Alessandria che, all’ancora nella baia di Pozzuoli, lo ringraziarono calorosamente per avere creato le condizioni perché si potesse sopravvivere e, poi, vivere liberi e operosi in pace4. Mentre lo storico di regime Velleio Patercolo ci dettaglia l’idea della restituzione – ai comizi, ai tribunali, al Senato, ai magistrati – delle prerogative repubblicane proprie di ciascuno degli organi costituzionali5.
Nelle Res gestae Augusto mente; e per rendere credibile la sua grande menzogna si serve delle istituzioni giuridiche utilizzando forme ascrivibili alla costituzione repubblicana, ma secondo combinazioni che rivoluzionano l’ordine dei poteri tradizionali: ha l’imperium ma non è né console né proconsole; ha la tribunicia potestas ma non è tribuno; soprattutto ha tutto questo (e altro) insieme e senza limiti effettivi di durata. Il vero lo leggiamo probabilmente in Tacito: egli scrive – negli Annali – che la pace augustea avrebbe restituito più che altro i vocabula, i nomi, delle antiche magistrature, ma nulla sarebbe effettivamente rimasto della costituzione repubblicana giacché il governo era ormai nella discrezione dell’imperatore6.
Pare che in due occasioni Augusto avrebbe davvero pensato di restituire la libertà ai romani, ma poi si sarebbe orientato diversamente volendo che la Repubblica come da lui rifondata si mantenesse definitivamente; e Svetonio, che pur lo ammira senza riserve, scrive – nella Vita di Augusto – che Augusto fu auctor, creò un nuovo, eccellente, regime per uno stato (optimi status auctor) che a lungo si continuerà a chiamare res publica7.
Desiderio di sicurezza, propaganda retorica, paura, ignoranza, tutto ciò, insieme all’illusione indotta dalle finzioni del formalismo giuridico, rese possibile l’accettazione sincera da parte di molti del sofisma della restituzione della res publica; un modello fu così creato e lanciato verso il futuro e molti se ne avvarranno e si considereranno legittimi eredi e governanti di una mitica res publica romanorum, da Carlo Magno al papa a Napoleone. Quest’ultimo, primo console della prima Repubblica francese, introdurrà nella modernità il modello augusteo della legittimazione di un nuovo ordine politico-costituzionale attraverso l’uso (improprio) di nomi, istituzioni, figure peculiari di un regime assolutamente diverso e la cui reale funzione è solo quella di criptare abilmente gli arcana imperii. Come ai tempi di Augusto, il primo console schierò un grandioso apparato per far credere al popolo di essere divenuto finalmente padrone del suo destino. Ma a Sant’Elena egli dirà al suo biografo Las Cases che «libertà ed eguaglianza sono parole magiche»8 e che di esse volentieri si era servito nei discorsi e negli atti pubblici. Nella costituzione della Repubblica cisalpina, costituita nel 1797 nel Nord Italia e con capitale Milano, Bonaparte aveva voluto che fosse inserita la disposizione per cui «l’universalità dei cittadini della Repubblica cisalpina è il sovrano»: una disposizione mentitoria, destinata solo a tener buoni gli italiani che troppo tardi se ne avvedranno. Quando qualche anno dopo, vinti gli austriaci a Marengo, Napoleone vorrà creare, sulle ceneri della Cisalpina, addirittura una Repubblica italiana, una Consulta straordinaria riunita a Lione approverà, nel gennaio del 1802, alla sua presenza, una costituzione che ripeteva la disposizione per cui «la sovranità risiede nella universalità dei cittadini»: Napoleone, però, si affretterà a farsi eleggere presidente; e la denuncia di Benjamin Constant9 – Bonaparte è un ipocrita e un mentitore – coglierà nel segno.
La storia delle relazioni deviate tra potere e diritto è una storia infinita che, purtroppo, non si è mai spezzata. Forse vi è anche un difetto nell’informazione perché, a voler considerare il contesto a noi più vicino, l’Italia dei nostri giorni, non mancano le analisi sullo stato del diritto e della giustizia; ma si ha l’impressione che esse non dicano fino in fondo le cose come stanno: omettono di riferire qualcosa o fingono l’esistenza di qualcosa che nei fatti non esiste. Allora la verità dovremmo attingerla altrove, magari da una letteratura diversa, atecnica, o semplicemente più coraggiosa; o, magari, metaforica com’è stato a suo tempo per la letteratura utopistica.
Da questo punto di vista proprio l’archetipo, l’Utopia di Tommaso Moro, conserva ancora una certa freschezza metodica e nella stessa analisi istituzionale. Utopia (ou più topos) è un’isola che non c’è, in quanto tale ottima per farvi esercizio intellettuale di costruzione di uno Stato (e di una costituzione) ideale. Probabilmente la fonte prossima di queste fantasie sulle istituzioni perfette furono i resoconti dei viaggi e delle esplorazioni del Nuovo mondo, particolarmente il Mundus Novus di Amerigo Vespucci alle cui spedizioni asseriva di aver partecipato il protagonista di Utopia, Raffaele Itlodeo (letteralmente «venditore di bugie»), voce narrante di tutto il romanzo. Così, nell’appassionata descrizione di Utopia, fattane da Itlodeo, spuntano istituzioni assolutamente antitetiche rispetto a quelle vigenti nel Cinquecento inglese: oltre alla comunione dei beni, eguaglianza di condizioni nel lavoro e nella partecipazione al governo politico, democrazia e rotazione nella titolarità delle cariche pubbliche, leggi chiare e in numero esiguo, processi rapidi e non afflitti da inutili formalismi e dalle furberie degli avvocati. Esattamente il contrario di quel che avveniva negli Stati europei del Cinquecento:
una cosa per sé evidente si riesce a metterla in discussione per opera di uomini di legge, ognuno dei quali ha la sua opinione, e vien revocata in dubbio la verità, e opportunamente si dà con ciò appiglio al re di interpretar la legge a suo vantaggio. Così nessuno – vergogna o paura che sia – oserebbe più opporsi. In tal modo senza più scrupoli la sentenza vien poi resa nelle dovute forme10.
Così scrive Moro verso la fine del libro I di Utopia: la funzione del diritto, almeno secondo i titolari del potere pubblico, sarebbe quella di negare la verità. Egli è saldo nella convinzione che la legge è servente del potere ogni qualvolta non sia espressione dell’essere normativo immanente nei rapporti sociali la cui natura fissa i doveri e i diritti degli uomini: per questo le leggi hanno semplicemente lo scopo «di ricordare a ognuno il proprio dovere»11 e per questo a Utopia esse sono pochissime e intellegibili con la conseguenza che «ognuno è esperto di legge»12 (e «non ammettono assolutamente avvocati» menzogneri e manipolatori delle leggi)13. È quando le leggi non si adeguano alla realtà assecondando il modo di essere spontaneo delle relazioni umane che si invera la loro riduzione a mero strumento della volontà di chi sia al potere: uno strumento subdolo non solo perché postula comunque obbedienza, ma pure perché gode – la legge – di una rispettabilità quasi a priori tale da vedersi attribuita quella valenza comunemente denominata maestà. È alla legge – ci spiega Moro – che si ricorre laddove i bisogni del potere ovvero le sue esigenze finanziarie postulino l’escogitazione di «artifici per ammucchiar tesori»14. Così la legge asservita al potere crea finzioni utili alla ragion di Stato: si finge, per esempio, una guerra e la legge viene ad essere abilitata a introdurre una nuova imposta. E questa realtà legale fatta di artifici e finzioni si perfeziona e diviene inoppugnabile per opera di funzionari pubblici come i giudici, che il potere facilmente blandisce e che contraccambiano i privilegi ottenuti emanando sentenze formalmente ineccepibili, così che «nessuno […] oserebbe più opporsi»15. D’altronde, ai giudici non mancano i mezzi per occultare le prave intenzioni: ci si può sempre appellare, si ironizza nel romanzo, all’equità o alla lettera della legge o al suo senso profondo che si cela sotto le parole ecc.
Moro non avrebbe potuto essere più esplicito; e più negativa la sua valutazione del diritto e dei suoi operatori professionali.

2. I giuristi del principe.

Nei manuali e nei corsi dedicati alla storia del diritto romano una parte della trattazione verte sulla iuris prudentia. Quasi sempre ci si limita a far menzione del nome dei giuristi e dei titoli delle principali opere da loro scritte. Al più si aggiunge qualche notazione sui generi letterari della loro produzione scientifica, in effetti un unicum nelle esperienze giuridiche dell’antichità. E tuttavia anche a questo proposito non vi è molto più di una (noiosa) elencazione. Così la storia della grande giurisprudenza romana si riduce a un po’ di nomi, di titoli, di generi letterari. Ma si tratta di una vicenda che offre occasione per avviare riflessioni di ben altro spessore e interesse in una pluralità di campi di indagine: uno è quello delle relazioni tra i giuristi e il potere o i poteri che governano – o aspirano a governare – una società. Da questo punto di vista la sorte della iuris prudentia nei primi tre secoli dell’era cristiana appare, come spesso accade dentro l’esperienza giuridica romana, emblematica di un modello di azione e relazione conn...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Il diritto che illude
  7. II. Il diritto che delude
  8. III. Il diritto che mente
  9. IV. Il diritto buono, il diritto colto
  10. Un avvertimento finale