Antipartiti
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Antipartiti

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Antipartiti

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L'Italia sta vivendo una fase politica di grande incertezza ed è attraversata da una crisi di difficile ricomposizione. Molti prevedono o auspicano l'avvento di una terza Repubblica. In realtà, è difficile dire se ci sia mai stata davvero una seconda Repubblica, e di cosa esattamente si sia trattato. Una nuova Repubblica avrebbe richiesto una nuova Costituzione, ma la legge fondamentale in vigore è a tutt'oggi, nella sostanza, quella varata nel 1948. Non per questo possiamo dire che non sia cambiato niente. Il sistema politico è cambiato radicalmente attraverso la discontinuità del 1989-94. Da allora, non c'è più la Repubblica dei partiti. Non ci sono più la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista, con le loro organizzazioni di massa, le loro appartenenze ideologiche, le loro subculture. Con la svolta dei primi anni novanta si è avuto il passaggio da una vecchia a una nuova politica, basata sui referendum, sulla mobilitazione della società civile, sugli appelli all'impresa, alla tecnocrazia o alla magistratura, su neo-partiti che si volevano basati su criteri radicalmente diversi rispetto ai vecchi. Almeno questo dichiaravano di voler fare, dando alla dicotomia vecchio-nuovo una valenza manichea di grande presa sull'elettorato. Dall'analisi storica della politica «vecchia» e di quella «nuova» – e delle retoriche del «nuovo» che si sono perpetuate fino a oggi, fino al ventennio berlusconiano e all'ondata di protesta antipartitica del Movimento 5 Stelle – il libro trae gli elementi di riflessione sul che fare, se si volessero riparare i danni e i difetti da cui veniamo. Spiega come e quanto la prima Repubblica, in particolare nel primo ventennio, abbia saputo rappresentare la società civile; analizza le profonde incongruenze della seconda; insiste sull'importanza, nella svolta del 1993, della polemica contro gli abusi perpetrati dai vecchi partiti, dalla «casta» professionale che li governava; legge la discesa in campo di Berlusconi come esito di un processo di svuotamento della stessa forma partito. E rileva una contraddizione. I neo-partiti che furono allora banditori del cambiamento sono stati poi preda di analoghi – se non maggiori – difetti, e lo sono tuttora: coazione a ripetere che non a caso sta dando luogo a una mitologia della terza Repubblica quasi perfettamente corrispondente a quella che aveva dato luogo alla seconda. L'autore avanza a questo punto una domanda cruciale: e se la retorica antipartitica fosse non la soluzione, ma il problema della vita politica italiana dell'ultimo ventennio?

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433291

III. Nuova politica

1. La grande slavina.

L’immagine di una grande slavina originatasi con il crollo del muro di Berlino, che andava a distruggere il sistema politico creatosi in Italia nel 1946-48, fu evocata in un brillante pamphlet scritto nel 1993 da Luciano Cafagna, grande storico e intellettuale socialista. L’effetto distruttivo era per Cafagna accentuato da tre crisi correlate tra loro. C’era la prima, quella fiscale, resa evidente dal Trattato di Maastricht (1992) e dalla prospettiva dell’introduzione di una moneta europea; che imponevano il rientro da un debito pubblico fattosi schiacciante, nonché lo smantellamento del sistema dell’industria e delle banche statali. C’era la seconda, quella morale, con le inchieste giudiziarie che colpivano e nel contempo svelavano la vastità del fenomeno della corruzione politico-affaristica, per cui l’Italia apparve come il paese delle tangenti, Tangentopoli. C’era la terza, quella istituzionale, che rendeva la Repubblica incapace di governare il cambiamento. Ogni crisi rappresenta anche un’occasione: e così, con entusiasmo, quelle furono vissute da moltissimi italiani che sognavano una nuova politica e una seconda Repubblica. Cafagna invece pensava che venirne fuori sarebbe stato tutt’altro che facile, come dimostra il titolo del capitolo conclusivo del suo libro: Dal caos non nasce la più bella armonia1.
Nel 1989-90 a essere investito per primo fu il Pci, chiamato irrimediabilmente in causa dal collasso del sistema comunista in Europa orientale. Fu anche il primo a imboccare ostentatamente una nuova strada cambiando nome e ragione sociale, per iniziativa del suo leader Achille Occhetto, che lo ribattezzò Partito democratico della sinistra (Pds).
Da un decennio il partito arrancava. Con la morte di Moro, era stato ammesso nella maggioranza di governo ma non nel governo stesso, era stato lasciato – come si disse – sul guado, finché si era reso conto di dover tornare all’opposizione. Più avanti diremo meglio del suo duro contrasto col Psi di Craxi, ma diciamo subito che, dalle elezioni del 1979 a quelle del 1987 (con una pausa nel 1983), i suoi consensi andarono calando, come mai era avvenuto dal 1948. Non poté più far conto sui movimenti post-sessantotteschi, la cui ultima ondata andò a esaurirsi molto lontano dai partiti: donde, da una parte, il motto «la Politica è finita»2, con cui l’intellettuale femminista Chiara Lonzi espresse il punto di vista di molti reduci, e dall’altro il compiacimento dei moderati che li vedevano tornare al «privato», sparire in un «riflusso»3. Tra l’altro, si scollò il fronte laburista: prima con la manifestazione torinese dei quarantamila quadri intermedi Fiat contro l’egualitarismo salariale propugnato dai sindacati confederali (1980); poi con la sconfitta del Pci nel referendum indetto per evitare il taglio del meccanismo che tutelava i salari dall’inflazione, la «scala mobile» (1985).
Ancora Cafagna, dal suo punto di vista un po’ rancoroso di ex comunista (era uscito dal partito nel 1956), tirò nel 1991 il suo consuntivo: quella del Pci era stata una mera «strategia dell’obesità», un accumulare voti inutili per un’alternativa di governo4. Con l’usuale acume, centrava il punto cruciale anche se ne trascurava altri storicamente rilevanti. Quei successi avevano alimentato un’opposizione poco malleabile, in grado di guidare illuminate amministrazioni locali e forti movimenti sindacali. Avevano dato voce a una consistente minoranza, non tanto interessata all’alternativa quanto alla tutela dei diritti politici e civili nel paese in cui «la borghesia» aveva dimostrato col fascismo di poter negare gli uni e gli altri, in cui il «clericalismo» minacciava di fare altrettanto. Erano andati a creare un baluardo in difesa della legalità repubblicana, come abbiamo già visto riferendoci al caso Moro e come più avanti vedremo.
Fu quello il retaggio che fece sopravvivere il partito ex comunista, che lo rese capace di affrontare il trauma del cambiamento evitato per decenni, e insieme di mantenersi in una logica di continuità persino nella scelta del nuovo nome. Con esso, i suoi dirigenti evitarono di richiamarsi alla socialdemocrazia, oggetto di vecchie diffidenze, e al socialismo, ai loro occhi squalificato dal più che decennale contrasto con Craxi; lasciarono aperta la porta per un futuro incontro con i cattolici in uno schema che possiamo dire berlingueriano e forse anche togliattiano (il progetto si sarebbe di lì a qualche anno concretizzato, ma sotto una nuova insegna: Partito democratico); cercarono di non pagare dazio alle ostilità della nuova politica per ogni statalismo socialisteggiante. E in effetti ressero, sia pure al prezzo della scissione del gruppo di sinistra, o tradizionalista, che andò a formare Rifondazione comunista.
Nel frattempo il presidente della Repubblica Francesco Cossiga abbandonava il grigio moderatismo democristiano che sempre l’aveva caratterizzato, per aprire la sequenza degli interventi di tono estremo che lui stesso, e la stampa, chiamarono «picconate». Per sottolineare quanto i tempi fossero cambiati, svelò l’esistenza del segreto apparato anticomunista, Gladio, e aggiunse di avervi lui stesso partecipato: provocando lo sconcerto della vasta sezione della pubblica opinione che addebitava la strategia della tensione proprio a gruppi di quella natura. Di seguito, invitò tutti a prendere atto della fine dell’antifascismo, oltre che dell’anticomunismo, della necessità di una pacificazione tra i nemici del 1945 e – visto che c’era – anche di un’amnistia per Renato Curcio, il fondatore delle Br, e altri terroristi. Giunse così a proclamare la necessità di una seconda Repubblica e di una nuova Costituzione5, chiamando in causa il «popolo sovrano» e provando a mettersi in contatto diretto con esso attraverso una sequenza di scomposte «esternazioni» televisive. Quanto ai partiti, li disse «oligarchie», «chiusi apparati», strumenti di «dominio sulla vita della società», però precisando che andavano salvati da se stessi, «dagli effetti devastanti della partitocrazia»6. Pensava andassero salvati dalla magistratura, anche. Uno dei momenti più emblematici della sua presidenza fu quello che lo vide presentarsi a una riunione del Csm alla testa di un reparto di carabinieri per ribadire il suo diritto a controllarne i lavori.
I dirigenti del Movimento sociale gli donarono un piccone. Come antichi campioni dell’antipartito e fautori di una nuova Repubblica presidenzialista, vedevano dietro le sue intemperanze un problema non psichiatrico, ma politico. Cossiga sapeva che insieme all’arcinemico comunista rischiava di smaterializzarsi anche il baluardo anticomunista democristiano; donde la necessità di coinvolgere la destra con nuovi linguaggi meno ingessati. Un’altra cosa gli era chiara: la delegittimazione degli apparati partitici creava spazi per iniziative politiche dei detentori di cariche istituzionali, in particolare di quella suprema. In quella maniera concitata, provava a occuparli.
La vicenda mostra che dietro la spinta antipartitica c’era – bene ha scritto il politologo Alfio Mastropaolo – una sottile commistione tra vecchio e nuovo7.
Il discorso si attaglia particolarmente a Mario Segni. Costui era il figlio di Antonio Segni, che il lettore ricorderà come presidente della Repubblica nel 1962-64, uomo della destra Dc, sensibile agli argomenti dell’antipartito liberaleggiante di Sturzo, ostilissimo a Moro e alle sue aperture a sinistra, in qualche modo coinvolto negli intrighi del Piano Solo. Segni jr., anche lui militante nella destra del partito (per dirla con la sua terminologia, nell’ala liberaldemocratica o «degasperiana»)8, aveva fatto i suoi esordi in un’altra battaglia contro Moro e l’apertura a sinistra, quella degli anni settanta. Anche il suo discorso contro la partitocrazia muoveva dall’ostilità per il modello «originario» comunista e per le sue riproduzioni in campo avverso. Potremmo dire che lo accomunava al padre l’antisocialismo, precisando che per lui, alla fine degli anni ottanta, il Psi rappresentava il peggio della partitocrazia: ovvero di un sistema «sempre più dominato da un ceto politico sempre più professionalizzato e sempre più distaccato dalla società civile», che paralizzava le istituzioni, si rivelava incapace di fronteggiare problemi cruciali come il deficit pubblico, e favoriva il dilagare della corruzione9.
Il confronto tra padre e figlio finisce qui. Antonio e Mario Segni venivano dalla macchina politica democristiana, ma il secondo se ne autonomizzò prima e concorse alla sua demolizione poi. Aprì la strada alla seconda Repubblica facendo valere due idee di base.
Prima idea. Trasformazione del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario. Le opinioni non saranno rappresentate esattamente (proporzionalmente, appunto)? Pazienza. Le elezioni non sono un sondaggio di opinione. Il piccolo collegio uninominale consentirà una migliore (personale) relazione tra elettori ed eletti, mentre il riparto maggioritario dei seggi, favorendo i gruppi maggiori, creerà un bipartitismo di tipo britannico o americano, quanto meno un bipolarismo, sostituendo la sana competizione al maleodorante consociativismo. Seconda idea. Personalizzazione del potere, tale da garantire trasparenza dove c’è oscurità, spirito decisionista dove c’è estenuata mediazione: su scala nazionale rendendo protagonista il presidente della Repubblica o il capo del governo, su scala locale i sindaci, i presidenti di regioni e province, legittimando tutti mediante diretta elezione popolare. Spazzati via gli apparati autoreferenziali, la partitocrazia, l’elettore potrà «scegliere direttamente il governo»10.

2. Riforma istituzionale.

L’idea della riforma istituzionale aveva dopo il 1989 un segno anticraxiano, nondimeno dieci anni prima era stato proprio Craxi a pronunciarsi per una «Grande riforma» istituzionale. Però, prudentemente, aveva in quella fase evitato di precisarne i contorni. Voleva più che altro far sì che i socialisti assumessero il ruolo dei riformatori come ai tempi del centro-sinistra, lasciando a democristiani e comunisti la parte dei conservatori.
I due partiti maggiori condividevano in effetti la responsabilità di molte delle scelte fatte nel periodo immediatamente precedente, e che molto influenzarono l’avvenire. A livello parlamentare, restarono per molti anni ancora operativi i meccanismi di cogestione maggioranza-opposizione venutisi a creare nel 1976. Una maggioranza collocata tra centro e sinistra continuò a guidare il Csm. Anche il compromesso neo-corporativo tenne sul medio periodo, visto che i sindacati confederali furono gli interlocutori dei governi nelle politiche di «concertazione» seguite sin verso la fine del secolo. Il carattere compromissorio del sistema era accentuato dal fatto che i comunisti stavano al governo di molte amministrazioni regionali e comunali al fianco degli stessi partiti di centro-sinistra che non li giudicavano legittimati a governare a Roma.
Nelle discussioni tra gli scienziati della politica, non mancarono a cavallo tra anni settanta e ottanta le apologie del «governo debole», capace di mostrarsi flessibile verso la pluralità delle spinte sociali e le istanze dei diversi gruppi di pressione11. Prevalse però il punto di vista di chi, all’opposto, mirava a un governo forte, emancipato dai vincoli «consociativi» tra maggioranza e opposizione, tra forze e istituzioni diverse. Su scala internazionale, la Trilateral Commission ammoniva sui rischi di un eccesso di partecipazione dal basso in tu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Vecchia politica
  7. II. Italia in movimento
  8. III. Nuova politica
  9. IV. Un altro ventennio