Gradiva. Una fantasia pompeiana
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Gradiva. Una fantasia pompeiana

  1. 178 pagine
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Gradiva. Una fantasia pompeiana

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Quella di Norbert Hanold, giovane e brillante archeologo tedesco, è la storia di un sogno, di un'ossessione, di un innamoramento. O meglio ancora, la storia di una passione, una doppia passione: quella palese per l'archeologia e quella repressa per una donna. Come poteva un racconto così ricco di spunti sfuggire all'occhio attento del dottor Freud che, proprio mentre Jensen lo dava alle stampe, costruiva le sue teorie psicoanalitiche? Ecco perché uno dei suoi saggi tuttora più conosciuti s'intitola proprio Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen. Ma questa è un'altra storia. Quella di Norbert, intrigantissima come ogni piccolo classico della letteratura, racconta della sua ossessione per un antico bassorilievo raffigurante una giovane donna nell'atto di incedere. Norbert subito s'invaghisce della grazia di quel passo, tanto da procurarsene un calco in gesso, che da quel momento troneggerà nel suo studio non meno che nella sua mente e nei suoi sogni. E sarà proprio un sogno a suggerirgli di mettersi in viaggio per Pompei, con la certezza che tra le rovine all'ombra del Vesuvio scoprirà la storia di quella donna, cui ha dato persino un nome: Gradiva. Abbattuto ogni steccato tra sogno e realtà, Norbert incontrerà l'agognata figura femminile sotto il sole cocente del mezzogiorno pompeiano, e proprio nell'attimo della sua resa al delirio di un incontro inspiegabile, si accorgerà che quella ragazza è fatta di carne e non di marmo... Lo scavo archeologico è sconfinato nell'inconscio, e con sapiente ironia Jensen lo conduce a un lieto fine che sorprende e diverte il lettore. A dare sostanza in queste pagine ai sogni, all'ossessione, al delirio e alla passione di Norbert, ci pensa il tratto onirico e al contempo divertito di Cecilia Capuana. Catturata a sua volta dal racconto di Jensen – al pari di Freud – e dal passo della Gradiva – non meno di Norbert –, Cecilia Capuana esplora i tanti piani di lettura di una storia che intreccia magistralmente l'arte e la poesia, l'inconscio e il mito, l'allucinazione e l'eros, la sublimazione e il reale.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433321
Nel visitare un grande museo di Roma, Norbert Hanold aveva scoperto un bassorilievo che l’aveva particolarmente attratto, talché, rientrato in Germania, fu assai lieto di potersene procurare un perfetto calco in gesso. Esso era appeso già da qualche anno in un punto privilegiato del suo studio, anche se circondato da scaffali, ed esposto nella giusta luce, proprio alla parete su cui il sole, seppur brevemente, si posava al tramonto. L’immagine rappresentava, a circa un terzo della grandezza naturale, una figura femminile nell’atto di camminare: una giovane non più bambina né tuttavia ancora donna, una virgo poco più che ventenne. Essa non rimandava in alcun modo ai molti bassorilievi pervenuti fino a noi che raffigurano una qualche Venere o Diana o altra divinità dell’Olimpo e tantomeno somigliava a una Psiche o a una ninfa. Vi era in essa un che di umano, di comune ma non in senso spregiativo, un tocco in certo qual modo moderno nel riprodurne le fattezze, quasi che l’artista, vedendola passare, ne avesse trattenuto l’immagine vivente plasmandola all’istante nella creta anziché, come farebbe oggi, tracciando uno schizzo su un foglio. Alta e slanciata, i capelli lievemente ondulati quasi tutti raccolti nelle pieghe di un velo, dal volto piuttosto sottile non promanava un fascino smagliante; né tantomeno vi si leggeva l’intenzione di esercitarlo. Nei tratti raffinati si esprimeva una serena indifferenza per quanto accadeva intorno, lo sguardo dritto e imperturbabile parlava di un’intatta facoltà visiva e di pensieri pacatamente racchiusi in se stessi. La giovane donna non colpiva tanto per bellezza plastica, quanto perché aveva in sé qualcosa che raramente affiora nelle antiche sculture in pietra: una grazia naturale, semplice, virginea, che pareva infondere vita alla materia. A produrre quest’effetto era essenzialmente il movimento in cui ella era raffigurata. Il capo lievemente chino, con la mano sinistra teneva leggermente sollevata la veste che le ricadeva in ampi drappeggi dalle spalle alle caviglie, sicché sotto si scorgevano i piedi calzati di sandali. Il piede sinistro era appoggiato a terra, davanti, e il destro, nell’atto di seguirlo, sfiorava appena il terreno con la punta delle dita mentre la pianta e il calcagno salivano pressoché verticali. Quel movimento risvegliava una duplice impressione di leggerezza e agilità del passo e al tempo stesso di salda fermezza. Quel suo librarsi quasi in volo unito all’incedere sicuro conferiva alla giovane donna una grazia tutta particolare.
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Da dove proveniva e dove era diretta? A dire il vero il professor Norbert Hanold, docente di archeologia, non riscontrò in quel bassorilievo alcun dettaglio degno di nota per i suoi studi. Non si trattava di un capolavoro scultoreo dell’arte antica maggiore; in fondo non era che un’effigie di maniera d’epoca romana, ed egli non sapeva spiegarsi che cosa in essa l’avesse particolarmente colpito; sapeva solo ch’era stato attratto da qualcosa al primo colpo d’occhio e che la sua impressione si era in seguito mantenuta inalterata. Volendo attribuire un nome a quell’immagine, scelse di chiamarla Gradiva, «colei che incede»: appellativo in realtà riservato dai poeti antichi a Marte Gradivo, il dio della guerra che avanza verso la battaglia, ma Norbert lo ritenne il più adeguato al portamento e al modo d’incedere della fanciulla. O meglio, per usare una definizione moderna, della signorina, poiché senza alcun dubbio essa non apparteneva al ceto inferiore, era figlia di un nobilis, o comunque di un honesto loco ortus. Forse – l’aspetto glielo suggerì senz’altro – faceva parte del casato di un patrizio aedilis che esercitava il proprio ufficio nel nome di Cerere, e in quel momento si recava al tempio della dea per compiervi un qualche rito.
Pure il giovane archeologo stentava a immaginarla immersa nella grande e chiassosa metropoli romana: l’aspetto, i modi pacati e tranquilli mal si adattavano, secondo lui, a quell’agitazione convulsa in cui nessuno badava all’altro; piuttosto rimandavano a un centro minore, dove la gente la conosceva e, fermandosi, la seguiva con lo sguardo e l’uno diceva all’altro: «Quella è Gradiva – Norbert non era in grado d’inserire a questo punto il vero nome della giovane –, la figlia di… ha il passo più aggraziato di tutte le fanciulle della città».
Quasi l’avesse udita con le proprie orecchie, la frase gli era penetrata nella mente e aveva dato origine a un’ipotesi che in breve divenne quasi una certezza. Durante il suo viaggio in Italia aveva trascorso alcune settimane a Pompei per studiarvi le antiche rovine; tornato in Germania, un giorno all’improvviso immaginò che la fanciulla raffigurata nel rilievo camminasse su quelle singolari pietre sporgenti, ritrovate nel corso degli scavi, che nei giorni di pioggia consentivano di attraversare la strada senza bagnarsi e tuttavia non impedivano il passaggio alle ruote dei carri. La vide così, un piede già posato oltre lo spazio vuoto fra due pietre, l’altro nell’atto di seguirlo; e osservando colei che avanzava egli ricostruì nell’immaginazione l’ambiente che la circondava. Sostenuta dalla sua conoscenza del mondo antico, la fantasia gli ricreò quasi concretamente lo scenario della strada che s’allungava tra due file di case intervallate qua e là da templi e porticati. Vi si svolgevano anche attività commerciali e vi si praticavano mestieri: tabernae, officinae, cauponae, botteghe, officine, osterie; fornai mettevano in mostra i pani, anfore di terracotta inserite in banconi di marmo offrivano ogni cosa necessaria per la casa e la cucina; seduta a un crocicchio, una donna esponeva in grandi cesti verdura e frutta da vendere: aveva tolto la metà del guscio da una mezza dozzina di noci di modo che la vista del gheriglio fresco e intatto inducesse all’acquisto. Ovunque si volgesse, lo sguardo incontrava vivaci colori, facciate di tinte diverse, colonne sormontate da capitelli rossi e gialli; ogni cosa riluceva e splendeva nel bagliore del sole di mezzogiorno. Più avanti si ergeva su un alto piedistallo una statua di un bianco accecante e sopra questa si stagliava in lontananza, seppure un po’ velato dal tremolio dell’aria infuocata, il Mons Vesuvius; non, tuttavia, nella sua attuale forma conica, brullo e di colore cupo, ma rivestito di un manto verdeggiante fin sotto la cima scoscesa e frastagliata. In strada c’era poca gente e ognuno cercava di spostarsi da una zona d’ombra all’altra, mentre la calura del mezzogiorno estivo paralizzava il consueto affaccendato andirivieni. Intanto la Gradiva procedeva sulle pietre del passaggio mettendo in fuga una lucertola di un verde dorato e cangiante.
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Così l’immagine prendeva vita agli occhi di Norbert Hanold; eppure, contemplando giorno dopo giorno il volto della fanciulla, in lui si fece lentamente strada un’altra congettura. Egli si andò via via convincendo che i lineamenti non fossero del tipo romano o latino, ma greco, e a poco a poco raggiunse la certezza che la giovane donna fosse di origine ellenica. L’ipotesi, ampiamente suffragata dall’antica colonizzazione greca dell’Italia meridionale, fornì anche le basi per ulteriori affascinanti fantasie. Probabilmente in casa si parlava il greco e la giovane domina era cresciuta con un’educazione greca. A un esame più attento, l’espressione del volto ne dava conferma: quella semplicità celava in sé intelligenza e raffinata spiritualità.
Simili congetture, o scoperte, non erano tuttavia tali da giustificare un reale interesse archeologico per il piccolo bassorilievo, e Norbert si rendeva conto che vi era qualcos’altro, non del tutto pertinente alla sua scienza, che l’induceva a ritornarvi sopra con tanta assiduità: ciò che a lui premeva era esprimere un giudizio critico sulla questione se l’artista avesse riprodotto in modo veritiero l’incedere della Gradiva. Egli non seppe venirne a capo, né la sua vasta raccolta di riproduzioni di sculture antiche gli fu d’aiuto. Di fatto gli sembrava esagerata la posizione quasi perpendicolare del piede destro; e, in tutti i tentativi che compì egli stesso, nel camminare il piede che restava dietro non assumeva mai una posizione tanto verticale; in termini matematici, nel breve momento dell’indugio esso formava col terreno un angolo di soli quarantacinque gradi, il più naturale, del resto, e senza dubbio il più funzionale alla meccanica del passo. Un giorno approfittò della presenza di un amico, un giovane studioso di anatomia, per sottoporgli la questione; ma questi, non avendo mai condotto indagini in tal senso, non seppe fornire una risposta precisa. In base all’esperienza personale, l’amico confermò in pieno l’osservazione di Norbert, ma non fu in grado di precisare se il modo d’incedere femminile divergesse da quello maschile; il problema quindi rimase insoluto.
Nondimeno, parlarne si rivelò utile, poiché in tal modo a Norbert Hanold balenò l’idea di compiere personalmente alcune ricerche al fine di ottenere chiarezza. Ciò lo costrinse ad adottare comportamenti che gli erano del tutto inconsueti: finora il sesso femminile era stato per lui un concetto astratto, che riguardava solamente figure di marmo o di bronzo, ed egli non aveva mai prestato la benché minima attenzione alle rappresentanti di quel sesso sue coetanee. Ma la sete di conoscenza gli accese dentro un ardore scientifico col quale si accinse a compiere quella ricerca singolare ma a suo avviso necessaria. Questa si rivelò alquanto complicata quando si aggiungevano le difficoltà dovute alla ressa della città, mentre lasciava sperare in qualche risultato se condotta in vie poco frequentate. Anche in tal caso, tuttavia, gli abiti lunghi celavano totalmente il passo; le gonne corte erano indossate quasi esclusivamente dalle domestiche che però, tranne un’esigua minoranza, non erano di alcuna utilità ai fini della sua ricerca a causa delle rozze calzature. Ciò nonostante egli perseverò nel proprio intento, sia col sole sia con la pioggia; si accorse, anzi, che quest’ultima prometteva risultati migliori poiché costringeva le donne a sollevare l’orlo delle gonne. Inevitabilmente più d’una dovette notare lo sguardo indagatore rivolto ai suoi piedi; e non di rado un’espressione di sdegno sul volto della donna osservata manifestava ch’ella considerava quel comportamento impudente e villano; a volte invece, poiché Hanold era un giovanotto di bell’aspetto, negli occhi della donna si leggeva il contrario, un che d’incoraggiante; egli però non s’avvedeva né dell’uno né dell’altro. Per contro, la sua perseveranza gli valse a poco a poco una cospicua casistica assai differenziata: alcune donne camminavano con lentezza, altre speditamente, chi con passo pesante, chi con andatura lieve. Molte sfioravano il terreno con la suola in posizione orizzontale, ben poche l’inclinavano in una posa più aggraziata. Fra tutte, non ve n’era una che riproducesse il passo della Gradiva; ne concluse, con soddisfazione, di non essersi sbagliato nel suo giudizio, di natura archeologica, a proposito del bassorilievo. D’altro canto quelle osservazioni lo misero di malumore; trovava infatti molto bella quella posizione verticale del piede che seguiva l’altro e gli dispiacque che, creata dalla fantasia o dall’arbitrio dell’artista, essa non trovasse riscontro nella realtà quotidiana.
Aveva da poco portato a termine le sue indagini pedestri quando una notte fece un sogno angoscioso che lo riempì di terrore. Sognò di trovarsi nell’antica Pompei, proprio quel 24 agosto del 79, giorno della terribile eruzione del Vesuvio. Il cielo avvolgeva in una nera cappa di caligine la città destinata alla distruzione, solo a tratti s’intravedeva uscire da uno squarcio un qualcosa su cui le fiamme sprigionate dal cratere gettavano una luce color rosso sangue; sconvolta e istupidita dal terrore, la gente cercava scampo nella fuga, chi solo e chi stretto ad altri in una confusa moltitudine. Anche su Norbert si abbatteva la pioggia di cenere e di lapilli e tuttavia, come paradossalmente accade nei sogni, non ne rimaneva colpito, così come i letali vapori sulfurei nell’aria, che pure avvertiva, non gli impedivano di respirare. Fu allora, mentre sostava accanto al tempio di Giove prospiciente il Foro, che all’improvviso scorse davanti a sé la Gradiva; sino a quel momento l’idea di ritrovarla qui non l’aveva neppure sfiorato; ma ora gli parve più che ovvio che la giovane, essendo di Pompei, non solo vivesse nella sua città, ma anche contemporaneamente a lui, cosa che prima non aveva sospettato. La riconobbe al primo sguardo: l’immagine scolpita nella pietra riproduceva fedelmente ogni dettaglio, compreso il movimento del passo che gli venne spontaneo definire lente festinans. Con incedere pacato e insieme svelto ella attraversò il selciato del Foro diretta al tempio di Apollo, con quella sua serena indifferenza per quanto accadeva intorno. Assorta nei suoi pensieri, pareva non accorgersi della catastrofe che s’abbatteva sulla città; sicché anche Norbert se ne scordò, per qualche istante almeno, e, intuendo in qualche modo che la realtà vivente di lei sarebbe presto scomparsa, tentò d’imprimersi nella mente ogni particolare. Di colpo, tuttavia, si rese conto che, se ella non si fosse messa in salvo al più presto, sarebbe perita nella rovina generale; lo spavento gli strappò un grido, volle avvisarla. Gradiva lo udì, volse il capo verso di lui e per un attimo il suo viso gli si mostrò per intero, ma non sembrò aver compreso e senza prestargli ulteriormente attenzione proseguì sui suoi passi. Ma in quel mentre il volto le si scolorì, quasi si andasse trasformando in marmo bianco; la giovane donna fece ancora qualche passo fino al portico del tempio, sedette su un gradino tra due colonne e lentamente vi posò il capo. La pioggia di lapilli s’infittì sino a formare una cortina impenetrabile; nondimeno, Norbert riuscì a raggiungere di corsa il punto in cui ella era scomparsa alla sua vista e la trovò, sdraiata sull’ampio gradino al riparo del tetto sporgente: non respirava più, evidentemente asfissiata dai vapori sulfurei. Il rosso bagliore emanato dal Vesuvio le illuminava il volto che, a occhi chiusi, somigliava in tutto a una bella effigie scolpita nella pietra; nei suoi lineamenti distesi non v’era segno d’angoscia, vi si leggeva piuttosto una mirabile, quieta accettazione dell’ineluttabile. Ben presto la cenere sospinta dal vento le offuscò il volto, vi si posò dapprima come un velo grigio, ne annullò quindi i tratti e infine, come una tormenta di neve dell’inverno nordico, seppellì l’intera figura sotto una coltre uniforme. Le colonne del tempio sporgevano ancora, ma solo per metà: la grigia massa di cenere si ammucchiava tutt’intorno sempre più alta.
Risvegliatosi, Norbert Hanold udiva ancora le grida convulse degli abitanti di Pompei che cercavano scampo e il cupo rimbombo dei frangenti del mare in tempesta. Poi tornò in sé: il sole disegnava sul suo letto una fascia di luce dorata; era un mattino d’aprile e dall’esterno gli giungeva il frastuono variegato della città, i richiami dei venditori, lo strepitio delle carrozze. A occhi aperti rivide le immagini del sogno, nitide e precise, e gli ci volle del tempo per uscire da quello stato indefinito di semincoscienza e convincersi di non avere realmente assistito, in una notte di quasi duemila anni prima, al cataclisma nel golfo di Napoli. A poco a poco, mentre si vestiva, quell’impressione l’abbandonò; eppure, per quanto si appellasse al proprio raziocinio, non riusciva a sottrarsi all’idea che la Gradiva fosse vissuta a Pompei e lì fosse rimasta sepolta nell’anno 79. Non solo, ma la prima ipotesi, ormai assurta a certezza, servì a suffragare la seconda. Gettò uno sguardo colmo di tristezza all’antico bassorilievo che andava assumendo ai suoi occhi un nuovo significato: una sorta di monumento funerario in cui l’artista aveva tramandato ai posteri l’immagine di quella giovane così prematuramente scomparsa. D’altronde, a giudicarne l’espressione con occhio imparziale, non v’era dubbio che in quella notte funesta ella avrebbe affrontato la morte con la serenità che il sogno gli aveva rivelato. Un antico detto recitava ch’erano cari agli dei coloro che essi strappavano alla terra nel fiore della giovinezza.
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In vestaglia e pantofole, prima di indossare la camicia e chiudersi il colletto, Norbert si affacciò alla finestra aperta e guardò fuori. La primavera si era finalmente spinta fino al Nord e, benché nella sterminata pietraia della città s’annunciasse soltanto con l’azzurro del cielo e la mitezza dell’aria, nondimeno essa vi diffondeva un che di sensuale, risvegliando il desiderio di spazi aperti e soleggiati, del verde delle foglie, di profumi e del canto degli uccelli. Qualcosa di tutto questo era giunto sin lì: in strada le donne delle bancarelle avevano ornato le loro ceste con fiori di campo colorati e in una gabbia davanti a una finestra spalancata un canarino cantava a squarciagola. La povera bestiola fece pena a Norbert: sotto quel suono limpido e gioioso s’intuiva la nostalgia di libertà, di spazi sconfinati.
Ma i pensieri del giovane archeologo vi indugiarono solo di sfuggita, subito distolti da altro. Solo ora si rese conto di aver omesso di osservare, in sogno, se la Gradiva in carne e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Postfazione