1. Lumière e/o Méliès
Le invenzioni diventano «vere» quando i tempi sono maturi per farne uso, quando c’è una domanda e c’è un’offerta. Il cinema è l’arte nuova del Novecento perché le società di massa nate dall’industrializzazione, le nuove città e le vecchie che si dilatano a dismisura hanno bisogno di divertimenti economici e di facile diffusione per il tempo libero dei loro abitanti. Se la fotografia nasce, si sviluppa e si perfeziona nel corso dell’Ottocento, il cinema viene dopo e ne mette a punto i procedimenti applicandoli al movimento, alla riproduzione su pellicola e alla proiezione su schermo di «scene della vita» o ricostruite e, via via, immaginate, ordinate e «montate» secondo un copione e una progressione prestabilita, secondo criteri di narrazione.
Le invenzioni moderne non hanno un solo autore, ne hanno mille. Chi ha inventato la fotografia? Chi ha inventato il cinema (e il film)? Centinaia hanno dato il loro contributo: Plateau, Stampfer, von Uchatius, Heyl, Isaacs, Muybridge, Marey, Eastman, Edison, Reynaud, Le Prince, Friese-Greene, Demenÿ, Latham, LeRoy, Jenkins, Armat, Skladanowsky e i fratelli Louis (Besançon 1864-Lione 1948) e Auguste Lumière (Besançon 1862-Lione 1954), e dei due soprattutto Louis; e anche, per molti versi, il loro accorto genitore Antoine.
Lentamente, da un piccolo perfezionamento a un altro, si definisce una «macchina», un procedimento, una sorpresa. I Lumière erano di Lione, industriali-scienziati che tali resteranno per tutta la vita. Il cinematografo fu la loro «invenzione» più nota, ma non fu il loro mestiere. Nel 1895, il 13 febbraio, chiedono il brevetto dell’apparecchio di riprese cinematografiche, che registra immagini al ritmo di 16 al secondo; il 28 dicembre dello stesso anno, a Parigi, in una saletta del Grand Café sul Boulevard des Capucines, proiettano le prime «vedute» in movimento, i primi «film». Non si rendono conto della portata della loro invenzione e, dopo altri esperimenti e alcune riprese, passano ad altro.
Tra i primi film ci sono riprese di piccoli fatti quotidiani della famiglia (il pasto di un bambino, un bagno a mare, una partita di carte…) e dell’azienda (l’uscita dalla fabbrica, la demolizione di un muro…) e naturalmente il famoso arrivo del treno nella stazione di La Ciotat, e un «soggetto» che è già comico, un effetto speciale a vista: Le jardinier et le petit espiègle, più noto come L’arroseur arrosé, pezzo forte della prima serata di proiezioni parigine. Sono «dimostrazioni» della potenza di un apparecchio meccanico, ma il titolo del primo film resterà per molti emblematico della prima e fondamentale contraddizione del cinema: La sortie de l’usine (o La sortie des ouvriers de l’usine Lumière). Gli operai escono dai cancelli della fabbrica, ed escono via via dall’inquadratura: l’inquadratura sta stretta al cinema. È il dilemma futuro tra un cinema che si costruisce e si controlla tutto dentro l’immagine, l’inquadratura, lo schermo, un cinema che accetta e sfrutta il proprio limite, e invece un cinema che vuole abbatterlo e uscire nella vita coinvolgendola e coinvolgendosene, e che soprattutto vuole uscire dalla fabbrica: dal condizionamento economico dell’industria e del mercato e dal condizionamento della grande tecnologia.
Il titolo del primo film è il titolo di un progetto d’utopia che sovrasta la banalità e la prosaicità della ripresa. Allo stesso modo, può essere considerato esemplare e fin emblematico il confronto tra la scarsa opera dei Lumière e quella di un «pioniere» come Georges Méliès (Parigi 1861-Orly 1938), il più noto dei pionieri, il più prolifico (per alcuni storici circa quattromila «pezzi», per altri 503, di cui conservati circa 120) e il più inventivo e fantasioso di tutti. Da un lato, il realismo documentario che, su fino al realismo e al cinema-verità, sarà l’ambizione di gran parte dei grandi cineasti (riprodurre la vita, raccontare la «vera» vita) e dall’altra la deformazione fantastica, il trucco e l’«effetto speciale», il grande spettacolo sbalorditivo, nonché la surrealtà. Da un lato il documentario, Rossellini, la «nouvelle vague», la televisione, dall’altro DeMille, Disney, Spielberg, ma anche Kubrick, Fellini, Buñuel (e i grandi russi del muto).
Méliès è il padre delle illusioni: veniva dal teatro di trucchi, dagli spettacoli di automi, dai baracconi delle fiere. «Inventò» il primo teatro di posa e ricorse per primo alla luce artificiale, dipinse fondali e scrisse trame, fu produttore e autore completo dei suoi film e per un certo periodo andò in giro presentandoli egli stesso, sperimentò ed elaborò trucchi e illusioni. Se con i Lumière il cinema si serviva della fotografia, con Méliès ricorreva al teatro, al circo, al music-hall (più tardi, con Griffith e con la corrente francese del «film d’art», il cinema scoprì la letteratura, e con il trionfo del «noleggio», la letteratura più avventurosa, sentimentale, popolare, e dal romanzo e dal teatro derivò le basi narrative, la costruzione delle sue storie).
L’ambizione di Méliès fu, per sua ammissione, «tutto quanto era completamente impossibile a teatro». «Volete sapere come mi venne la prima idea di applicare il trucco al cinematografo? L’arresto della macchina da presa di cui mi servivo produsse un effetto inatteso un giorno che io riprendevo, molto prosaicamente, la piazza dell’Opéra; mi bastò un minuto per sbloccare la macchina e rimetterla in moto. Durante questo minuto i passanti, gli omnibus, le automobili avevano naturalmente cambiato posizione. Proiettando la pellicola, giunto al punto in cui si era provocata la rottura, vidi all’improvviso un omnibus mutato in carro funebre e degli uomini cambiati d’un tratto in donne. Il trucco per sostituzione, detto trucco di arresto, era trovato, e due giorni dopo eseguii le prime metamorfosi di uomini in donne, e le prime scomparse improvvise ch’ebbero, agli inizi, un così grande successo. Un trucco ne attira un altro; di fronte al successo del nuovo genere mi preoccupai d’inventare procedimenti nuovi, e immaginai successivamente il cambiamento di sfondi per dissolvenza incrociata, ottenuto con un dispositivo speciale dell’apparecchio fotografico, le apparizioni, le scomparse, le metamorfosi ottenute con la sovrapposizione su fondali bianchi già impressionati. Poi vennero i trucchi delle teste tagliate, del moltiplicarsi dei personaggi, delle scene interpretate da un solo personaggio che, sdoppiandosi, finisce col rappresentare da solo fin dieci personaggi simili, che recitano la commedia l’uno con l’altro».
E vennero Le voyage dans la lune (Il viaggio sulla luna, 1902), L’homme à la tête en caoutchouc (L’uomo dalla testa di caucciù, 1903), Le voyage à travers l’impossible (Il viaggio attraverso l’impossibile, 1904), Les quatre-cents farces du diable (I quattrocento scherzi del diavolo, 1906), Les hallucinations du baron de Münchhausen (Le allucinazioni del barone di Münchhausen, 1911), À la conquête du Pôle (Alla conquista del Polo, 1912) eccetera, titoli egregi di una produzione che comprendeva favole, attualità ricostruite (come L’affaire Dreyfus o L’éruption du mont Pelé), drammi storici (come Jeanne d’Arc), adattamenti di classici (come Amleto), balletti (come Cendrillon, Cenerentola), farsette (come Le déshabillage impossible, La svestizione impossibile), e naturalmente tanti Castelli Incantati e Locande Stregate…
Il cinema doveva incantare e stregare, doveva sbalordire, affascinare e depistare, portare in altri mondi e in altre dimensioni. Il cinema doveva far venire i brividi dalla paura o far schiattare dalle risate, ma soprattutto far emettere all’unisono da un pubblico vasto degli «oh» di stupore, di meraviglia, di entusiasmo. È quanto molto cinema cerca ancora di fare, con grandi mezzi ma, a ben vedere, servendosi dello stesso armamentario cui ricorreva Méliès.
Coinvolgere con lo spettacolo del vero o sbalordire con lo spettacolo del falso, o ancora mediare con la forzatura fantasiosa del vero; far ridere o far piangere; suscitare identificazioni o sollecitare riflessioni; attrarre o distrarre; chiedere la negazione di sé e della propria ragione (della propria veglia) o destare a nuove scoperte la propria intelligenza, il proprio spirito, il proprio cuore. Quando le luci si spengono nelle platee e lo schermo si accende, tutto può accadere, ma secondo linee direttrici già fissate dalla scelta magica di Méliès o da quella prosastica di Lumière; e tuttavia… Tra i miracoli del cinema può esserci anche la prosaicità del fantastico e la poesia del reale, la fuga all’infuori e la spinta all’indentro che possono, talora, anche coincidere.
2. David Wark Griffith
Griffith (Crestwood, Kentucky, 1875-Hollywood 1948) non ha certo inventato il cinema, ma si dice gli abbia dato una grammatica e una sintassi, ed è probabilmente vero, anche se la discussione è tuttora aperta. Lo ha fatto con tutto il coraggio, la testarda protervia, la foga di uno sperimentatore, dapprima (1908-11, in pochissimi anni ma attraverso dozzine di film a una o due bobine, alla media spesso di due film alla settimana) incerto e vergognoso di occuparsi, lui che mirava al teatro e alla letteratura, di questa «novità» bizzarra e volgare che era il cinema, poi (1912-14) convinto della grandezza e dell’importanza di un nuovo mezzo di espressione di cui ha la possibilità ben rara di diventare pioniere e maestro, e infine, dopo Intolerance (1916) e il suo successo, preoccupato più della costruzione di un impero economico (fallimentare) che della propria arte, ma ancora capace a tratti, se non più di invenzioni certamente di una qual forza narrativa.
Bisognerebbe conoscere meglio la sua opera, per sceverare il grano dal loglio, anche se essa, oggetto di minuziosi studi, è importante in sé, oltre i suoi valori artistici. Perché Griffith perfeziona un mezzo, e gli dà, nel paese che ne vedrà il maggiore sviluppo, uno statuto di arte, lo nobilita nello stesso tempo in cui ne afferma la grandissima portata spettacolare, quindi economica. È discutibile che egli abbia per primo inventato primi piani, panoramiche o mascherini, ma certamente è con lui che il cinema perfeziona le sparse acquisizioni in un sistema linguistico che reggerà, che regge tuttora, e non solo nella sua forma più specificamente narrativa. Oggi quelle che erano novità sembrano, agli occhi di chi è venuto dopo, cose ovvie – ed è ovvio che sia così – ma l’impatto che dovettero avere non è paragonabile a quello di nessun altro regista: sul pubblico, sulla nascente critica (che acquista essa pure uno statuto a partire da lui, dai suoi oggetti elaborati, coerenti, dotati di autonomia espressiva e di valore poetico, pronti per un’analisi originale), sui registi che da lui impararono (direttamente: Stroheim, DeMille, Borzage, King, Browning, Walsh, Van Dyke, ma anche, indirettamente, Ejzenštejn o Kulešov o Pudovkin, Mizoguchi o Gosho, Lubitsch o Lang, Gance o L’Herbier, Sjöström o Stiller…), sul sistema produttivo che ne rapinò le soluzioni. Il cinema si istituzionalizza come industria e forma espressiva negli anni di Griffith, a partire da Griffith.
Il suo sforzo aveva radici precise, non solo nel cinema (i primitivi francesi e inglesi, i kolossal italiani – che pure è controverso egli conoscesse prima di Nascita di una nazione – e, in America, Porter e Blackton). C’era il romanzo ottocentesco (Dickens, soprattutto, da lui spesso citato – e Ejzenštejn scriverà nel ’44 un saggio-omaggio intitolato Dickens, Griffith e noi – e il feuilleton), mediato attraverso la vivace applicazione teatrale dei «classici» più popolari e delle loro strutture narrative (David Belasco, e Griffith stesso veniva di lì), la poesia romantica inglese (Tennyson, Browning, le ballate più narrative), e infine Poe, anima nera anche per lui. E c’era la passione tecnica, da inventore dilettante, cui Griffith volentieri sacrificava.
Niente nasce dal niente ma Griffith fu l’artista giusto al momento giusto e, insistiamo, nel luogo giusto per permettere l’affermazione di un nuovo mezzo e di un nuovo linguaggio. La mobilità della macchina da presa dentro l’inquadratura; la vitalità arditissima del montaggio, che diventa proverbiale coi «finali alla Griffith» e la suspense di azioni simultanee a stacchi velocissimi; la funzione del primo piano, che impone una recitazione che sacrifica gli effetti gigioneschi, e dell’alternanza dei campi, tuttavia dentro una rigorosa unità di tema, sequenza per sequenza; il contrasto della fotografia; l’uso del mascherino e dell’iride, dello schermo tagliato, del passaggio dal particolare all’insieme nella stessa immagine; il colore, ottenuto col viraggio della pellicola a seconda degli stati d’animo che il regista intende suggerire allo spettatore; il ricorso all’orchestra: tutto questo fa per la prima volta del film uno spettacolo completo, in grado di sollecitare e guidare l’attenzione e la passione dello spettatore di massa. E tutto questo dentro un’ideologia che confonde continuamente la magniloquente retorica di un imbonitore vittoriano e un liquido sentimentalismo tra preraffaellita, sessuofobico e comunque puritano, vistoso quando si tratta di eroine che sono angeliche vergini e devotissime spose e madri.
Con Griffith nasce anche, non va dimenticato, lo star system vero e proprio, nasce il divismo delle sorelle Gish e della Pickford, di Walthall, di Barthelmess e perfino di Stroheim, diretto preludio ai Fairbanks e ai Valentino che lo porteranno a nuova collettiva mania. Ma, ciò che è più, nasce anche una funzione non solo genericamente sociale del cinema, ma specificamente politica. Le passioni politiche destate da The birth of a nation (La nascita di una nazione, 1914) dimostrano la potenza di questo nuovo mass-medium, di portata inaudita rispetto alle precedenti forme di espressione e di comunicazione. Ed è questo il film che meglio rivela la grandezza e miseria di Griffith artista.
Venuto dopo «assaggi» importanti come The lonely villa, Enoch Arden, Pippa passes, The lonedale operator ecc., il realistico – e c’è chi dice neorealistico – The musketeers of Pig Alley, La nascita di una nazione è un’opera, per il suo tempo, mastodontica. Romanzescamente fluida, intrecciata, complessa, lunghissima, ma carica di una tensione ottenuta tutta con la straordinaria libertà del linguaggio che Griffith perfeziona in un’alternanza di pieni e di vuoti, dal ritmo calibratissimo e di inesausta novità (se Griffith usa di un accorgimento stilistico una volta, bada bene a non farvi ricorso una seconda), è anche l’omaggio di Griffith alla sua cultura originaria, ottocentesca e sudista, ergo razzista. Tutto in Griffith sembra dicotomico, duplice, contrastante. Egli salva le ragioni del Nord, ma non è disposto a salvare l’abolizionismo, e i neri del film, se non sono dei fedeli zii Tom, sono viscidi, lussuriosi, scatenati mostri di violenza e abiezione. Più tardi, in altri film, mostrerà con dubbia sincerità dei neri diversi, ma si accanirà in America (1924) contro gli indiani, e altrove contro gli zingari e ogni altro diverso. Resta che il film è l’odiabile primo capolavoro dello schermo, a indicarne forse la malattia originaria, a indicare l’uso direttamente o latamente ideologico in cui il cinema, a cominciare da quello americano, doveva illustrarsi, la sua esasperata funzione sociale.
Al successivo e ancor più ambizioso Intolerance, a drama of comparison (1916) non arriderà lo stesso successo. Griffith è, se possibile, ancora più sciolto e innovativo, ma più frequentemente bolso, retorico fino al delirio. Predica ora la tolleranza, con quel suo impeto che vorrebbe, nella visione dualistica della realtà e della storia (Nord e Sud, Lavoro e Capitale, Europa e America…) una impossibile soluzione. Ma i tempi stanno cambiando, c’è in Europa la guerra, e l’invito alla tolleranza non è accettato dalle classi dirigenti né dal pubblico. Ma, soprattutto, la spettacolarità nuoce al messaggio. I «quattro corsi d’acqua visti dalla cima di una collina», che «al principio scorrono lentamente e quietamente ciascuno per suo conto, ma scorrendo si avvicinano sempre più l’uno all’altro» e «si uniscono in un solo, possente fiume di commozione» (Griffith), sono invero di forza diseguale, e non sempre il montaggio alternato – tra l’una e l’altra delle quattro storie: quella moderna che racconta gli effetti di uno sciopero con un vigore a-dialettico di cui si avvertiranno chiare tracce nel cinema dei sovietici, quella babilonese, quella di Cristo e quella del massacro degli Ugonotti – salva la situazione. Lo spettacolo uccide l’emozione, ed è lecito preferire di gran lunga i due film che successivamente Griffith trasse da questo magma solo apparentemente ordinato, montando a parte l’episodio moderno e quello babilonese, i meglio riusciti.
L’ambizione del regista, dopo il fiasco commerciale del film, si sposta sul versante economico. Non inventa più, rifà, e accentua i caratteri più negativi della sua oratoria, del suo sentimentalismo. D’altro canto la guerra ha veramente cambiato lo stato delle cose. Si entra nell’era del jazz e del benessere, trionfano le commedie mondane di DeMille e Lubitsch, i film comici dei Chaplin, Keaton, Lloyd, le evasioni esotiche di Valentino, le spericolate avventure di Douglas Fairbanks, il western epico di Cruze e quello affettuoso di Ford, tutti in certo modo nati dalla sua costola, ma – il capitalismo non si smentisce – il cinema non è certo riconoscente al suo maestro.
Tra molti brutti film c’è comunque molto da salvare. Broken blossoms (Giglio infranto, 1919) è un piccolo gioiello dickensiano o poeiano, tutto nero e tutto dettato da un turbatissimo inconscio vittoriano, un film di essenziale claustrofobia, di cupa malinconia col suo sottofondo inaspettatamente misticheggiante e fin orientaleggiante; per di più è una storia d’amore (beninteso irrealizzabile) interrazziale. Di Way down East (Agonia sui ghiacci, 1920) si salva il finale, ma la descrizione, ancora tutta vittoriana, della vita rurale americana è certamente inferiore a quella, di felicissima sensibilità, data da un allievo di Griffith,...