Napoli sotto traccia
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Napoli sotto traccia

  1. 328 pagine
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Napoli sotto traccia

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Informazioni sul libro

Un americano a Spaccanapoli, un antropologo che per oltre dieci anni si mimetizza tra i vicoli e le periferie e s'insinua nell'ambiente della musica neomelodica napoletana: nasce così Napoli sotto traccia, un libro che racconta in presa diretta quel mondo di confine dove la tradizionale arte di arrangiarsi finisce nelle fitte trame della malavita. Dal 1998 al 2011 Jason Pine, newyorkese, ha condotto la sua indagine sul campo, vivendo fianco a fianco con i maggiori protagonisti della scena neomelodica campana (cantanti, compositori, giornalisti, impresari) e condividendo la loro quotidianità tra case discografiche, emittenti pirata e feste private (matrimoni, battesimi, comunioni). Per penetrare la facciata folklorica che i protagonisti spesso volutamente offrono a questo «forestiero», l'autore diventa «uno di loro», in veste di regista di videoclip musicali e di pubblicità per le reti locali, associandosi a un boss-impresario. È così che, imparando a decifrare l'universo linguistico, gestuale e valoriale dell'ambiente, Pine ricostruisce ilgroviglio di legami e interessi che innerva quella zona di contatto tra marginalità sociale e criminalità organizzata, in cui centinaia di giovani sono disposti a scendere a compromessi con la camorra per inseguire un'opportunità di successo, convinti che non esistano alternative e attratti dall'assenza dei vincoli di un lavoro subordinato. In quella zona grigia, in cui Pine stesso gioca una parte ambigua, come i personaggi che osserva, le cosiddette economie formali, informali e illecite si ingarbugliano e l'arte di arrangiarsi, travalicando il semplice «tirare a campare», diventa una strategia di autodeterminazione per sfuggire, attraverso la creatività, alle prospettive di una vita precaria offerte dall'economia politica dominante.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868433376
Categoria
Sociologia

II. Arrangiarsi con l’arte.
Musica contraffatta, tv pirata e matrimoni dei clan

«Meglio un cattivo cantante che un buon criminale», ha dichiarato nel 2005 il cantante trentottenne Antonio Fischetti, in arte Antoine, a una giornalista di «Avvenire»1 commentando una notizia sui legami tra musica neomelodica e criminalità organizzata che in quel periodo aveva suscitato grande clamore; un tema che, a cominciare dalla metà degli anni novanta, è più volte emerso nel discorso pubblico in Italia. Quella proverbiale dichiarazione rimanda a un’eterna verità dell’arte di arrangiarsi: molti neomelodici saranno pure incapaci a cantare, ma i loro sforzi imprenditoriali «onesti» sono veramente encomiabili.
Nell’intervista la giornalista non solo faceva notare che esistono legami precisi tra la scena neomelodica e la criminalità organizzata, ma lasciava a intendere che fare il cantante neomelodico è un’alternativa alla delinquenza. Gli affiliati ai clan, si legge nell’articolo, giocano un ruolo di rilievo in quel giro, sia in veste di parolieri sia come manager per i numerosi cantanti in cerca di aiuto. Come in molti altri scritti dedicati alla musica neomelodica, l’articolo ripropone la storia dello scontro tra il regista Antonio Capuano e il boss, poi pentito, Luigi Giuliano, detto ’O rre o Lovigino2. Nel 1996 Capuano presentò al festival di Venezia una pellicola nella cui colonna sonora compariva una canzone composta dall’ex camorrista, ma senza attribuzione. Lovigino inviò il suo avvocato a casa del regista per esprimergli il suo disappunto e Capuano si scusò subito, spiegando che non sapeva chi fosse l’autore del brano3. Il boss accettò le scuse e la questione finì lì. Sebbene questo e altri scandali che hanno avuto grande risonanza abbiano svelato gli intrecci tra musica neomelodica e criminalità organizzata, la giornalista di «Avvenire» sosteneva che la scena musicale neomelodica eviti ai giovani di «cadere nella rete dei clan» quando la disoccupazione è alta e «la criminalità sembra l’unica via d’uscita»4.
Sia Fischetti sia la giornalista difendevano i giovani protagonisti della scena neomelodica dall’accusa di associazione con la criminalità, pur non negando del tutto la presenza della camorra in quell’ambiente. Per entrambi cantare canzoni neomelodiche e frequentare gli affiliati appartengono allo stesso continuum, al medesimo campo pratico. Fare il cantante neomelodico è una delle arti imprenditoriali dell’arrangiarsi, mentre affiliarsi a un clan è un atto di eccesso imprenditoriale. Nel mezzo vi sono molteplici e variabili relazioni potenziali.
Esercitare l’arte di arrangiarsi in ambito neomelodico implica lavorare in uno studio di registrazione fai da te o esibirsi alle feste private per un compenso, in nero, modesto e occasionale. Queste arti imprenditoriali possono portare a un qualche successo, la fama locale, guadagni più elevati e persino un contratto con un’etichetta «tradizionale» o un concerto nel circuito musicale nazionale. Molti aspiranti cantanti ritengono che per arrivare al successo, legittimo o meno, sia necessario fare affidamento su imprenditori clandestini che piratano le frequenze radio-televisive. Poi ci sono quelli che si mettono al servizio di boss-impresari, i quali ne garantiscono la fama con l’usura, l’estorsione, il traffico di droga e l’influenza sul territorio.
Le sfere cosiddette formali, informali e illecite si intersecano in modi imprevedibili. Ancora più imprevedibili sono i modi in cui gli individui sono influenzati o reagiscono alle potenzialità di simili intersezioni. La scena neomelodica è un campo di pratica in cui coabitano l’arte di arrangiarsi e l’eccesso imprenditoriale, due ambiti di potenzialità che non sono distinti l’uno dall’altro ma si congiungono in corrispondenza di soglie dinamiche5. Questo campo è una zona di contatto in cui le prassi e le forme estetiche appaiono «anomale e caotiche», se osservate a partire da «un sapere e un senso della realtà stabile e centrato»6.
Di conseguenza, quando il tema della musica neomelodica viene trattato sui blog, nei circuiti d’informazione mainstream (giornali, telegiornali, riviste, libri e film) o negli interventi dei politici, l’obiettivo è quello di deriderne o condannarne i protagonisti. L’articolo di «Avvenire» è un’eccezione rara e degna di nota. «Fatti di cronaca», quali la pretesa di Lovigino di essere riconosciuto pubblicamente come paroliere, suscitano tra la gente ondate di sdegno e di curiosità pruriginosa. Ogni ondata preannuncia la successiva, cosicché tutto ciò che è neomelodico – la musica, i cantanti, i fan – è già da sempre associato alla camorra. Questi moti di sentimento collettivo sono diventati un sistema autopoietico che viene innescato periodicamente ed è ormai del tutto staccato dalla zona di contatto in cui si è manifestato in origine, eccetto per le antenne che infila negli ambienti criminali per captare quella che sarà la notizia successiva. Ma la zona di contatto in cui alcuni si arrangiano e altri eccedono nell’arrangiarsi non differisce da un sistema. Il principio organizzativo su cui si basa è l’indeterminatezza, non le decisioni scontate. Spesso le distinzioni rimangono elusive, i rapporti impliciti, l’etica situazionale.
Nella seconda metà degli anni novanta la realtà neomelodica aveva appena cominciato a essere ascoltata e notata da un pubblico più ampio. A quel tempo la gente era ancora in grado di giudicare quella scena senza i preconcetti di una critica ideologica: musicologi, giornalisti e ascoltatori prestavano più attenzione critica alla qualità estetica della musica. Tali critiche sono preziose perché rivelano differenze fondamentali tra l’ideologia estetica dominante e le esperienze estetiche di chi è inserito nel giro neomelodico, e diventano ancora più significative se integrate con l’evocazione della stessa esperienza estetica. Soffermarsi su ciò che l’estetica può fare, piuttosto che sintetizzare l’esperienza estetica rivolgendo subito l’attenzione a forme estetiche compiute, fa emergere le modalità in cui quell’esperienza riecheggia nelle molteplici dimensioni del quotidiano. Le forme e le pratiche estetiche della scena neomelodica stimolano sensazioni fisiche e stati affettivi che hanno una vita sociale duratura. Evocano più ampie esperienze etico-politiche della zona di contatto, in cui l’arte di arrangiarsi preme costantemente sul suo limite eccessivo: la criminalità organizzata.

1. Performance dialettiche.

Ho ascoltato per la prima volta la musica neomelodica nell’estate del 1998. Mi trovavo a Napoli per studiare il dialetto ai fini di una ricerca sulla gestualità e sul napoletano. Chi parla il dialetto napoletano possiede un vocabolario gestuale incredibilmente vasto, eppure sono ben pochi gli studi dedicati all’argomento. Le ricerche più significative sono quelle di Andrea De Jorio del 1832, e seguite da quelle di Adam Kendon a distanza di un secolo e mezzo. Il gesto, sostengono entrambi gli studiosi, è spesso percepito come un semplice complemento dell’espressione verbale, laddove essi lo considerano un sistema parallelo di significazione7.
Il gesto è parte integrante del melodramma. Esprime l’ineffabile, «bisogni, desideri, condizionamenti e imperativi celati sotto il livello della consapevolezza» che «operano altresì all’interno della sfera dei rapporti umani ed etici»8. Il gesto veicola presenza, immediatezza e «il contenuto emotivo in tutta la sua portata»9. Al pari dell’espressione del volto, il gesto costituisce un linguaggio dell’affetto non rappresentativo.
Mi interessava la relazione tra l’eccezionale vocabolario gestuale dei napoletani e i significati inesprimibili che esso riusciva a veicolare. Prima della fine dell’estate, del tutto inaspettatamente, elaborai un progetto di ricerca parallelo sull’iperespressività delle canzoni napoletane contemporanee e l’ineffabile mondo del crimine organizzato verso cui esse tendono. In realtà, avevo avviato questo progetto prima ancora di rendermene conto, già durante le mie lezioni di napoletano che andavano ben oltre la lingua.
Barbara, la mia insegnante, aveva trent’anni, era di ceto mediobasso e viveva con la famiglia in periferia. Era riservata ma cordiale. Al nostro primo incontro mi spiegò che aveva deciso di accettare l’incarico perché voleva mettersi in gioco. Voleva usare la sua inventiva per ideare un corso che, per quanto ne sapesse lei o altri di sua conoscenza, non era mai stato sperimentato prima10. Voleva anche affrontare le sue inibizioni nel parlare napoletano. «La considererò come una qualsiasi altra lingua, come l’italiano», disse lei.
Cominciammo le lezioni seguendo un metodo, ma dopo qualche giorno l’accurato programma di Barbara andò a rotoli. Nonostante la rigorosa preparazione, si imbarazzava a parlare in napoletano con me. Da un lato, si sentiva a disagio a usare la lingua degli «ignoranti»; dall’altro, aveva paura di non «saper interpretare il napoletano» in modo convincente. Rispetto al modo in cui parla la gente dei vicoli, sembrava che Barbara non sempre percepisse la ricchezza metaforica della lingua. Avevo sentito tante cose sul napoletano – la sua ricchezza sensoriale e la sua «concretezza», i tanti proverbi ancora in uso – e quello di certo non gli somigliava. Quando Barbara parlava, la lingua si disfaceva in meri suoni e sintassi, ovvero ciò di cui si compone «una qualsiasi altra lingua, come l’italiano».
Certo, i miei giudizi erano ingenerosi. Barbara si trovava ad affrontare diversi problemi tutti insieme: ideare un corso per cui non esisteva un modello; insegnare una lingua che non aveva un’ortografia fissa; oltrepassare i confini di classe per incarnare una sensibilità che, per antitesi, contribuiva a definire la sua appartenenza di classe. Oltretutto, doveva sostenere ogni settimana trentaquattro estenuanti ore di lezione individuale con un americano che la osservava in un modo che doveva sembrarle sadico. Il fatto è che ero affascinato dalla lotta a cui assistevo. Da un punto di vista antropologico era davvero elettrizzante.
Le sue performance oscillavano tra l’«italiana ignorante» e la borghese dai modi affettati che si abbassa a parlare come una guagliona napulitana. Riscontravo tensioni simili nel mio rapporto con la gente del vicolo in cui abitavo. Un pomeriggio andai dal tabaccaio e, in napoletano, chiesi una scheda telefonica. «Uè, sentite a questo – un americano che parla dialetto!», disse il cassiere divertito ai clienti e a quelli che lavoravano nel negozio (tutti parenti); poi, rivolgendosi a me in italiano: «Dite, dite quello che avete detto a me».
Sentivo di non avere scelta e così ripetei la frase di fronte a quegli sconosciuti. In un’esplosione di vocali esclamative – Oooh! Uèee! – mostrarono di apprezzare la mia performance, che ai presenti, più che sembrare una buona interpretazione, avrà fatto tenerezza. Ero scoraggiato perché non mi prendevano sul serio. Avevo già notato che, quando parlavo in napoletano con qualcuno, non appena pronunciavo male una parola il mio interlocutore, per aiutarmi, passava subito all’italiano, come a dire «va bene, adesso basta giocare». Le persone dal tabaccaio erano ancora più intollerabili, perché erano gentili, e a me quella gentilezza sembrava condiscendenza.
C’è stato un momento di riscatto, però: quando il figlio ventisettenne del cassiere mi chiese se stavo imparando il dialetto per motivi di studio. Anche lui era interessato al napoletano e si offrì di mostrarmi il dizionario etimologico che in quel periodo usciva a fascicoli con «Il Mattino»11. Diventammo amici e ogni giorno ci incontravamo per studiare davanti a un caffè. Mi spronava a parlare con lui solo in napoletano, mi aiutava con generosità ed era contento dei miei piccoli progressi.
Tuttavia, la sua pazienza svaniva quando andavamo al bar del vicolo di fronte al negozio dei genitori. Lì conosceva tutti e parlava con tutti: i baristi, il cassiere, gli avventori – tutti uomini. Se esitavo o se parlavo a voce troppo bassa quando ordinavo, o se lui mi diceva qualcosa in napoletano che io non capivo, mostrava un’incontrollabile irritazione e a volte mi prendeva anche in giro. Se stavo zitto mentre parlava con gli altri, alzava il ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Dove ci sono i soldi, c’è la camorra
  7. II. Arrangiarsi con l’arte. Musica contraffatta, tv pirata e matrimoni dei clan
  8. III. La sceneggiata. Melodrammi della virilità, allegorie della violenza
  9. IV. Affari di famiglia. Diventare adulti sulla scena
  10. V. Imbrogli etnografici
  11. VI. Chi song’ io e chi si’ tu? La promessa e il rischio di contatto con la camorra
  12. Epilogo. Arrangiarsi nell’indeterminatezza
  13. Ringraziamenti