L’immagine nel Novecento tra realtà e trascendenza
di Micol Forti
Il rapporto tra uomo e Dio; lo sguardo dell’artista contemporaneo sulla trascendenza; l’immagine, elemento centrale e imprescindibile, simbolo ed espressione di questo dialogo: tra questi elementi, a delimitare un vasto territorio di analisi e riflessione, vorrei partire dall’elemento più fragile e in parte più complesso di questo universo: il concetto di «immagine».
Il pensiero teorico e artistico del XX secolo ha lavorato alacremente sullo statuto della nozione di immagine, elaborando un tessuto fortemente stratificato in cui il ruolo del sacro occupa un posto di primo piano. Escludendo la possibilità di una verifica esaustiva di tale materiale, vorrei isolare alcuni elementi, a mio avviso fondamentali, per comprendere la sostanza del discorso intorno all’arte sacra nella cultura visiva del secolo scorso e in parte anche del presente.
Scelgo come punto di partenza un particolare valore riconosciuto all’immagine, e con essa all’opera d’arte, che ricavo dal pensiero di Wittgenstein, quello di «opacità». L’immagine non è né è mai stata trasparente, bensì è caratterizzata da una densità di significato. Un carattere di latenza, una capacità di occultamento pressoché infinita della vastità dei suoi possibili significati, che ha reso e rende l’immagine un deposito di criteri di verità. È in questa densità che giace una possibilità non solo di senso, ma di circolazione di senso, che non coincide sempre e solo con i significati verbali, ma si caratterizza in una forma propria del linguaggio artistico. Ed è all’interno di queste coordinate che una parte importante del pensiero e dell’arte del Novecento ha riflettuto sulle possibilità dell’immagine di schiudersi e di veicolare questa stratificazione di significati e di simboli attraverso quella che possiamo definire una esperienza interiore.
Ancora: lo statuto dell’immagine è stato affidato, sebbene declinato in modi molto differenti, ad alcuni elementi fondanti. Ne isolo tre: il gesto, il segno, la tradizione.
L’arte è innanzitutto un gesto: unità minima ed essenziale della creazione artistica, il gesto dà forma allo spazio e accompagna l’intenzione dell’artista rispetto alla quale resta, tuttavia, estraneo.
Alla fine del gesto, sua inevitabile conseguenza, c’è il segno: userei il termine tedesco Wink, che contiene in sé il significato di un gesto simile a un piccolo segnale, un «al di là» dell’opera, il cui carattere consiste sempre nel segnalare qualcosa di esterno. Qualcosa che a volte ci fa percepire un disagio o, come ha scritto Nathaniel Hawthorne, «un vago timore» davanti a un’immagine1.
Infine, in questa capacità di indicare «oltre», di simbolizzare, si annida l’ultimo, contraddittorio e combattuto elemento: la tradizione. Per introdurre questo concetto, tanto complesso quanto fragile per tutta l’arte del Novecento, vorrei citare le parole del giovane Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, scritte tra il 1931 e il 1932 in alcuni appunti frammentari: «Quale influenza deve esercitare la tradizione su l’artista moderno: conoscenza storica; conoscenza tecnica; dipendenza dai “classici”: – Ma quali sono i classici? – E fissati quali siano, tra essi quali scegliere? Difficile – Per noi ora: i primitivi, come ricercatori del “sostanziale”»2.
«Per noi, ora»… ma poi? Mi sembra che Montini introduca qui, attraverso il richiamo a una nozione di «classicità» difficilmente identificabile e variabile per ogni epoca e area geografica, una nozione di tradizione non limitata al semplice significato di iconografia o di stile, piuttosto intesa, questa è la mia proposta, come possibilità dell’arte di essere anche «ripetizione»: non certo nel senso di copia o duplicato, bensì di rendere di nuovo una cosa possibile, tramite una libera modulazione del linguaggio. E la ripetizione impone il suo legame con la memoria, con ciò che restituisce al passato, alla storia, alla verità, la loro possibilità di esistenza. In questo senso la tradizione assolve lo stesso compito della «cesura» musicale: l’interruzione del ritmo non crea sospensione, ma nuovo ritmo.
È in questa prospettiva teorica che nel corso del XX secolo si articolano i molteplici tentativi di ristabilire un legame con la tradizione religiosa e soprattutto di restituire senso e partecipazione alla cultura artistica di ambito sacro la quale, all’inizio del Novecento, veniva ritenuta morta da oltre due secoli. È questo un punto di partenza importante: tutta l’arte a cavallo tra Ottocento e Novecento, non importa se simbolista, realista o impressionista, riconosceva, nella tradizione oleografica della cosiddetta scuola di Saint-Sulpice e in quanto l’aveva preceduta, un esempio di morte e di decadenza di tutta l’arte sacra. La sterile reiterazione di immagini che rispondevano a vuoti e rassicuranti stereotipi di bellezza e bontà, quasi modelli proto-pubblicitari, era il vero nemico da combattere in nome di quello che diventa un nuovo criterio di rottura, ovvero l’«autenticità» dell’interiorità. Il solo che permette ad artisti come Van Gogh, Cézanne, Gauguin o Redon di mantenere viva la tradizione nel XIX secolo.
L’autenticità dell’interiorità e il rifiuto di una tradizione riconosciuta come «falsa», quindi «non autentica», impongono nuovi criteri e nuovi punti di osservazione: la nobiltà dell’arte e la libertà dell’artista; la trasgressione sistematica delle norme sia in ambito estetico che disciplinare; ma soprattutto la percezione che l’esistente sia unità di immanente e trascendente, nel rapporto dialettico tra l’identità e l’alterità. Prendendo a prestito le parole di Simone Weil: «il Bello è la prova, data dall’esperienza, che l’Incarnazione è possibile»3.
Il bello: intorno a questo concetto, che è a un tempo ideale e reale, simbolo e dato, ruota l’inquieta ricerca di tutta l’arte del secolo scorso. Due saranno le strade maestre lungo le quali si darà forma a questa inquietudine. Volendo rinunciare a qualsiasi compito «rassicurativo» o «illustrativo» dell’opera d’arte, si perseguono, nonostante le infinite declinazioni, due strade: quella del simbolo, tra evocazione e rievocazione, nella stratificazione semantica dell’immagine; quella del pathos, che affonda le sue radici nella realtà e che sembra rinunciare, ma solo in apparenza, a qualunque riferimento alla bellezza, per poi approfondirne le potenzialità nelle diverse ricerche formali. In nessun caso l’arte vorrà essere «facile». Come ha scritto Stanislas Fumet: «all’arte non è permesso di essere noiosa, ma le è permesso di essere difficile, le è d’obbligo esigere da noi qualche tensione»4. In queste due vie maestre sono racchiuse gran parte delle inquietudini e dei drammi che hanno attraversato la storia del Novecento, che andranno a fondersi e confondersi con l’evoluzione e il rinnovamento dell’arte sacra.
Gran parte della lunga tradizione di ambito simbolista – uso questo termine nella sua accezione più vasta –, dai grandi iniziati dei primi del secolo (penso a Ranson, Moreau, Mondrian, Steiner) fino al surrealismo e ai suoi prolungamenti (da Ernst, Magritte, Dalí, Chagall), si riferisce e si confronta con la cultura artistica religiosa nel tentativo di rinnovare e rimotivare il confronto con il soggetto sacro, al di là di ogni ortodossia e nella proposta di nuovi punti di osservazione (si pensi al Cristo de San Juan de la Cruz di Dalí, il cui punto di vista dall’alto inverte l’antica posizione del fedele).
Come ha lucidamente scritto il cardinal Ravasi, la densità di senso che è alla base del mistero dell’Incarnazione può essere trasmessa dalla forza dell’analogia simbolica propria e forse esclusiva dell’arte. A partire da Genesi (1,27), con la creazione della coppia umana che fa dell’uomo immagine «somigliante» al Dio creatore, o dal Vangelo di Giovanni (1,14), «il verbo divenne carne», l’elemento simbolico può partecipare allo svelamento, mai esplicito né dichiarato, solo simbolizzato, della mente e dell’agire di Dio. L’immagine non è solo una rappresentazione nel senso proposto da Louis Marin, ovvero un «effet de présence»5, una sostituzione di qualcosa al posto di qualcosa d’altro; b...