I. Premesse per una filosofia interculturale
Non ti capisco troppo bene, anche se penso tu sia in errore, ma il fatto che tu ti sbagli non mi dice granché circa il mio essere nel giusto o il mio essere forse a mia volta in errore1.
1. Pluralismo.
Quanto detto finora pone il problema del pluralismo, che non è solo, come ha affermato Giovanni Fornero riferendosi al mondo occidentale e in particolare alla bioetica, espressione della «laicità debole» o larga, che ne è la «metodologia»2, ma l’orizzonte di una visione filosofica interculturale radicalmente nuova come base di una comprensione fra i popoli.
Il pluralismo rappresenta una grande sfida al modello di ragione che da qualche secolo si è imposto in Occidente come l’unico fondamento valido della nostra consapevolezza della realtà, e che ha ispirato la mentalità coloniale, oggi rediviva, per esempio, nel sogno del «villaggio globale»: non può che esserci un’unica civiltà in cui ciascuno trova il suo posto sulla base di valori dichiarati «universali», ma in realtà teorizzati nella nostra cultura sulla base di precisi presupposti storici e poi trasformati in degli a priori che vorremmo imporre a tutti. Essi non solo non sono esportabili tout court in altri contesti, ma non rappresentano l’esito condiviso di un dialogo il più ampio possibile con gli «altri», che ne garantirebbe la concreta universalità. Siamo sicuri che concetti come «libertà» o «eguaglianza», nella nostra accezione, possiedano o debbano possedere un’evidenza cogente, siano «chiari e distinti», per tutte le culture del pianeta? Per fare un esempio, l’antropologo Louis Dumont, studioso del mondo indiano e del sistema delle caste, ha mostrato in Homo hierarchicus come l’ordine gerarchico cui soggiace il modello sociale tradizionale hindu è incommensurabile e incompatibile con l’ordinamento egualitario e individualista delle società occidentali moderne (Homo aequalis)3, ma senza che si possa dire che l’uno è inferiore o peggiore dell’altro: entrambi hanno luci ed ombre e vanno valutati con parametri interni ai relativi contesti. E che dire di culture che hanno mantenuto un forte senso del Sacro e per le quali la «libertà» dell’essere umano è porsi in sintonia con il piano «divino», che nei monoteismi abramitici vuol dire accettare la volontà di un Dio personale («Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra») e obbedire alle sue leggi? Come si vede, si tratta di problemi di drammatica attualità.
Oggi, fuori da astrazioni filosofico-metafisiche e su un piano molto esistenziale e concreto, ci incontriamo quotidianamente con opzioni diverse, con visioni del mondo, filosofie, comportamenti, valori reciprocamente incompatibili, che non si sa bene come possano coesistere in un «villaggio globale».
Se pluralismo significasse semplicemente diventare coscienti di questa pluralità e accettarla, come, studiando la storia della filosofia, ci si rende conto e si accetta che Hegel e Nietzsche non la pensano proprio nello stesso modo, il problema sarebbe semplice. Certo, Nietzsche è ancora (purtroppo) tabù per diversi professori di filosofia, che ne sanno poco e nulla, o che lo studiano «filologicamente», esorcizzandone la provocazione radicale, però si tollera che sia esistito e abbia scritto, piaccia o non piaccia, cose filosoficamente rilevantissime, come si tollerano il «misticismo orientale» (sic!), il «pessimismo» (sic!) buddhista, la saggezza tenera e ingenua (per «noi» cresciuti e progrediti) dei nativi americani o il folklore (per molti è veramente così…) delle arti di combattimento asiatiche, e questo è comunque senz’altro un passo avanti sul piano etico, rispetto all’ironia e al disprezzo. Ma certo non è pluralismo.
Il pluralismo non è neanche confondibile con la tesi che si possano dare prospettive diverse sulle cose, tutte da rispettare, salvo poi credere che la prospettiva di qualcuno («noi», la scienza, i cristiani, oppure noi cinesi, indiani ecc.) sia quella vera (cioè «noi» conosciamo veramente le cose).
Piuttosto pluralismo è, prima di tutto esistenzialmente, un sentire adulto che, con in piedi ben piantati per terra, contesta alla radice, perché sta nella realtà e la accetta, qualsiasi pretesa assolutistica di religioni, filosofie, ideologie, teorie scientifiche, sistemi politici ed economici, senza cedere ad alcun relativismo ma abbracciando la relatività.
Questo sentire relativizza prima di tutto la convinzione che la razionalità scientifica e critica, dai pensatori della modernità occidentale fatta coincidere con la «ragione»4, possa essere la guida dell’esistenza umana e il criterio ultimo del senso del reale. La critica razionale ha un valore enorme, finché non oscura altre dimensioni della realtà, riconoscere le quali non vuol dire precipitare nel cosiddetto «irrazionalismo» o nella superstizione. Il sentire pluralistico, afferma Panikkar, sospetta che non tutto sia riducibile alla ragione, il logos, ma che la realtà appartenga anche all’ordine del mythos, nel senso già chiarito, e all’ordine dello pneuma, l’occhio contemplativo della scolastica cristiana aperto sull’imprevedibilità, sull’aleatorietà, sul gioco, sulla creatività, che si chiarirà in seguito.
In questo senso il pluralismo è un atteggiamento umano, molto laico, che diffida di qualsiasi monoteismo, di qualsiasi «unico discorso», di qualsiasi monarchia, quindi anche di quella della ragione.
Il presupposto esistenziale di questo atteggiamento è l’aver superato una psicologia di tipo infantile, dove la funzione protettiva dell’assolutizzazione è fondamentale per il consolidamento dell’ego e per l’equilibrio futuro (il bambino assolutizza i genitori e il suo piccolo ambiente perché non è ancora in grado di riconoscere l’Alterità come tale, ha bisogno di sicurezza, e quindi omologa tutto, riconduce ogni cosa al noto, all’Identico), ma diventa di ostacolo alla crescita se permane e impedisce le necessarie aperture ed «esperienze»5.
Se si cresce veramente ci si accorgerà, inizialmente con grandissimo disagio, che esistono visioni del mondo, approcci al reale, intuizioni di senso ultime, irriducibili, e se si tenterà di affrontare solo razionalmente questo scenario senza cedere alla conclusione rassicurante: «questa è vera, questa è falsa», per i motivi più vari (progresso, storia, scienza ecc.), in breve ci si dichiarerà vinti. Sembra plausibile sostenere che di diverse dottrine, ognuna delle quali pretende di essere vera, solo una potrà esserlo, soprattutto quando si tratta di dottrine inconciliabili. Oppure non c’è alcuna verità e
ciascuno di noi è misura tanto delle cose che sono, tanto di quelle che non sono6.
È proprio così? L’alternativa è fra dogmatismo e relativismo? Il problema non si riduce affatto a una laica e democratica tolleranza di una pluralità di opinioni, ma riguarda una domanda ultima, ontologica, sulla realtà.
Il pensiero hindu ha avvertito l’impasse dell’approccio razionale alla questione dell’Uno e dei Molti e non ha cercato di uscirne con una dialettica (Hegel) che postula un processo mediante cui si giunge al vero, alla Totalità, come sintesi finale di momenti parziali ascendenti, ma ha suggerito che la realtà non è né una né molteplice, bensì advaita: a-duale7.
Seguiamo Panikkar nel tentativo di articolare gli aspetti del problema, nello sforzo di affrontare la diversità senza tradire la razionalità.
L’ipotesi è che la molteplicità empirica non può essere ridotta a unità intellettuale né lasciata essere in una pluralità atomica senza relazione. Il concetto (o l’idea), geniale creazione con cui il pensiero occidentale ha cercato l’unità, è un’astrazione mentale che non coincide affatto con la cosa. Il concetto del colore rosso non è esaurito dalle singole cose rosse, e il concetto di colore in generale non ha realtà se non concettuale; il colore in sé non esiste, la cosa reale è sempre un colore concreto e particolare, e ci sono moltissime cose di moltissimi e differenti colori, per esempio molti fiori. Ci sono anche molte culture e religioni; diversamente dai fiori però, alcuni contenuti, credenze, valori sono non semplicemente diversi ma contraddittori.
Il pluralismo inizia non tanto quando occorre affrontare le contraddizioni sul piano teorico, ma quando la prassi ci costringe a prendere posizione, quando il conflitto si delinea inevitabile, quando dobbiamo sopravvivere praticamente – perché oggi, anche in virtù della tecnologia, non siamo più isolati come un tempo – in una molteplicità di punti di vista incompatibili e spesso lontani da quelle che sentiamo come conquiste, della civiltà, della ragione, del gusto, delle donne ecc.
Quando poi ci troviamo dinanzi a dottrine, credenze e stili di vita incompatibili ed egualmente legittimi, non addomesticabili con una Aufhebung dialettica, sbattiamo la testa contro un’incomprensibilità radicale. Chiariamo con qualche esempio. Intanto, col termine Aufhebung, sostantivo del verbo tedesco aufheben, insieme «eliminare, togliere via» ed «elevare, conservare», Hegel voleva significare che il processo dialettico è anche un progresso, nel senso che supera volta per volta i vari «momenti» negandoli e al contempo elevandoli e conservandoli in un superiore grado di sviluppo.
In prospettiva interculturale però non è possibile per esempio mediare dialetticamente tra culture basate su una visione ciclica del tempo, come quelle orientali, e culture, come la nostra, che invece ne hanno elaborato una visione lineare. Nelle prime l’agire umano non si dispone in un tempo irreversibile che va da un passato che non può più tornare a un futuro ancora inconoscibile che calamita tutta l’attenzione e l’energia degli esseri umani, singoli e collettività, ma trova il suo locus nell’istante presente, che viene vissuto come se fosse l’ultimo e quindi con la massima intensità, come se il tempo vi si concentrasse tutto. Non c’è qui una Storia che dà senso ai vari momenti del tempo e li orienta verso un futuro, escatologico o secolare, pensato necessariamente come migliore del presente, ma il senso è racchiuso nel singolo momento, sentito come eterno, perché entra in un ritmo ciclico eterno, dentro una sostanziale continuità, in una Via (tao nel pensiero cinese) insieme trascendente e immanente in cui si alternano all’infinito ripetizioni e novità, discese e risalite, disastri e avvenimenti positivi.
Nelle seconde domina l’attesa del futuro e il divenire è letto attribuendo valore alla discontinuità, alle rotture, alle rivoluzioni, che non consentono più di tornare «indietro» (spesso in queste culture determinate idee, progetti, pensieri, vengono accusati di essere «antistorici», di opporsi al corso della storia, di essere storicamente perdenti), con la conseguenza frequente di attribuire scarsa importanza al presente, all’hic et nunc, e di conferire alla vita l’aspetto di una corsa verso qualcosa che arriverà sempre dopo.
Le due visioni sono incommensurabili, e ognuna definisce un orizzonte di senso che può senz’altro comunicare con l’altro ma non entro una dialettica per la quale la concezione ciclica orientale sarebbe inferiore rispetto a quella lineare occidentale, sulla base di un pregiudizio del tutto ingiustificabile.
Nel libro citato Kurt Hübner ha dimostrato, per esempio, l’incommensurabilità del «sistema mitico di pensiero ed esperienza», che egli ricostruisce studiando la mitologia greca e le categorie, la logica, l’ontologia che la strutturano, e del «sistema scientifico di pensiero ed esperienza» proprio della modernità occidentale.
Non c’è modo di stabilire che l’uno è inferiore all’altro o viceversa, anche utilizzando i criteri della razionalità operativa: nel contesto di una discussione volta a smascherare le banalità delle valutazioni razionalistiche sul pensiero mitico quale dogmatismo, superstizione, immobilismo ecc., Hübner ricorda come enormi sovvertimenti in tutto paragonabili alle rivoluzioni tecniche dei secoli XIX e XX siano accaduti in età mitica e gestiti con gli strumenti offerti da culture mitico-tradizionali – l’addomesticamento degli animali, lo sviluppo dell’agricoltura nel Neolitico, i passaggi dall’età della pietra all’età del bronzo e da questa all’età del ferro –, e analizza la tecnica metallurgica della Grecia antica, coi suoi splendidi prodotti, quale esempio di procedura mitica di trial and error8.
Questa situazione ci dovrebbe indurre a riflettere non solo, kantianamente, sui limiti della conoscenza umana, ma anche sull’ipotesi che forse la conoscenza non è l’unico criterio del reale. Cioè noi possiamo ragionevolmente ritenere che non c’è alcuna garanzia
che il campo del reale sia identico a ciò che è intellegibile – che la sfera dell’Essere coincida con quella del Pensare9.
Il pluralismo è l’impasse in cui ci si trova quando, per esempio, non riusciamo a inserire buddhismo e cristianesimo nella categoria unitaria «religione» (il buddhismo non crede in Dio, nella creazione, nell’anima ecc.), anche se è innega...