VIII. In Palestina
Dopo nove mesi trascorsi lontano da casa, Bruno cambiò per la terza volta padrone. L’accoglienza ricevuta nel campo del Battaglione della guardia regia che si trovava ad Atira, a circa 10 chilometri da Haifa1, fu cordiale. Tutti parlavano sloveno2, il che sembrò confortarlo molto. E anche se tanti non lo sapevano parlare correttamente e usavano di frequente parole italiane, a suo parere non si trattava di una loro colpa, ma della conseguenza della politica fascista che aveva chiuso le scuole slovene e di quel processo di italianizzazione della società slovena che le autorità italiane avevano intrapreso nelle nuove province orientali fin dal 1918. Inoltre, Bruno non dimenticava che molti di loro avevano passato anni nell’esercito italiano e come soldati italiani costretti a vergognarsi della lingua materna. Quello che però lo stupiva era il fatto che gli ufficiali jugoslavi trattassero come reclute anche gli ex soldati italiani, alcuni dei quali avevano alle spalle fino a settanta mesi di servizio militare. E questo a suo parere era del tutto inaccettabile.
Ai primi di agosto del 1943, dopo alcuni giorni di esercitazioni, i primi gruppi del Battaglione della guardia regia partirono per l’Egitto. Bruno, ammalatosi subito dopo l’arrivo ad Atira e ancora convalescente, non era in condizione di poterli seguire. Il medico gli ordinò di riposare. Una volta ristabilito, ebbe però l’opportunità di diventare proprio aiutante del medico, ovvero segretario nell’ambulatorio del campo. L’offerta gli sembrò più che allettante e l’accettò senza titubanze; con il passare del tempo cominciò anche ad apprezzare ancora di più tutti i vantaggi della nuova mansione. Il compito di redigere tutte le diagnosi e le prescrizioni mediche lo mise in contatto con ogni singolo soldato che entrava nel campo e passava la visita medica. Sistemò la sua scrivania in maniera tale da beneficiare della brezza che portava un po’ d’aria sotto la tenda ma anche in modo da vedere ogni nuova recluta che veniva sottoposta alla visita e per la quale lui doveva stilare la scheda medica. Per di più, grazie a questa nuova mansione, iniziò a disporre di una quantità quasi illimitata d’inchiostro, cosa che egli reputò non da poco per il suo diario, dato che durante la prigionia britannica era rimasto a secco ed era stato costretto a ricorrere alla matita.
Nell’ufficio dell’ambulatorio abbiamo molto lavoro, poiché ci sono nuovi soldati e molti malati, inoltre hanno problemi con il mal di denti, poi tutti più o meno hanno qualche piccola ferita a causa di qualche ascesso. Queste sono le conseguenze della calura africana e della sabbia. Mi sono abituato quasi del tutto al mio lavoro e ho buone possibilità di rimanere qua in pianta stabile, vedremo. Abbiamo abbastanza caldo qui ma verso mattina fa un po’ più freddo, e allora bisogna coprirsi con la coperta, altrimenti non ce n’è bisogno. Non abbiamo ancora il vino. Gli arabi ci vendono l’uva e l’anguria che vanno così a sostituirlo3.
Fu enormemente felice quando vide, in attesa della visita medica, alcuni suoi conoscenti di Sesana, il triestino Gigi Čufar di San Giovanni e Ambrož Švab di Santa Croce, paese vicino Trieste, con il quale per alcuni mesi aveva condiviso la cella n. 107 nel carcere di Trieste. Sperava sempre di scorgere tra i nuovi arrivati il fratello Zdravko, richiamato anch’egli nell’esercito italiano e mandato chissà dove, ma purtroppo le sue speranze andranno deluse. Ogni giorno, dai campi di prigionia britannici, giungevano al campo palestinese piccoli gruppi di nazionalità slovena o croata, catturati dagli Alleati soprattutto in Tunisia.
Alla base del Battaglione della guardia regia la giornata era regolata da una rigida tabella di marcia. La sveglia era alle 5,30; seguiva un’ora e mezza di ginnastica, a cui Bruno volentieri si sottraeva. Era quindi previsto il tempo per lavarsi, pregare e fare colazione con tè, formaggio, marmellata e pane. Fino alle 11, l’ora di pranzo, si proseguiva con le esercitazioni militari e le altre diverse occupazioni militari, a cui Bruno non partecipava.
Quindi, con il lavoro che ho qui, mi è andata proprio bene. Se non lo avessi, avrei dovuto esercitarmi ogni giorno con gli altri, e per me sarebbe stato difficile, poiché nel campo la maggioranza dei giovani di fatto ha tra i 18 e i 23 anni. Per noi che di anni ne abbiamo 35 sarebbe molto difficile metterci con questi giovincelli. Per questo anche altri, più o meno della mia età, vengono scelti per mansioni più comode. Il cibo, come ho già scritto, è di prima qualità. Due volte al giorno carne fresca, ho mangiato più volte anche la pastasciutta, i cuochi impastano e preparano delle buone lasagne. Okay. Insieme a ogni pietanza abbiamo il tè invece del vino, ma anche frutta fresca. Il pane è bianco così come non lo abbiamo avuto nemmeno nel periodo migliore in Italia. Quando mangio questo pane bianco quante volte penso a te Marija, Dio sa come deve essere il Tuo e sono sicuro che ce n’è poco e che per di più è ancora cattivo. Ma questo amaro pane italiano si mangerà ancora per poco. Andrà meglio4.
Dopo il pranzo, fino alle 15, i soldati riposavano; seguivano altre esercitazioni finché alle 18,30 andavano a cena; dopodiché avevano il tempo per pregare e poi per seguire le ultime notizie, vedere i film, cantare. La curiosità di Bruno per ciò che accadeva sui diversi fronti era grande, e in particolare attendeva quei risultati «più eclatanti» che sarebbero dovuti scaturire dall’apertura del fronte balcanico. Con ansia seguiva le ultime novità sulla conquista alleata della Sicilia.
Per il caldo sempre più insopportabile iniziarono a diffondersi nel campo diverse malattie: comparvero i primi casi di malaria e a molti soldati venne la febbre. Ma la malattia più terribile, secondo Bruno, era l’alcol, con cui si deliziava spensieratamente buona parte della soldatesca jugoslava.
Il 17 agosto 1943, Bruno giurò solennemente fedeltà al re jugoslavo e la sera raggiunse Haifa, dove trovò le taverne piene di giovani sloveni che cantavano. Dapprima lo emozionò molto sentire cantare in sloveno così lontano da casa, e forse proprio per questa ragione fu tanto più dispiaciuto quando apprese come era finita la serata: tre soldati del battaglione si erano ubriacati talmente tanto da farsi male; altri cinque, non meno avvinazzati, erano tornati al campo solo il giorno dopo. Lui, che non vedeva di buon occhio i soldati che si sbronzavano, rimase ancora più deluso quando venne a sapere che alcuni di questi, tornati da Haifa, avevano distrutto alcune tende del campo, perfino quelle degli ufficiali e la tenda per i viveri.
Nell’ultimo numero della nostra «Bazovica» si è scritto tanto, i giovani sono stati rimproverati pesantemente, per il fatto che non è questo il tempo per ubriacarsi e altro, ma i nostri giovani non sentono e non capiscono tutto questo, vanno in città e si ubriacano come delle vacche, svergognando la nostra Jugoslavia. Per concludere, oggi il sig. maggiore ha chiamato tutti i giovani e ha fatto appello alla loro serietà. Ha detto che per due settimane nessuno potrà andare in città. I due con la testa rotta sono stati mandati in carcere ma riguardo ai colpevoli scriverò la prossima volta5.
Anche in Palestina, con la mente tornava spesso a casa. Soprattutto durante i pasti, quando sul tavolo restava del pane bianco, si chiedeva se in quel preciso momento la sua piccola Lenči avesse qualcosa da mangiare. Lui, abituato com’era ad avere sempre un filo diretto con la moglie e la famiglia, soffriva molto per il fatto di non poter corrispondere con i suoi cari. Nella sua nuova condizione di volontario dell’esercito jugoslavo, facente parte quindi del fronte alleato, non poteva avere alcun contatto epistolare con Trieste e l’Italia: ne sarebbe andata di mezzo la vita dei suoi familiari, in quanto qualsiasi accenno alla sua presenza in terra palestinese e alla sua adesione all’esercito jugoslavo li avrebbe messi in pericolo.
Quante volte, quando sono solo, penso a cosa stanno facendo i miei cari, mia moglie, la mia cara bambina, i miei genitori in quello stato italiano, ridotto a brandelli. Li vedo nella miseria e nella penuria, li vedo impauriti a causa dei nostri bombardamenti6, li vedo impauriti dai lahi e nell’ultimo periodo anche a causa di quella feccia tedesca; persino la nostra Primorska è stata raggiunta da questi vagabondi tedeschi. Li vedo che pensano a me, sono convinto che pensano un gran male. Mi vedono affamato, pieno di pidocchi, cencioso, sofferente. Mai, e poi mai, potrebbero immaginarmi nel nostro esercito jugoslavo, in una bella uniforme, sazio, pulito, sano. No, no, loro mi vedono sempre prigioniero, com’è logico non pensano niente di buono per quanto mi riguarda. Ma siate fiduciosi, siate contenti in anticipo, sopportate tutte le pene che il piccolo lah e il ringalluzzito tedesco vi provocano. L’ora della salvezza è già alle vostre porte, l’ora della contentezza e della gioia per noi jugoslavi. L’ora della morte è l’ora della dannazione per i Lahi e i fratelli tedeschi. Salve e arrivederci, miei cari, a presto7.
Nel suo diario Bruno annotava l’arrivo di ogni nuovo gruppo e la partenza di coloro che erano diretti all’unità della marina o dell’aeronautica britannica. L’addestramento ad Atira durava dalle due alle tre settimane e la partenza di ogni gruppo addestrato gli faceva ben sperare che la fine della guerra, e con essa la liberazione della Venezia Giulia, fosse vicina. Sapeva che gli inglesi erano interessati soprattutto ai paracadutisti jugoslavi, che reclutavano per le loro missioni sui Balcani8. Il 3 settembre 1943 partirono per l’Egitto anche i suoi amici, Gigi Čufar e Branko Skrinjar (un altro conterraneo con cui era entrato in contatto), con i quali festeggiò l’evento:
Siamo andati dai negri, nella loro cantina, e abbiamo comprato due paia di buone bottiglie che poi abbiamo bevuto sotto un ulivo ai margini del nostro campo. Abbiamo parlato della nostra vecchia štempiharija9, com’era bello essere così lontani dai nostri cari ma così vicini a loro con la lingua10.
Era soddisfatto del lavoro che svolgeva nell’ambulatorio medico anche perché gli permetteva di non partire per il fronte. Da soldato semplice, cannoniere e cuoco improvvisato, aveva fatto carriera; aveva imparato a scrivere a macchina e a registrare tutti i dati necessari nelle cartelle mediche, era diventato a tutti gli effetti segretario del medico di campo. Anche se all’inizio aveva incontrato qualche difficoltà con la lingua serbocroata e, soprattutto, con la scrittura del cirillico, con il passare del tempo l’aveva superata; ogni sforzo in tal senso andava fatto in vista di un bene considerato supremo: «faccio tutto per la nostra grande Jugoslavia, per questo il lavoro è un onore e mi impegno a fare ciò che è nelle mie possibilità»11.
D’altronde, perché avrebbe dovuto lamentarsi visto che in passato era stato costretto a vivere in uno Stato straniero e a servire un esercito straniero?
Oggi sono 9 mesi che il lah mi ha chiamato sotto le armi dei lahi, nove mesi di carriera militare, tre in Italia, 2 in Tunisia, sempre come soldato, poi 78 giorni come prigioniero degli inglesi e ora 40 giorni come soldato slavo della libera Jugoslavia. Una breve carriera ma interessante, tragica e allo stesso tempo anche radiosa, cioè invece di stare nel campo recintato col filo spinato e aspettare lì la libertà mi trovo qui, ho fatto un grande passo verso la nostra vera e giusta libertà. Tutti i fronti ci dimostrano che il giorno della salvezza si sta avvicinando velocemente. I russi sono diventati capaci di tutto dopo la vittoriosa offensiva estiva, dall’altra parte tutti i nostri alleati avanzano bene e velocemente. Presto giungerà anche per voi tutti, miei cari, il giorno in cui vi libererete dal giogo dei lahi12.
Bruno non poteva fare a meno di pensare a quanto fosse cambiata la sua condizione di soldato. Se molte erano le novità positive, alcune invece non gli andavano a genio: come soldato jugoslavo riceveva cinque sterline al mese, paga ben inferiore a quella che spettava ai soldati italiani; gli bastava appena per le sue necessità, e con quella non avrebbe certo potuto sostenere la famiglia. Dal punto di vista economico, non poteva che constatare come l’esercito italiano provvedesse meglio ai suoi soldati e alle loro famiglie. La stessa cosa succedeva con le sigarette che riceveva ogni settimana: il numero non lo soddisfaceva. Sebbene cercasse di non dare troppa importanza a questi difetti, non era nemmeno disposto a ignorarli del tutto. Le condizioni materiali ed economiche non erano a suo dire meno importanti degli ideali e, per questo motivo, ai...