La questione
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Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi

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Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi

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«In questi centocinquant'anni il Sud è effettivamente rimasto indietro (rispetto al Nord), ma nel contempo è anche andato avanti (rispetto al suo passato). Il punto è che, delle due affermazioni, la prima occulta la seconda e, possiamo dire, l'ha sempre occultata. Perché? Per il fascino della grande metafora dualista che sta dietro e sotto la questione meridionale: progresso contro arretratezza, modernità contro arcaismo, civilizzazione contro barbarie. A contro B. Nord contro Sud».Quando si parla dell'Italia contemporanea, la «questione» per antonomasia non può che essere quella meridionale. E la questione è tale – così di solito si pensa – proprio perché è sempre la stessa, proprio perché da centocinquant'anni il Mezzogiorno è fermo, è «rimasto sempre lì». Ma è davvero così? E il fatto di continuare a riproporre la questione ci è davvero di aiuto per comprendere la storia del Mezzogiorno e quella del nostro paese? In effetti, se è innegabile che per molti versi il Sud è rimasto indietro (rispetto al Nord), d'altro canto sembra difficile non vedere che nel contempo esso è anche andato avanti (rispetto al suo passato). In realtà, quando parliamo di divario tra Nord e Sud – come facciamo ormai da un secolo e mezzo – ci riferiamo a un concetto composito, che comprende fasi storiche differenti, e che non tocca solo l'ambito dell'economia, ma riguarda anche la società, la sfera pubblica, la politica, il costume. Questo nuovo libro di Salvatore Lupo prova a districare il groviglio, risalendo alle origini di una «questione» che tuttora impera nel dibattito pubblico e che è divenuta un vero e proprio mainstream storiografico. È infatti intorno al 1875 che la questione meridionale divenne il fulcro di una più grande questione sociale, che riguardava la relazione tra la borghesia e il popolo e che si presentava con tratti di particolare gravità al Sud. In una seconda fase, a cavallo tra Otto e Novecento, essa condensò una serie di proteste regionaliste delle diverse borghesie meridionali. È proprio in questo periodo che l'espressione «questione meridionale» divenne canonica. A ben vedere, la «questione» non nacque da un automatico rispecchiamento della realtà. In ciascuno dei momenti della sua elaborazione, gli argomenti e i concetti furono prodotti e selezionati con finalità fortemente soggettive. Ne deriva che la questione meridionale non è un tutto unico; e ancor più che non va confusa, né può coincidere, con la storia del Mezzogiorno. La quale può emergere, in tutta la sua forza e le sue articolazioni, solo se si ha, paradossalmente, il coraggio di liberarla dal meridionalismo.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868434274
Argomento
History
Categoria
World History

II. Secondo atto. L’alba del Novecento

1. Presente e passato.

L’espressione «questione meridionale», come sappiamo, non compariva nel dibattito del 1875-77. La ritroviamo invece al passaggio tra Otto e Novecento1.
Nel 1904, Fortunato introduce il termine dualismo, volendo enfatizzare il tema della differenza di risorse naturali tra Nord e Sud (il Mezzogiorno è «un paese povero, virtualmente assai più povero che il resto d’Italia»)2. Riferendosi a fattori oggettivi, argomenta in forma ragionevole ed equilibrata: sin troppo, possiamo dire, per avere successo in una discussione che ha già assunto la veste della polemica regionalistica – la veste controversistica che conserverà a ogni tornante della sua lunga storia, sino ai nostri tempi. La polemica, essendo bisognosa di trovare colpe o colpevoli, privilegia infatti i fattori soggettivi, e innanzitutto le politiche governative. Esse, secondo gli uni, favoriscono l’Italia «inferiore», quella «palla al piede» che frena la rincorsa dell’Italia «superiore» alla modernità. Secondo gli altri, viceversa, scientemente danneggiano il Sud a vantaggio del Nord. Ma i richiami alle politiche non bastano. Vengono chiamati in causa nodi identitari più profondi.
Stando alla ricostruzione datata 1910 di Arturo Labriola, leader socialista (o, se volete, sindacalista rivoluzionario) napoletano, la discussione si sviluppa inizialmente (anni novanta) in ambienti radicalsocialisti e con un intento antimeridionale3. La raffigurazione del dualismo Nord-Sud, come abbiamo rilevato sin dall’introduzione, prende spesso la forma della dicotomia civilizzazione-arcaismo4. Logico che i fedeli nella religione del progresso si impegnino a esorcizzare l’elemento arcaico. Labriola indica anche il contesto politico in cui la polemica prende forma. È il periodo in cui alla guida del governo si alternano Crispi e Rudinì, due meridionali visti a sinistra come «reazionari»; logico, spiega il nostro autore, che i loro avversari addebitino le loro politiche al carattere «ancora feudale» del paese da cui i due provengono5. Noi possiamo suffragare la sua ricostruzione citando, tra le altre fonti, una nota redazionale di «Critica Sociale», la più autorevole voce del socialriformismo milanese:
Laggiù, dove non erano industrie, né cultura diffusa, né iniziativa e vigoria di razza per fondar quelle e conquistare questa, è venuta su, dall’emulazione dei rapidi guadagni, dall’invidia delle ricchezze dell’Italia superiore, una razza di avventurieri […]. Questi tipi di baroni improvvisati, dei quali […] Crispi [è] il più scellerato ed energico (quindi il re della tribù, come nelle orde selvagge, per diritto divino), indosso ai quali, sotto il frack di parata del gentiluomo, spunta la cartucciera dell’antico brigante, vivono del lezzo e nel lezzo, sono i veri saprofiti politici della nazione6.
Il barone, il politico, il brigante e il saprofita – ovvero il parassita. Queste figure, o altre analoghe, vengono evocate di fronte alle emergenze della mafia (processo Notarbartolo), della camorra (processo Cuocolo), del banditismo sardo o calabrese, e di fronte alle inchieste sul malgoverno municipale napoletano o palermitano. Ne risulta, molto spesso, la criminalizzazione di un’intera società. Alla fine uno come Arturo Labriola, che pure si è formato nelle lotte contro la corruzione e le «camorre amministrative» napoletane, non può non protestare sulla stessa «Critica Sociale»: «a me par defezione evidentissima di ogni criterio di materialismo storico il ritenere che delle regioni o delle nazioni prese in blocco possano essere tutte ritenute corrotte o perfette [come] i popoli eletti e i popoli condannati dal Signore»7.
La mente va agli antropologi che in questo stesso momento portano la questione sul terreno della razza, e misurano crani, e ragionano di atavismi etnici, in modo da stabilire scientificamente il perché i meridionali siano così predisposti a comportamenti antisociali o criminali tout court8. Paradosso vuole che costoro si collochino su una linea culturale (una scienza sociale di ispirazione positivista) e politica (progressista) analoga a quella di Napoleone Colajanni, colui che prende posizione sullo scenario pubblico per confutare il carattere razzista delle loro tesi. Come Labriola, Colajanni è un uomo del Sud. Al pari di lui, si sente tenuto a mettere innanzitutto in chiaro le proprie credenziali progressiste. Precisa di aver sempre criticato i «costumi politici e morali del Mezzogiorno», invita a non confondere la sua difesa della «razza maledetta» con il «volgare e pernicioso chauvinisme» di chi nasconde le «piaghe» del proprio paese9. Analogamente procede confrontandosi con la mafia. È in prima fila nel fronte antimafia in occasione del delitto Notarbartolo. Deve però reagire quando il repubblicano romagnolo Alfredo Oriani, sul milanese «Il Giorno», definisce la Sicilia una fogna, «un paradiso abitato da demoni», «un cancro al piede dell’Italia»: e lo fa ricordando il periodo postunitario, i tempi in cui funzionari e politici della Destra trattavano l’isola come terra di occupazione, e proprio per questo fornivano il loro appoggio ai gruppi mafiosi. «I siciliani – conclude – sono stanchi di essere inciviliti» da gente di quel genere, che nella fogna ha «diguazzato allegramente»10.
Colajanni, nato nel 1847 (dunque coetaneo di Franchetti, di Sonnino, di Fortunato stesso), è il più anziano tra coloro che, seguendo una linea storiografica consolidata, possiamo indicare come i quattro «nuovi» protagonisti della discussione sul Mezzogiorno a cavallo tra i due secoli. Gli altri tre sono Antonio De Viti de Marco (nato nel 1858), Francesco Saverio Nitti (nato nel 1868) e Gaetano Salvemini (nato nel 1873). I quattro sono tutti meridionali: Nitti è di Melfi, De Viti de Marco di Lecce e Salvemini di Molfetta, Colajanni di Castrogiovanni oggi Enna. Possiamo considerarli elementi rappresentativi di varie borghesie e tradizioni politiche «provinciali» del Sud. La famiglia di De Viti de Marco, anzi, è aristocratica, di grandi proprietari viticoltori, e di tradizione liberale moderata. L’estrazione sociale di Salvemini è relativamente modesta: appartiene proprio a quella piccola borghesia intellettuale che mette alla berlina nei suoi scritti. Ha uno zio prete e pervicacemente borbonico, le cui opinioni usa citare. I Nitti, medi proprietari e professionisti, hanno militato nel fronte patriottico nel 1860-61, e il nonno di Francesco Saverio è stato ucciso dai briganti legittimisti. Colajanni viene da una famiglia di imprenditori, gestori di miniere di zolfo. La sua esperienza politica risale addirittura al 1862, quando – quindicenne – si è arruolato tra i garibaldini. Colajanni, De Viti de Marco e Nitti sono parlamentari di lungo corso, rispettivamente dal 1890, dal 1901 e dal 1904; Salvemini siede alla Camera solo per un breve periodo, nel 1919.
Nella maturità, i quattro vanno a collocarsi in un’area politica tra radicale e socialisteggiante; sia Colajanni che Salvemini si dicono federalisti. Questo peraltro, come vedremo, non garantisce che abbiano un programma comune. Ciò che li accomuna è un acceso sentimento regionalista.
E anche le polemiche di Salvemini, come quelle di Colajanni e di Labriola, sono innanzitutto rivolte contro gente che più o meno dovrebbe pensarla come lui, se a dividerli non fosse la provenienza geografica – l’essere nordico o sudicio. Ovvero: parliamo di un socialista riformista pugliese che si accapiglia con i socialisti riformisti settentrionali, ivi compreso il grande leader Filippo Turati, perché non accetta l’idea che per risolvere i problemi del paese la «parte più arretrata» debba accettare l’«egemonia» (temporanea, s’intende) della «parte più avanzata». Salvemini replica richiamando i principi stessi di una democrazia che devono valere per tutti: «Nessun prefetto radicale, nessun commissario socialista, nessuna opera di magistrato ultrademocratico» riuscirà a «far diventare galantuomini e democratici noi poveri meridionali» come voi settentrionali dite di volere. «No, non è facendo scendere dall’alto la grazia divina, che si può epurare la vita meridionale; non la tutela del governo bisogna sostituire alla strapotenza immorale delle camorre amministrative»11.
È «in quest’ambiente, pieno di diffidenze e di recriminazioni, di ostilità e di disprezzi»12, che vanno a collocarsi le polemiche sull’economia e sulla politica economica. Ce lo spiega lo stesso Salvemini in apertura del suo celebre saggio su La questione meridionale e il federalismo (1900), raccontando di un episodio capitatogli quand’era quattordicenne – dunque nel 1887. Viaggiava con la madre in uno scompartimento ferroviario insieme a due settentrionali finché, esasperato dalle loro chiacchiere di stampo razzista sui meridionali «ignoranti, superstiziosi, barbari», esplose in una risposta polemica – «ma non siamo mica barbari, quando ci rubate i nostri quattr…» – che fu troncata solo da «un atroce pizzicotto materno». A distanza di anni, il ventisettenne Salvemini non sa più dire a quali quattrini esattamente il suo orgoglio di quattordicenne intendesse riferirsi: ipotizza che abbiano influito le lamentele dello zio borbonico («il quale ripeteva spesso e volentieri, a ogni scadenza del bimestre delle tasse, le parole di Francesco II – i piemontesi vi lasceranno solo gli occhi per piangere»), vaghe memorie su prepotenze subite dai compaesani nel 1860, personali osservazioni sul miglior funzionamento delle ferrovie nella parte «superiore» del paese rispetto a quella «inferiore». Conferma però che i «novantanove centesimi dei meridionali» continuano ad avere la stessa «coscienza indeterminata e profonda» di essere vittime della rapacità del Nord. Vengono peraltro ripagati di simile moneta: stando ai settentrionali, il Sud paga meno tasse e gode di maggiori favori governativi, è «un parassita che dà poco e prende molto», rappresenta «la inesauribile sentina» della corruzione politica13.
La memoria di Salvemini ruota dunque intorno a tre date: dal 1900 risale al 1887, e da lì al 1860-61. Le date coincidono in effetti con tre svolte storiche. Lasciamo per ora stare quella di mezzo, il 1887 (ne tratteremo nel prossimo paragrafo), e parliamo di quelle estreme. Nel 1900 è già avviato il processo di industrializzazione del Nord-ovest; il gap con il Sud si sta allargando e si sta palesando. Il 1860-61 indica il grande incipit dello Stato-nazione, il momento in cui il Sud ha incontrato il Nord. Salvemini può sintetizzare l’intero percorso con la formula destinata ad essere riproposta da molti, e in varie versioni, nei cento anni seguenti – «La ricchezza del Nord è prodotta dalla miseria del Sud»14 – indicando le ricerche di Nitti come quelle che hanno «luminosamente documentato» tale verità.
Le ricerche nittiane sono presentate al grande pubblico in un volume, pubblicato anch’esso nel fatale anno 1900, intitolato proprio Nord e Sud15, il quale colpisce i contemporanei (e anche i posteri) innanzitutto per l’idea che il Sud sia stato danneggiato dall’Unità. Con l’Unità, spiega Nitti, l’ex Regno delle Due Sicilie, che aveva un basso debito pubblico, si è dovuto far carico del debito dell’ex Regno di Sardegna, che era elevato; ha subito un prelievo fiscale maggiore di quello cui era abituato; le sue industrie già fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste. La polemica di Nord e Sud quasi riprende quelle dello zio prete di Salvemini, e di chissà quanti altri nostalgici dell’antico regime. Non ci stupiamo dunque che sia stata utilizzata (allora e anche di recente) in una logica separatista-borbonica; ma non è questo il suo significato né la sua intenzione. Nitti non dimentica le motivazioni politiche di fondo che hanno portato la sua famiglia ad aderire agli ideali del Risorgimento: «l’unità politica ci ha dato tutte le cose migliori che noi abbiamo: la supremazia del potere civile, il risveglio della coscienza individuale»16. Nell’antico regime, precisa: «vi erano intere province, intere regioni quasi chiuse a ogni civiltà»; i Borbone volevano il popolo «buono» e ignorante, dunque a poche tasse corrispondevano «niente scuole» e «poche opere pubbliche»17.
Quanto al periodo postunitario, Nitti afferma che l’economia meridionale è grandemente cresciuta, che sino al 1887 il suo peso «nella vita economica e sociale dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia»18. Io osservo, come già ho osservato nell’introduzione riferendomi a Salvemini: dovrebbe dedurne che il Sud non era uscito così male dalla stagione dell’unificazione, che – se danno c’è stato – è stato successivo. Perché dunque riportare i problemi meridionali al 1861? Perché il torto deve essere originario, in modo da legittimare l’idea di una riparazione che l’Italia deve a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Primo atto. 1875 e dintorni
  7. II. Secondo atto. L’alba del Novecento
  8. III. Terzo atto. Il fascismo alle porte