Parte prima
La grande cucina I. Le corti rinascimentali
1. Gli ambienti.
In Italia esistevano più di cinquemila castelli: da rustiche rocche a vere fortezze capaci di resistere agli assedi dei nemici. Della maggior parte di essi restano solo i ruderi, ma qualche centinaio è sopravissuto alle ingiurie del tempo a dimostrazione delle straordinarie disponibilità economiche dei signori che li hanno voluti, abitati e mantenuti nei secoli. Alcuni di questi castelli nel tempo si sono ingranditi e trasformati in residenze principesche circondate da importanti sistemi di difesa: mura, torri, bastioni, fossati, ponti levatoi, con all’interno gli alloggi per le guarnigioni. All’esterno del castello vi erano le abitazioni della servitù: centinaia di persone, tra servi, cuochi, stallieri, artigiani. L’economia di tutte queste famiglie era legata alla fortuna del castellano che ricavava la propria ricchezza dai terreni attorno: erano i raccolti, oppure gli animali o le miniere, a consentire il benessere o la miseria di tante persone.
Si ha notizia dei primi castelli attorno all’anno mille: molti furono costruiti nel tardo medioevo mentre quelli trasformati in residenze raggiunsero il massimo splendore nel XVI secolo. Tra le casate celebri, alle quali sono legate numerose di queste dimore, vanno ricordati i reali d’Aragona, i della Scala, i d’Este, i de’ Medici, i della Rovere, i Visconti, gli Sforza, i Gonzaga, gli Orsini, i Corsini, i Borghese, i Malatesta, i Bentivoglio, gli Strozzi, i Chigi, i Farnese, i Savoia, i Doria, un gran numero di cardinali, vescovi, conti, marchesi, duchi, baroni e, soprattutto, il papa che di residenze splendide ne aveva moltissime.
I più importanti di questi castelli a volte si arricchivano di una corte, formata da persone di cultura e di spettacolo, scienziati e artisti, con il compito di rendere piacevole, relativamente ai tempi, la vita ai castellani. Sono celebri la corte estense a Ferrara, con la presenza di Ludovico Ariosto e successivamente di Torquato Tasso; quella dei Gonzaga a Mantova, dove la marchesa isabella realizzò una delle più pregevoli raccolte di dipinti esistente al mondo; quella degli Sforza a Milano, dove operò anche Leonardo. Momenti di riferimento sono le feste: per carnevale o per matrimoni o per visite di Stato oppure per occasioni particolari – se ne trovavano sempre – venivano organizzate cene con grandi spettacoli, a beneficio di pochi, ma a volte anche con la marginale partecipazione della popolazione.
A volte i signori, in aggiunta al palazzo principale, si dotavano anche di residenze destinate esclusivamente alle piacevolezze della vita: ad esempio, erano famose le «delizie» degli Estensi, piccole dimore1, vicino al Po oppure in mezzo a un bosco, tra le quali ebbe grande fama quella di «Schifanoia»2: la sua grande sala, affrescata dal ciclo dei dodici mesi ad opera di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, era un ambiente ideale per ospitare balli e banchetti. I Gonzaga non furono da meno e commissionarono all’architetto e pittore Giulio Romano la progettazione e la decorazione di Palazzo Te, una sede splendida e grandiosa non distante dal castello, riservata esclusivamente alle feste. Le principali famiglie veneziane invece, per il loro diletto e per il riposo, preferirono allontanarsi un po’ più dalla città e costruirono numerose ville nell’entroterra, particolarmente sul corso del Brenta: una dimostrazione di grande ricchezza e di gusti raffinati.
2. La grande cucina.
A metà del Cinquecento, rinacque e si sviluppò la grande cucina o, meglio, lo spettacolo della grande cucina. In quel periodo le principali corti facevano a gara nell’organizzare feste e banchetti, la cui descrizione ci è pervenuta da libri dell’epoca, da cronache locali e da relazioni degli ambasciatori, con l’elenco delle numerosissime cibarie che venivano servite e con dovizia di particolari sull’evento, le musiche, le commedie, i giochi, il comportamento dei partecipanti. Si trattava di veri e propri spettacoli, il cui scopo non era certamente quello di sfamare i convitati ma di dimostrare la potenza e la ricchezza della signoria. La preparazione poteva durare settimane e costare una fortuna: ma alle spese provvedevano spesso gli ebrei che facevano credito, sapendo come ottenere in seguito un’adeguata gratitudine.
In queste occasioni il signore (principe, duca, conte o marchese), poteva sfoggiare la sua familiarità con personaggi notissimi, le star dell’epoca: lo stesso Leonardo a Milano si cimentò nell’invenzione di scenografie meccaniche per abbellire gli spettacoli degli Sforza e l’Ariosto a Ferrara fece rappresentare la prima di una sua commedia in attesa che venissero apparecchiati i tavoli per una grande cena.
La responsabilità delle feste e dei banchetti era affidata a tre personaggi chiave, ciascuno con una ben precisa responsabilità: lo scalco, il cuoco e il trinciante; un gradino sotto ce ne era un quarto, il bottigliere. In alcuni banchetti vengono menzionati anche altri personaggi, come il credenziere, che si affiancava allo scalco nell’apparecchiare la tavola, lo spenditore, responsabile degli acquisti, il computista, che teneva i conti.
3. Lo scalco.
Lo scalco era la figura di gran lunga più importante: a lui era affidata la regia della festa (scenografia, giochi, musiche), l’ideazione del banchetto, la gestione dei servizi di cucina e di tavola. Era un personaggio potente perché, nei periodi «normali», cioè quando non c’erano feste, fungeva spesso da maestro di casa, cioè aveva la responsabilità della vita quotidiana a palazzo e teneva i cordoni della borsa. Il nome deriva dal latino scalcus, che significa servitore, ma il termine non deve trarre in inganno: lo scalco non era affatto un servitore, anche se di rango elevato, ma un cortigiano, cioè un membro della corte, un gentiluomo per nascita o per meriti speciali.
Lo scalco più celebre di quei tempi fu Cristoforo di Messisbugo3, che operò presso la corte estense nella prima metà del Cinquecento: a lui si deve il celebre trattato Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale del 1549, con un gran numero di ricette e la descrizione di ricchi banchetti.
Grande successo ebbe anche il lavoro di un altro scalco, La singolare dottrina di M. Domenico Romoli sopranominato il Panonto, più noto come Il libro del Panonto, stampato per la prima volta a Venezia nel 1560 e più volte ripubblicato. L’opera, dopo aver trattato nei dettagli il ruolo dei personaggi coinvolti nei banchetti (scalco, cuoco, trinciante), elenca tutti i cibi che vengono forniti dalla natura e descrive il modo di cucinarli: molto interessante la parte dedicata alle spezie di cui, come è noto, in quell’epoca i ricchi facevano grandissimo uso. Poco si sa del Romoli, se non che era uno scalco, appunto, che in precedenza era stato cuoco di papa Giulio III e che, probabilmente, era di origine fiorentina (lo dimostrerebbe il soprannome Panonto che sta per pan-unto, fetta di pane con sopra un po’ di olio, tipico cibo toscano).
Il libro del Panonto si apre con un’impostazione etica, dando risalto all’integrità morale dello scalco e ai rapporti che devono intercorrere con il padrone e con gli inferiori. In particolare, il padrone dovrà aver rispetto e stima dello scalco e degli altri suoi servitori, se fedeli e capaci, e trattarli bene; costoro, per la loro parte, dovranno servire nella maniera migliore. Un’attenzione speciale dovrà avere il padrone per evitare che lo scalco sia tentato dall’avarizia, perché non dovranno mai essere limitate le sue azioni nella scelta dei cibi e delle bevande:
Quando un scalco pensi più a se stesso che al padrone, pensando il suo utile particolare in tutte le cose, non sarà mai buono, perché, havendo la vita del suo signore in mano, non dee mai pensare a se medesimo, ma al debito e alla importanza del suo officio, e per questa cagione deve il signor suo mantenerselo buono e fidato, honorarlo e farlo ricco, accioché non habbia a porsi in desiderio di acquistare altre ricchezze, né honori.
Nello stesso periodo a Ferrara, come successore di Messisbugo, si affermò Giovan Battista Rossetti4: la sua opera Dello scalco, pubblicata nel 1584, contiene non solo la descrizione di incredibili banchetti ma anche un minuzioso elenco di notizie sull’organizzazione dei servizi di cucina e di dispensa e sulle caratteristiche dei vari «ufficiali», innanzitutto dello scalco, il quale, oltre alle qualità morali su cui gli altri testi citati insistono, deve avere un adeguato physique du rôle, e pertanto essere
di più che di mediocre statura, sia perché par che renda certa più gravità, sia per dominare le tavole e potere stando dall’un capo della tavola scorrerla con l’occhio tutto a vedere con che garbo si portino quelli che la servono, e anche se le vivande sono poste a caso, o con giudizio, come per esempio se due cose simili sono poste una presso l’altra che non sta bene […]. Lo scalco deve vestire modesto, ma honorato e pulito, perché essendo della persona pulito, darà anco a credere d’esser tale nel suo servitio […]. Bene sarebbe che fosse di ciera grata e piacevole […] più tosto allegro che melanconico, poi che per il più egli serve in occasione di allegrezza, e perché tiene più rincuorati coloro che servono sotto di lui.
E così via per tredici fittissime pagine.
Durante i banchetti lo scalco era affiancato dal cuoco e dal trinciante. Spesso capitava che lo scalco fosse stato cuoco in gioventù e potesse, pertanto, discutere, con cognizione di causa, di cose di cucina con il cuoco, il quale, insieme al trinciante, lo affiancava nella preparazione del banchetto.
4. Il cuoco.
Il cuoco non aveva accesso alla sala del convito, ma restava in cucina e, con i suoi numerosi aiutanti, aveva il compito di realizzare i menu predisposti in collaborazione con lo scalco.
Celebre in questa disciplina fu Bartolomeo Scappi5, autore di una monumentale raccolta di ricette che papa Pio V, nel concedere il privilegio di stampa, definì Epulario6 seu de re coquinaria, e che il nostro personaggio nel frontespizio presenta ai lettori nel modo in cui appare nell’illustrazione seguente.
1. B. Scappi, Opera dell’arte del cucinare (1570), ristampa anastatica dell’edizione 1579, Forni, Bologna 1981, frontespizio.
Il libro divenne subito noto con la sola prima parola del frontespizio, cioè semplicemente Opera. La prima edizione è del 1570, ebbe un successo grandissimo e fu ristampato svariate volte fino al 1646.
All’inizio di Opera lo Scappi così descrive le qualità che deve avere un bravo cuoco:
ha da conoscere ogni sorta di carne e di pesce […] e compartire ogni sorte di animali quadrupedi e volatili, e discernere tutti i ...