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Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati

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Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati

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Comprendere la logica interna di un conflitto, come quello arabo-israeliano, che ha attraversato il Novecento e che tuttora si perpetua con picchi di estrema recrudescenza, non è semplice, e spesso il pregiudizio o la mancanza di conoscenza condizionano la capacità di rovesciare il punto di vista e di mettersi dall'altra parte. Questo libro, che per la prima volta lascia parlare senza il filtro dell'istituzionalità i soldati dell'esercito israeliano, rappresenta un'occasione imperdibile di riflessione. A raccontarsi sono ex combattenti che provano a «rompere il silenzio», rivelando la natura straniante della loro esperienza: assistiamo così in queste pagine a un «profondo esercizio di autoanalisi dei narratori, della loro umanità e di quella del loro mondo», scrive nella sua prefazione Alessandro Portelli. Un libro di storia orale, dunque, che ci conduce nei meccanismi più complessi di una logica – essenzialmente di prevenzione di possibili attentati – tanto implacabile quanto ormai «normale» per chi sente di fare il proprio dovere agendo nel rispetto di regole all'apparenza neutrali. La ripetitività e l'ordinarietà di certi comportamenti aprono invece a violazioni, altrove considerate inaccettabili, dei diritti elementari. Il supporto all'occupazione dei territori palestinesi – sia in Israele che all'estero – si basa sull'idea che la presenza dell'esercito israeliano a Gaza e nella West Bank abbia una funzione protettiva e che lo scopo sia di salvaguardare il paese dal terrorismo. Le 145 testimonianze raccolte dalla Ong Breaking the Silence raccontano una storia diversa: emerge infatti un intento almeno altrettanto offensivo che difensivo. Nelle loro stesse parole, i soldati rivelano che lo scopo della loro presenza è accelerare l'acquisizione israeliana dei territori, paralizzare la normale vita politica e sociale e, in ultima analisi, contrastare qualunque possibilità di indipendenza palestinese. Nessuno dei soldati che parlano in questo libro mette in discussione il diritto di Israele a esistere e a proteggere l'incolumità dei propri cittadini. Ma la vera posta in gioco per il futuro di tutta l'area è quella di riuscire a proteggere se stessi senza annientare la vita dell'altro.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868434922
Argomento
Storia

Parte prima
Prevenzione: l’intimidazione della popolazione palestinese

Premessa

Nel decennio successivo allo scoppio della seconda Intifada nel settembre del 2000, sono stati uccisi più di mille israeliani e di seimila palestinesi. L’escalation della violenza fra i palestinesi e gli israeliani, sia nei Territori occupati sia all’interno dei confini di Israele, ha indotto il sistema di sicurezza ad adottare nuovi e più aggressivi metodi di azione, miranti a reprimere l’opposizione palestinese e ad impedire i tentativi di attaccare la popolazione civile e i soldati israeliani su entrambi i versanti della Linea verde.
Le testimonianze contenute in questa prima parte si riferiscono all’azione militare a carattere offensivo e dinamico della IDF nei Territori occupati nel periodo che va dal 2000 al 2010. Le forze di sicurezza affermano che la loro azione consiste nel «prevenire il terrore», ma le testimonianze dei soldati mettono in luce che il termine «prevenzione» è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, a produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione «prevenzione del terrore» costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale. Queste testimonianze evidenziano inoltre le gravi implicazioni che la mancanza di tale distinzione comporta per la vita, la dignità e le proprietà dei palestinesi.
Fra le azioni descritte vi sono arresti, omicidi, occupazioni di abitazioni. Emergono al contempo anche i principi e le considerazioni che guidano coloro che hanno la responsabilità delle decisioni operative, sia sul campo sia ai più elevati livelli di comando. Fin dalle fasi iniziali della seconda Intifada, la IDF stabilì quale fosse il principio basilare dei propri metodi, definendolo come la volontà di «annichilire la coscienza». Il presupposto è che la resistenza si attenuerà una volta che la popolazione palestinese nel suo complesso si renderà conto che è inutile opporsi. In pratica, come mostrano le testimonianze, questa opera di «annichilimento della coscienza» si traduce in un susseguirsi di azioni intimidatorie e di punizioni indiscriminate. In altre parole, la violenza contro la popolazione civile e il ricorso alle punizioni collettive vengono giustificati in base a questa linea, e sono diventate le pietre angolari della strategia attuata dalla IDF.
Una caratteristica attività di questa opera preventiva della IDF è quella degli omicidi mirati. La IDF ha ripetutamente affermato che queste uccisioni sono utilizzate come ultima risorsa, quale misura difensiva contro chi pianifica e mette in atto attacchi terroristici. Le testimonianze dei soldati rivelano però che le operazioni militari dell’ultimo decennio non coincidono con quanto viene riferito dai mezzi d’informazione e nelle deposizioni giudiziarie. Più volte è avvenuto che un’unità venisse incaricata di commettere un omicidio anche quando erano possibili alternative, come ad esempio il semplice arresto. Dalle testimonianze di questa sezione emerge inoltre chiaramente che almeno alcune delle uccisioni sono avvenute a scopo di vendetta o di punizione, non necessariamente per impedire un attacco terroristico. Un testimone descrive l’omicidio di alcuni agenti della polizia palestinese disarmati, non sospettati di attività terroristiche. Secondo il suo racconto, quelle uccisioni furono una rappresaglia per l’omicidio di alcuni soldati da parte di militanti palestinesi, avvenuto nella stessa area il giorno precedente. Altre testimonianze descrivono una politica mirante a «far pagare» ai palestinesi il prezzo della loro opposizione, con missioni il cui scopo, per usare le parole di uno dei comandanti, era «riportare i corpi».
Un altro strumento della politica di «prevenzione del terrore» è costituito dagli arresti. Nel corso del periodo 2000-2010, decine di migliaia di palestinesi sono stati arrestati nel corso di operazioni attuate a cadenza quasi quotidiana, di notte, anche nelle zone più interne del territorio palestinese. Secondo le testimonianze, gli arresti sono spesso accompagnati da maltrattamenti ai danni delle persone fermate, che vengono immobilizzate, picchiate e umiliate in vario modo da soldati e ufficiali. Si ricorre agli arresti per vari scopi, e in molti casi il loro motivo non è chiaro neppure agli arrestati stessi. Durante l’invasione da parte della IDF di alcune città e villaggi palestinesi, tutti gli uomini vennero confinati in un luogo specifico, nonostante che l’esercito non fosse a conoscenza di delitti da essi commessi né avesse informazioni su loro eventuali intenzioni criminose; gli uomini furono tenuti legati e bendati, in alcuni casi per ore. Così, nel contesto delle operazioni di «prevenzione del terrore», gli arresti in massa vengono utilizzati per infondere paura nella popolazione e rafforzare il controllo militare israeliano.
Gli arresti sono spesso accompagnati dalla distruzione o dalla confisca delle proprietà e delle infrastrutture palestinesi. Le testimonianze dimostrano che spesso queste distruzioni sono il risultato di errori o avvengono in conseguenza di contingenti esigenze operative, ma possono essere perpetrate anche intenzionalmente dai soldati e dagli ufficiali presenti sul campo, o per ottemperare a ordini dall’alto. In ogni caso, azioni del genere rappresentano un ulteriore mezzo per esercitare il controllo della popolazione.
L’invasione della sfera privata e il controllo imposto su di essa sono pratiche diventate comuni nel periodo a cui si riferiscono le testimonianze. Quasi ogni notte, le forze della IDF fanno irruzione nelle abitazioni private, spesso stabilendovi le proprie postazioni per più giorni o addirittura per settimane. Questo tipo di azione, definita in gergo creazione di una «vedova bianca», mira a rendere più efficace il controllo del territorio, impossessandosi di postazioni nelle quali creare punti di osservazione nascosti. Come rivelano le testimonianze, tuttavia, spesso si decide di prendere possesso di una casa privata non per prevenire il conflitto, ma al contrario per provocarlo. I racconti raccolti in questo capitolo descrivono missioni «civetta», il cui scopo è costringere i palestinesi armati a uscire dai nascondigli e a scendere in strada, per poterli colpire.
Oltre agli omicidi, agli arresti e alle distruzioni, le testimonianze descrivono un metodo di intimidazione e di punizione che in gergo si chiama «dimostrare la presenza», e rappresenta uno dei mezzi principali a cui la IDF ricorre per infondere paura nella popolazione. Un significativo esempio di questo modo di procedere è rappresentato dal pattugliamento notturno attuato dall’esercito nelle città e nei villaggi palestinesi. I soldati inviati a perlustrare i vicoli e le strade di una città «dimostrano la loro presenza» in vario modo: sparano in aria, lanciano bombe sonore, usano lanciafiamme o gas lacrimogeni, invadono e prendono possesso di case private senza un preciso criterio e interrogano i passanti. I comandanti di campo parlano a questo riguardo di «pattugliamenti violenti», «azioni persecutorie» o miranti a «interrompere la normalità». Secondo le testimonianze dei soldati, spesso queste «dimostrazioni di presenza» avvengono con frequenza regolare, e non dipendono da segnalazioni dei servizi d’informazione riferite a specifiche attività terroristiche. Le missioni di questo tipo dimostrano che la IDF considera tutti i palestinesi – che siano o meno coinvolti in attività di opposizione – come persone da sottoporre a intimidazioni e a vessazioni.
Un ulteriore esempio di «interruzione della normalità» sono le «operazioni simulate». Durante le attività di esercitazione e di addestramento, i militari invadono le case private e arrestano i palestinesi: prendono possesso di interi paesi per esercitarsi in operazioni belliche e per far pratica di combattimento in ambiente urbano. Sebbene i palestinesi che ne subiscono gli effetti possano percepirle come delle vere e proprie incursioni, dalle testimonianze si evince che esse non vengono compiute per procedere ad arresti o scongiurare un attacco, ma sono esplicitamente definite come esercitazioni di addestramento. Infine, si ricorre al termine «prevenzione» anche per indicare la repressione di attività di opposizione non violenta all’occupazione. Nel corso di questi ultimi anni si sono sviluppati alcuni movimenti popolari di protesta animati dai palestinesi dei Territori, con i quali spesso cooperano attivisti israeliani e internazionali. Questi movimenti mettono in atto varie forme di protesta non violenta, quali dimostrazioni, pubblicazioni e azioni legali. E tuttavia la «prevenzione» della IDF si estende all’uso della violenza contro questi oppositori, all’arresto degli attivisti politici e all’imposizione del coprifuoco nei villaggi in cui operano.
I diversi metodi e obiettivi che vengono qui denunciati rientrano nella logica dell’attività svolta dalla IDF nei Territori nel periodo documentato. Alla base del ragionamento che sostiene questa linea vi è la considerazione che non è necessario distinguere fra nemici civili e nemici combattenti. Le attività miranti a «dimostrare la presenza» e ad «annichilire la coscienza» dei palestinesi esprimono al meglio questa logica: la sistematica vessazione nei confronti della popolazione palestinese nel suo complesso serve a renderla più obbediente e più facilmente controllabile.
La West Bank occupata (elaborazione di Shai Efrati, adattata da Aurélie Boissière).
La West Bank occupata (elaborazione di Shai Efrati, adattata da Aurélie Boissière).

1. Flashbang1 alle tre del mattino

Unità: Paracadutisti
Località: Distretto di Nablus
Anno: 2003
Nell’Area A2 abbiamo fatto ogni tipo di interventi molto approssimativi. Ad esempio, capitava di andare a Tubas, il venerdì, quando il mercato è affollato, e piazzare un checkpoint a sorpresa in mezzo al villaggio. Una volta, siamo arrivati il venerdì mattina per farne uno, e abbiamo cominciato a sparpagliarci: perquisivamo i veicoli, tutte le auto che passavano. A trecento metri da noi, dei ragazzini hanno dato avvio a una piccola dimostrazione. Ci tiravano delle pietre, ma anche se sono arrivati a una decina di metri di distanza, non ci hanno colpito. Hanno cominciato a insultarci e via dicendo. Nel frattempo si era riunita una folla. Ovviamente, a questo punto abbiamo puntato le nostre armi contro di loro – possiamo definirla autodifesa.
A cosa serviva il checkpoint?
Semplicemente a mostrare la nostra presenza, a i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. Nota su Breaking the Silence
  7. Nota su La nostra cruda logica
  8. Introduzione
  9. Parte prima: Prevenzione: l’intimidazione della popolazione palestinese
  10. Parte seconda: La separazione: controllo, espropriazione e annessione
  11. Parte terza: Il tessuto vitale: l’amministrazione della vita civile dei palestinesi
  12. Parte quarta: L’imposizione della legge: un doppio regime
  13. Glossario
  14. Ringraziamenti