I. La libertà attraverso il diritto
Se ti sospinga mai la fortuna sui lidi d’un popolo ignoto e se brami tu sapere se il brillante giorno della coltura ivi dispanda la sua benigna luce, o pur se le tenebre dell’ignoranza e della barbarie l’ingombrino d’orrore, […] apri il suo codice penale: e se ritrovi la sua libertà civile garentita dalle leggi, la sicurezza e la tranquillità del cittadino al coverto della prepotenza e dell’insulto, francamente conchiudi ch’egli sia già colto e polito1.
Con queste immaginifiche ipotesi, l’illuminista napoletano Francesco Mario Pagano (1748-1799) introduceva il lettore alle sue Considerazioni sul processo criminale (1787)2. L’opera – snella e affilata come si conviene a un pamphlet giuspolitico – coglieva e rappresentava in tutta la sua pienezza la politicità del diritto penale. Dal suo assetto, avvertiva Pagano, dipende la posizione dell’individuo di fronte all’autorità. Nella rete delle sue norme è immediatamente misurabile lo spazio della libertà. Le proibizioni legali sono necessarie alla convivenza civile, ma la loro latitudine può ben oltrepassare il criterio della necessità. Le pene sono minacciate dal legislatore per prevenire la violenza dei delitti, ma la loro violenza rappresenta una temibile minaccia per i consociati. Scudo potente ma tagliente, il potere punitivo può ferire quanto le armi da cui difende.
È questo genere di approccio al diritto penale a caratterizzare la riflessione giusfilosofica degli illuministi nella seconda metà del XVIII secolo. E in questo genere di approccio al diritto penale riecheggiano nitidamente le ideemadri di Montesquieu. Priva di una sistemazione organica (ma non di un’intima coerenza), la dottrina penalistica montesquieuiana prende forma attraverso tesi, definizioni, ragionamenti e osservazioni che si susseguono e si richiamano in vari luoghi dell’Esprit des lois. La sua dimensione assiologica si profila con la massima evidenza nel libro XII, intitolato «Delle leggi che determinano la libertà politica nel suo rapporto col cittadino» e concettualmente collegato al libro XI, concernente le «leggi che determinano la libertà politica nei suoi rapporti con la costituzione»3. Il trait d’union tra i due libri è costituito proprio dalla nozione di «libertà politica», che Montesquieu si premura di distinguere da altri concetti di libertà4. Innanzitutto dalla libertà democratica, cioè dal diritto del popolo all’autode-terminazione politica, che, essendo un potere, non va «confuso […] con la libertà»5. In secondo luogo, dall’indipendenza, che è una situazione esistenziale del tutto diversa dal genere di libertà cui possono aspirare gli individui che vivono nella pólis: «vale a dire in una società nella quale esistono delle leggi»6. Infine dalla «libertà filosofica», ovvero dall’autonomia morale, che «consiste nell’esercizio della propria volontà»7. L’espressione libertà politica, nel lessico personale di Montesquieu, designa l’immunità soggettiva da costrizioni e impedimenti arbitrari: un’immunità di natura giuridica da cui dipende la possibilità di agire indisturbati entro la sfera del non vietato e del non vincolato.
Lessico personale, si è detto, poiché le parole e le locuzioni chiave del discorso di Montesquieu sono quasi tutte ridefinite (benché non sempre in maniera perspicua) e tendenzialmente mondate dalle ambiguità semantiche proprie degli usi correnti (benché non manchino oscillazioni di significato nei 31 libri dell’Esprit des lois)8. Va notato che, prima del 1748, l’espressione libertà politica non era molto frequente nella letteratura francese. Sintomatico è il fatto che essa non compaia neppure una volta in quella smagliante eulogia della società aperta che sono le Lettres philosophiques (1734) di Voltaire (1694-1778). Del resto, anche nelle Lettres persanes la si cercherebbe invano, così come nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains (1734) dello stesso Montesquieu9. Nei rari testi in cui è dato rinvenirla, essa è declinata in relazione alle categorie di: a) popolo, b) Stato, c) individuo. Nel primo caso, designa l’autonomia politica; nel secondo, l’indipendenza rispetto al potere di sovrani stranieri; nel terzo, il complesso delle libertà soggettive garantite dal diritto. È a partire da quest’ultima accezione che Montesquieu modella la sua nozione di libertà politica come situazione giuridica di chi non può essere costretto «a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quelle che la legge gli permette»10.
Benjamin Constant (1767-1830), campione della libertà dei moderni11, ha osservato che Montesquieu, «nella sua definizione della libertà, ha ignorato tutti i limiti dell’autorità sociale»12. Facendo dipendere la libertà degli individui dall’autorità delle leggi, infatti, egli avrebbe trascurato di precisare ciò che le leggi possono o non possono legittimamente vietare13. Pertinente in relazione all’angusta formula montesquieuiana per cui «la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono»14, tale critica si rivela infondata alla luce dei molteplici aspetti della dottrina della libertà politica articolata nell’Esprit des lois.
Agli antipodi dell’idea hobbesiana secondo cui la libertà vive nel silentium legis15, Montesquieu accoglie e sviluppa il paradigma lockiano della «libertà garantita da leggi»16. Nell’orizzonte di questa concezione, la libertà è considerata inattingibile in assenza di norme cogenti ed esperibile solo in contesti giuridici idonei ad assicurare le aspettative di non lesione degli individui17. Tali aspettative, nella prospettiva di Locke, riguardano la tutela della vita, dell’integrità fisica e della facoltà di disporre della propria persona, delle proprie azioni e dei propri beni18. Simili contenuti – come si vedrà – sostanziano pure il concetto montesquieuiano di libertà, la cui valorizzazione politica, non a caso, implica l’istanza della limitazione giuridica del potere. Ciò spiega il giudizio storico di Voltaire, il quale – al di là delle ripetute e compiaciute stoccate satiriche19 – riconosce a Montesquieu il merito di aver restituito «alla natura umana i suoi titoli», avendo «ovunque» ricordato «agli uomini che essi sono liberi»20.
Senza eccessive forzature, si può dire che Montesquieu denomina libertà politica ciò che gli scrittori del tardo Illuminismo e della Rivoluzione francese chiameranno libertà civile21. La sua ridefinizione della locuzione, in effetti, non ebbe grande seguito. Recepita pedissequamente nell’Encyclopédie22, fu rapidamente abbandonata nel momento in cui sorse la necessità di distinguere la classe dei diritti politici da quella dei diritti civili23. Peraltro, anche l’espressione libertà civile ricorre nell’Esprit des lois24. Il suo impiego, però, non concerne la configurazione dei rapporti tra individuo e autorità politica, bensì l’ordinamento delle relazioni tra soggetti privati. Come categoria opposta a quella di schiavitù/servitù, essa denota lo status di chi è immune dal dominium di un padrone25.
Riflettendo sui fattori da cui dipende la libertà – prodotto raro e prezioso dell’organizzazione sociale – Montesquieu sottolinea, innanzitutto, il valore della certezza del diritto. Se non siamo in grado di prevedere le conseguenze giuridiche delle nostre e delle altrui azioni, se non è chiara la linea di confine tra il lecito e l’illecito, se non possiamo agire nella sicurezza di non dover temere sanzioni, allora non siamo veramente liberi. Ma come contrastare l’incertezza giuridica che infirma la nostra libertà («questo bene che rende possibile il godimento degli altri beni»26)? La risposta di Montesquieu ha il nitore (e la problematicità) delle affermazioni di principio: occorre che le decisioni dei tribunali siano basate su norme precostituite, poiché quando «i giudizi» non corrispondono a «un testo preciso della legge», ma derivano dall’«opinione particolare del giudice», si vive «nella società senza sapere esattamente gli impegni che vi si contraggono»27. Ecco perché, «nei suoi rapporti con la costituzione», la libertà necessita di una fondamentale garanzia istituzionale: la separazione della funzione legislativa dalla funzione giurisdizionale.
A conferire grande rilievo al problema della separazione dei poteri era stato proprio John Locke, con la sua influente dottrina dello Stato sub lege28. Giusta questa visione, il potere politico, per quanto necessario alla regolare convivenza civile, rappresenta una permanente e temibile minaccia di soprusi e prevaricazioni a danno dei soggetti. Per arginare la sua intrinseca vocazione dispotica – connessa a costanti inclinazioni umane provate dall’esperienza – le sue articolazioni funzionali devono essere separate e affidate alla competenza di attori istituzionali diversi29. Nell’organizzazione interna della società politica, Locke distingue nettamente due funzioni potestative: quella di «prescrivere il modo in cui la forza dello Stato dovrà essere usata per la salvaguardia della comunità e dei suoi membri»30 e quella di «presiede[re] all’esecuzione delle leggi»31mercé l’uso della forza pubblica32. La concentrazione di questi due poteri nel medesimo organo istituzionale genera un’autorità irresistibile e apre la strada al governo arbitrario. Per questo, il fine socia...