XII. Il finanziamento delle università
di Antonio Banfi e Gianfranco Viesti
1. Introduzione.
Questo capitolo ha l’obiettivo di analizzare l’ammontare e i criteri di allocazione fra le sedi del finanziamento del sistema universitario nazionale nel corso degli ultimi anni. Al tempo stesso ha l’obiettivo di valutare – almeno in parte – l’impatto di queste regole, soprattutto da un punto di vista territoriale. Le principali conclusioni cui si giunge sono le seguenti. Sin dalla nascita (1993), il Fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo) presenta alcune contraddizioni di fondo: esso consolida lo status quo dell’allocazione di fondi all’università, attraverso la definizione della cosiddetta «quota storica»; si presenta come veicolo di finanziamento omnibus all’interno del quale fare ricadere sia gli interventi per il funzionamento sia allocazioni «premiali», ponendo le premesse per una perniciosa mescolanza di ambiti fra loro assai diversi. Fino al 2008 la dimensione del fondo cresce, e la ripartizione non mostra grandi squilibri, anche se aumentano le quote relative degli atenei del Nord e del Sud, rispetto a quelli del Centro e delle Isole.
Con i provvedimenti presi a partire dal 2008, e in particolare con la cosiddetta Riforma Gelmini (legge 240/2010), il quadro cambia. L’investimento pubblico nelle università si riduce drasticamente. Il Ffo diminuisce notevolmente fino a tornare, in valori reali, ai livelli di metà anni novanta. Sul totale delle entrate degli atenei diminuisce sensibilmente il peso delle risorse attribuite dal Miur (e in particolare del Ffo), a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del paese.
Il Ffo, in forte contrazione, viene poi ripartito in modo assai diverso rispetto al passato. Viene suddiviso, principalmente, in una «quota base» del finanziamento, fortemente decrescente in valore assoluto e come peso sul totale, e in una «quota premiale», crescente. La definizione e l’utilizzo dei criteri «premiali» (il cui peso arriva al 20% del Ffo nel 2015) seguono un indirizzo opposto a quello raccomandato dalla European University Association per questo tipo di interventi. In un quadro di forte riduzione del finanziamento complessivo, i criteri non svolgono una funzione «premiale» (aumento delle risorse per gli atenei ritenuti «virtuosi») ma determinano solo una diversa modulazione dei tagli imposti dalle scelte complessive di finanziamento. La stessa definizione di «premiale» appare discutibile: si tratta di una scelta discrezionale di differenti criteri di riparto.
Fra il 2008 e il 2015 vengono utilizzati 22 indicatori diversi, che cambiano – in misura rilevante – tutti gli anni. Sono sempre definiti univocamente dal ministero anno per anno, dopo aver avuto a disposizione i relativi dati degli atenei. Il sistema è barocco: nel 2015, per stabilire l’allocazione dell’intero Ffo vengono variamente combinati 52 dati per ogni università. Molti di questi indicatori sono influenzati dalle condizioni dei contesti in cui si collocano le università: non a caso sono stati talvolta introdotti correttivi «territoriali», ma di modesto impatto. Molti – come quelli relativi alla «qualità» della ricerca – sono influenzati, oltre che dalle modalità di calcolo, anche dalle dotazioni di partenza, umane e strumentali, degli atenei.
La quota base di finanziamento scende dai 6,7 miliardi del 2008 ai 4,9 del 2015. A partire dal 2014 una percentuale crescente (25% nel 2015) della quota base è attribuita non più con riferimento ai dati del passato («storici») ma calcolando il «costo standard di formazione per studente in corso». Tale modifica appare opportuna, alla luce delle distorsioni evidenti del finanziamento storico; tuttavia può produrre fenomeni negativi, anche di abbandono degli studi. La modalità di calcolo del costo standard andrebbe rivista; riferendosi esclusivamente agli studenti «regolari», sfavorisce gli atenei collocati in contesti deboli, nei quali le competenze medie degli immatricolati sono più contenute e i tempi di laurea maggiori. Non a caso viene inserito un correttivo «territoriale». Ma esso si rivela ancora una volta di impatto assai modesto.
L’impatto di queste norme ha avuto effetti drammatici per molti atenei. In linea generale esse hanno relativamente «protetto» gli atenei del Nord del paese (ma non tutti), il cui complessivo Ffo scende solo del 4,3% fra il 2008 e il 2015. Ben più severi sono stati i tagli per le università del Centro e del Sud (quasi del 12%) e soprattutto per quelle delle Isole, il cui finanziamento si è ridotto di circa un quinto, sempre a valori correnti. Nel giro di sette anni, l’Università di Messina ha avuto un taglio del 22,7%; il Ffo di Roma-Sapienza si è ridotto di 106 milioni. Nell’insieme i grandi atenei sono stati colpiti più dei piccoli.
Sempre nello stesso periodo, in un quadro in cui il personale docente delle università si è parallelamente, drasticamente ridotto, le possibilità per i singoli atenei di sostituire i docenti usciti dal servizio (turn over) si sono differenziate. Esse sono infatti state fatte dipendere da complicati, e ancora una volta mutevoli, indicatori di natura finanziaria: con una scelta politica di grande rilevanza sono stati premiati in modo particolare gli atenei con il maggiore gettito dalla tassazione studentesca. Il turn over, complessivamente modesto, è stato asimmetrico fra sedi: fra il 2012 e il 2015 in alcune si è aggirato intorno al 10%; in altre ha superato il 100%. Ancora una volta queste norme hanno colpito in modo particolare gli atenei del Centro-sud.
Tutte queste scelte hanno un effetto cumulativo. Ciascuna rinforza l’altra, determinando nel tempo effetti sempre nella stessa direzione e di intensità crescente. Ha messo ormai già in discussione la complessiva offerta formativa di molti atenei del Centro-sud (e di alcuni, periferici, del Nord). L’analisi condotta in questo capitolo suggerisce in conclusione un deciso ripensamento di questi meccanismi. In particolare viene suggerito il ripristino di una sufficiente quota di finanziamento per tutti gli atenei, a copertura delle funzioni di didattica e di ricerca di base, con riferimento a un criterio di costo standard (corretto rispetto a quello utilizzato), stabile nel tempo; subordinata a garanzie e verifiche sulla qualità dell’insegnamento. E l’allocazione di risorse aggiuntive, finalizzate alle grandi priorità di ricerca del paese, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, ovvero, assai più semplicemente, utilizzando meccanismi competitivi.
2. La nascita del Fondo di finanziamento ordinario.
La legge istitutiva del Ffo, già nel 1993, mostra le tracce di alcune incoerenze e della mancanza di una visione complessiva del sistema di finanziamento. Infatti, se da un canto si procede a consolidare lo status quo (attraverso la quota base, detta altrimenti quota storica), si prevede poi una quota di «riequilibrio», allocata secondo una pluralità di criteri. Criteri che lasciano intendere, in nuce, la volontà del policy maker di adottare strumenti lato sensu valutativi, quali ad esempio il raggiungimento di «obiettivi di qualificazione della ricerca» (legge 537/1993, art. 5 co. 3). Il legislatore, come si vede, si esprime in termini molto vaghi, ma in tal modo prepara la strada per successivi interventi.
Per certi versi, si direbbe che nel 1993 non si sia avuto il coraggio di intervenire in modo deciso sul governo del sistema, limitandosi a rinviare il problema, con il risultato di contribuire a consolidare ulteriormente le criticità e di rendere più dolorosi gli interventi successivi. D’altra parte, ed è questo un punto particolarmente importante, la legge istitutiva del Ffo consolida un equivoco fondamentale, che ancora oggi caratterizza il governo dal centro del sistema dell’università e della ricerca: infatti, la quota base di riparto avrebbe dovuto essere assegnata anche sulla base di criteri quantitativi o qualitativi in qualche modo connessi alla performance degli atenei, in particolare (ma non solo) in materia di ricerca. Tuttavia ciò è in contraddizione con la natura stessa di un fondo destinato al «finanziamento ordinario». L’errore, insomma, è quello di far ricadere in un unico contenitore fondi necessari al «funzionamento» e fondi che avrebbero potuto avere una natura in qualche modo «premiale».
Tutto ciò deriva anche dal fatto che, nel nostro ordinamento, i docenti universitari hanno istituzionalmente sia compiti di didattica che di ricerca: e poiché una larghissima parte del Ffo è destinata già allora a coprire i costi del personale, con la legge 537/1993 si pongono le precondizioni per una perniciosa confusione fra ambiti diversi: costo e sostenibilità del personale, qualità della ricerca, qualità della didattica. Meglio sarebbe stato, fin da allora, prevedere due diversi canali di finanziamento: uno destinato, appunto, alle spese ordinarie; un altro, con funzione premiale e incentivante, destinato a un’allocazione il più possibile efficace dei fondi per la ricerca.
Nel 1993 si sceglie, purtroppo, di non distinguere obiettivi e strumenti per il loro raggiungimento: una scelta che ha segnato il sistema fino a oggi. D’altra parte, consolidando la quota «storica» in assenza di un’analisi complessiva, si pongono le premesse affinché la gestione del sistema universitario passi in primo luogo attraverso una ridefinizione della principale voce di costo, ossia quella per il personale: cosa che è puntualmente avvenuta e – ancora una volta – in modo generalizzato e in assenza di un quadro complessivo capace di assicurare un governo consapevole e mirato (Paleari e altri 2014). Fino al 2008 i criteri di allocazione del Ffo subiscono diversi mutamenti, nel tentativo di introdurre dinamiche «virtuose» anche di carattere competitivo e di sterilizzare gli squilibri determinati dalla «quota storica». In questo quadro sono elaborati diversi modelli di allocazione, che tuttavia non sfuggono al problema dell’assimilazione in un unico contenitore di aspetti fra loro assai eterogenei.
Complessivamente il Ffo, espresso a valori correnti, cresce da 4,6 miliardi nel 1996 a 7,2 miliardi nel 20081 (+55,1% a valori correnti). A esito dei diversi indicatori di riparto utilizzati, l’incremento è maggiore nelle circoscrizioni Nord e Sud, rispetto al Centro e soprattutto alle Isole. Per valutare questi dati si può confrontare il peso percentuale delle quattro circoscrizioni sulle allocazioni Ffo del 1996 e del 2008 con quello sul totale degli studenti (tabella 1).
Si scopre così che le regioni del Nord partono da una situazione in cui il loro Ffo è inferiore al peso sul totale studenti e arrivano nel 2008 con una situazione invertita. Il contrario accade alle Isole, che ricevono nel 1996 una quota Ffo maggiore rispetto alla loro quota studenti e nel 2008 una quota lievemente inferiore. Inalterata la situazione del Centro, con una quota Ffo lievemente superiore, mentre il Sud vede accrescere lo scarto negativo – a causa del forte aumento del numero degli iscritti – fra la quota Ffo e il peso sul totale degli studenti. Se si prende il rapporto Ffo/studenti come indicatore di massima, quindi, al 2008 gli atenei del Nord appaiono mediamente sovrafinanziati e quelli del Sud sottofinanziati2. Ma il sistema presenta grandi disparità fra atenei, anche all’interno delle circoscrizioni (Banfi - Viesti 2015). A fronte di un valore medio nazionale di 4284 euro per studente si va dai 15 374 dell’Università per stranieri di Siena ai 2192 di Napoli Parthenope; il Politecnico di Milano riceve 5770 euro per studente, quello di Torino 4653 e quello di Bari 3538. Ricevono un finanziamento per studente superiore alla media italiana l’80% degli atenei al Nord, il 62,5% al Centro, il 40% nelle Isole e il 12,5% al Sud.
Tabella 1. Allocazioni Ffo, 1996 e 2008 (valori in milioni di euro).
Fonte: Fiegna 2009 e dati Miur.
3. La Riforma Gelmini.
Le grandi trasformazioni degli ultimi anni hanno inizio con la legge 133/2008 (Tremonti) che riduce drasticamente le risorse per il sistema universitario. Segue la Riforma Gelmini approvata a fine 2010. Nata – nelle intenzioni dichiarate – per assicurare una buona autonomia universitaria, si traduce in un provvedimento per molti profili iper-regolante e centralizzatore. La nascita dell’Agenzia nazionale di valutazione, destinata ad avere un ruolo determinante per quel che concerne il finanziamento del sistema, comporta poi uno svuotamento delle responsabilità e del ruolo di indirizzo politico del ministero, contribuendo così ad accentuare, almeno per certi versi, la crisi del sistema.
La complessa struttura, che comprende accreditamento, valutazione nazionale, ma anche ridefinizione delle procedure di autovalutazione operate dagli atenei, si accompagna all’introduzione di meccanismi incentivanti e disincentivanti, finalizzati appunto al raggiungimento degli obiettivi. Ciò non poteva che passare per ...