L'arena del duce
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Storia del Partito nazionale fascista a Verona

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Storia del Partito nazionale fascista a Verona

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«Niente cannibalismo e niente politica» era la frase che amava ripetere il federale Giuseppe Frediani, giunto alla guida della federazione fascista veronese nel maggio 1934. Un motto semplice, schiettamente fascista, che nella sostanza riassumeva i nuovi sistemi di gestione del partito voluti da Mussolini e da Achille Starace, tesi a eliminare ogni residuo di politica liberal-democratica che minacciava di riproporsi, nel sistema a partito unico, come «cannibalismo» e «lotta di fazione». La vicenda del Fascio scaligero, detto anche «Terzogenito» perché nato dopo quelli di Torino e di Genova, fu infatti caratterizzata dal «beghismo» e da lotte intestine al partito e prese corpo nelle piazze della città e della provincia veronese, uscite esangui dalla prima guerra mondiale per merito di uno sparuto gruppo di diciannovisti, fascisti della prima ora, che accolsero e imposero con la forza il verbo mussoliniano. Da lì gli eventi si dipanano passando attraverso la fascistizzazione della società e le dinamiche del consenso. Un consenso plasmato da una classe dirigente periferica rissosa, talvolta corrotta, spesso incapace e arrivista, che fece scempio delle fragili strutture dello Stato liberale. Paragrafo dopo paragrafo, il racconto fotografa i gravi episodi di conflittualità interna, frutto di una deleteria mescolanza tra le peggiori spinte personalistiche dei leader e le motivazioni politico-affaristiche legate al controllo del territorio. In effetti, il fascismo veronese, al pari di molti altri fascismi provinciali, non fu mai realmente pacificato, nonostante i numerosi sforzi compiuti in tal senso dalle gerarchie nazionali.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435172
Argomento
Historia

VI. L’apogeo del fascismo

1. Dalla periferia al centro (e ritorno): scandali politici e tensione sociale.

Il corposo «pedigree» politico del nuovo segretario federale, Agostino Podestà, insediatosi a palazzo Bocca-Trezza nel settembre 1932, lo rendeva un degno rappresentante della «seconda generazione» fascista senza però essere sprovvisto di alcuni meriti della prima ora: infatti, iscritto ai Fasci sin dal 1920, era in possesso dell’attestato di partecipazione alla marcia su Roma, si era poi laureato in scienze fisiche e aveva ottenuto il titolo di pubblicista; la sua formazione politica vera e propria però, nonostante la militanza iniziata in giovane età, era avvenuta all’interno dell’importante Gruppo universitario fascista di Pavia di cui era stato segretario tra il 1924 e il 1929. Podestà aveva inoltre fatto parte del direttorio federale di Pavia e di Alessandria, era stato segretario del Fascio della sua città natale, vicesegretario generale dei Guf nel 1931 e poi segretario federale di Avellino tra il 1931 e l’agosto 1932. All’inizio del settembre 1932, come detto, fu assegnato alla segreteria politica della Federazione veronese1. L’importanza della nomina di Podestà a federale, che rimarrà il più giovane segretario della Federazione scaligera, merita forse di essere posta in rilievo innanzitutto perché costituì uno scarto politico inedito e un autentico «smacco» morale per i fascisti veronesi costretti a subire, è il caso di dirlo, per la prima volta, un segretario non autoctono. Si trattò, è evidente, dell’ennesima prova dell’incapacità, o comunque della grande difficoltà, del fascismo «Terzogenito» di formare e proporre nuova classe dirigente al di fuori, s’intende, dei vecchi circuiti notabilari cittadini.
Il compito che il nuovo federale di origini piemontesi si accingeva ad assolvere era però tutt’altro che agevole. Nel Veronese anche gli anni trenta saranno caratterizzati dal continuo palesarsi di tensioni sociali e politiche tali da non lasciare adito a dubbi in merito alla scarsa coesione della classe dirigente fascista. E che fosse in primo luogo il partito ai livelli più bassi e periferici a presentare delle crepe, alcune delle quali anche molto gravi, Podestà poté rendersene conto già qualche settimana dopo la sua nomina quando si trovò a dover affrontare assieme al prefetto Miranda una delle vicende politiche forse più controverse dai tempi della guerra «fratricida» Bresciani-Grancelli. La ricostruzione analitica dei principali fatti di questa singolare querelle nella quale motivazioni politiche, interessi economici e personalismi di ogni sorta si combinarono assieme in un mix deleterio per la tenuta complessiva del partito, aiuterà forse ad avere un quadro dei caratteri e della qualità della lotto apolitica nel Veronese e della gestione del potere durante gli anni trenta.
Tutto ebbe origine nel piccolo borgo agricolo di Villa Bartolomea, situato all’estremo sud della provincia, quando, nella tarda estate del 1932, si diffuse la notizia che il maestro elementare Aldo Crivellente era stato denunciato all’autorità giudiziaria in seguito ad alcune gravi imputazioni di malversazioni e abusi. Ad accusarlo erano stati i soci di una cooperativa di lavoro di cui egli era segretario. Crivellente aveva fattivamente contribuito allo sviluppo del fascismo fin dal 1921 quando era stato uno dei comandanti della temuta squadra d’azione «Me ne frego», fondata dall’amico e sodale Plinio Mutto e si era in seguito ritagliato un ruolo politico non del tutto secondario nelle organizzazioni collaterali del Pnf locale divenendo anche centurione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale2. Egli, insomma, rappresentava al meglio quel nuovo ceto dei cosiddetti «professionisti della politica» che fin dall’inizio il regime aveva deciso di reclutare: «Un personale politico e burocratico nuovo» che trovò «lavoro nel partito, nei sindacati, in tutte le organizzazioni collaterali» e che finì «per identificare la causa della propria carriera individuale con quella della dittatura»3.
Non appena venuto a conoscenza della accuse mosse contro Crivellente, il provveditore agli studi del Veneto Umberto Renda, obbedendo a criteri di opportunità politica, trasferì immediatamente il maestro nella scuola elementare di Marano Vicentino. Il primo atto, dunque, di questa vicenda sembrerebbe limitato alla scena politica locale, rinchiuso fra le vicende del piccolo borgo agricolo di Villa Bartolomea. Sennonché, in difesa del maestro Crivellente, si levò quasi subito la protesta dell’onorevole legnaghese Valerio Valery, il quale scrivendo direttamente al provveditore, asserì con toni piuttosto accesi l’assoluta inammissibilità di un provvedimento che non solo allontanava dal proprio posto di lavoro un professionista, sulla base di semplici accuse, che in ogni caso a suo dire erano destituite di qualsiasi fondamento, ma risultava altresì deleterio per la reputazione e l’onore dello stesso maestro di Villa Bartolomea. Per Valery l’intromissione del provveditore che aveva preteso di sanzionare la «pubblica disistima» di Crivellente era inaccettabile perché sia
il podestà4, che il commissario del Fascio, che i sacerdoti locali, che il presidente della Onb, che gli ufficiali della milizia, che i maggiorenti del paese, quali ad esempio il Cav. Uff. Plinio Mutto ex segretario federale fascista di Verona, già podestà del comune di Villa Bartolomea, attualmente Ispettore del partito alle miniere di Adria, che l’ingegnere comunale Eleuterio Mutto Accordi, che il direttore locale delle scuole maestro Chieregato Luigi ed altre persone non furono mai interrogate in proposito.
Ma soprattutto, chiosò Valery, «non fu mai interrogato […] lo scrivente che notoriamente si sa essere il fondatore e il conoscitore di tutte le sezioni fasciste dei comuni del basso veronese»5. La posizione assunta da Valery è molto interessante perché, da un lato, consente di intuire le trame e le relazioni che costituivano il nutrimento principale del partito a livello periferico, un partito che mal tollerava le ingerenze esterne, e, dall’altro, rivela la presenza di un solido asse politico creatosi tra Legnago e Villa Bartolomea, ovvero tra Valery e Mutto, due esponenti di primo piano del Pnf scaligero. D’altra parte non bisogna sottovalutare l’importanza, nella tenuta politica complessiva del partito, di figure come quella del maestro Crivellente che assommavano sulla propria persona numerosi incarichi – maestro elementare, centurione della Milizia, organizzatore della gioventù fascista nella plaga legnaghese e segretario di un’importante Cooperativa di lavoro – in grado di garantire, nel concreto, il controllo del territorio.
I due fondatori dello squadrismo della Bassa – Valery e Mutto –, nell’intraprendere la loro battaglia a sostegno di Crivellente, poterono contare sull’appoggio iniziale del «fascistissimo» prefetto Luigi Miranda il quale, il 14 settembre, scrisse personalmente al provveditore pregandolo di «esaminare con ogni benevolenza la possibilità di sospendere il trasloco dell’insegnante Aldo Crivellente, che ha uno splendido passato fascista». D’altra parte, garantiva il prefetto, le imputazioni non avevano per nulla «scosso» il suo «prestigio personale»6. Due giorni dopo il provveditore, «in attesa dell’esito del giudizio penale», dispose la sospensione del trasferimento di Crivellente7.
Giunti a questo punto è opportuno compiere un passetto indietro, rispetto agli eventi che si stanno raccontando, per aggiungere un piccolo ma importante tassello alla vicenda Crivellente. Nel marzo 1932, il podestà di Villa Bartolomea Cesare Tonetti, di origini legnaghesi e vicinissimo a Valery, scrisse sia all’allora federale Bernini Buri, sia in seguito al prefetto, lamentandosi del fatto che l’ex sindaco socialista di Verona Albano Pontedera, da qualche tempo trasferitosi a Legnago, si faceva «vedere di continuo a Villa Bartolomea dove [frequentava] quelli che sono stati i capi più accesi del bolscevismo locale […] tutti irriducibili socialisti». I fascisti del luogo – continuava Tonetti – erano un po’ in «fermento» perché temevano un suo coinvolgimento nella «levata di scudi» che si era verificata in seno a una cooperativa locale, la stessa la cui segreteria era tenuta da Crivellente. Tonetti chiese allora «la nomina e l’invio» di un commissario da porre «a capo» della cooperativa per vedere «come stanno le cose». Anche perché Tonetti aveva
l’impressione che con la scusa di colpire Tizio e Caio, si sia di fronte ad una insurrezione di sovversivismo. Si accusa Crivellente, ma a parte il fatto che io ritengo di trattarsi di calunnie, penso sia necessario e doveroso indagare e andare fino in fondo: allora, o Crivellente è colpevole e si provvederà contro di lui, o Crivellente è innocente e allora si provvederà con le dovute sanzioni contro i calunniatori e gli agitatori. Attendere ancora senza pericolo non è possibile8.
L’esposto di Tonetti è importante perché aiuta a illuminare alcuni angoli bui della vicenda: le tensioni politiche e sociali nel piccolo comune di Villa Bartolomea, che avevano avuto origine ben prima della formalizzazione delle accuse a Crivellente, erano causate dalla presenza in seno alla Cooperativa di lavoro di elementi giudicati – dai fascisti, s’intende – dei «sovversivi». Le preoccupazioni di Tonetti in merito a una possibile «insurrezione di sovversivismo» erano state quasi certamente esagerate ad arte, come sembrerebbero confermare le indagini dei carabinieri dalle quali emerse che non era «assolutamente vero che il prof. Pontedera si rec[asse] a Villa Bartolomea a scopo politico». In realtà, i militari avanzarono l’ipotesi che all’avvocato Tonetti infastidisse la presenza di Pontedera a Villa Bartolomea puramente per questioni lavorative. Si tratta ovviamente di valutazioni sulle quali non è possibile dire nulla in merito. Tuttavia, le preoccupazioni di Tonetti potevano benissimo descrivere una dinamica socio-economica non così lontana dalla realtà. È molto probabile, infatti, che all’interno delle varie cooperative di lavoro o di consumo disseminate in tutta la provincia, nate ben prima dell’avvento al potere del fascismo e che costituivano un imponente sistema di relazioni economiche, avessero finito per confluire elementi – ex socialisti soprattutto, ma anche ex popolari – che in parte si mantenevano estranei al fascismo e in parte vi avevano aderito invece solo formalmente talvolta semplicemente per non perdere una posizione lavorativa. Si trattava, in altri termini, dell’onda lunga di un processo, iniziato fin dal 1921, di repentina, e forse anomala e quindi solo epidermica, adesione al partito di Mussolini di un tessuto sociale in grande prevalenza non fascista.
Il secondo atto del «caso Crivellente» si consumò il 18 dicembre 1932, quando il federale Agostino Podestà, nel corso di un viaggio ispettivo nel Sud della provincia, presenziò ad alcune assemblee generali dei Fasci, e ovviamente anche a quella svoltasi a Villa Bartolomea. Nel corso dell’adunata chiese la parola Giovanni Ferrarin, nato a Villa Bartolomea ma residente da tempo a Verona dove era impiegato presso l’Unione dei sindacati dei lavoratori agricoli e quindi giunto nella Bassa di proposito, il quale attaccò violentemente un altro fascista del luogo, Benedetto Ghedini, ex podestà ed ex segretario politico del Fascio locale, nella cui abitazione, secondo quanto si diceva, «avevano luogo frequenti riunioni di “sovversivi” all’unico scopo di danneggiare il maestro Aldo Crivellente»9. La dura invettiva accese la bagarre in sala: chiese subito la parola un altro fascista, questa volta per attaccare il maestro Crivellente, riversandogli addosso gravi accuse circa il suo lavoro di dirigente della cooperativa locale. A quel punto, però, intervenne anche il federale Podestà, resosi evidentemente conto della gravità delle tensioni in atto, manifestando il proposito «di intervenire energicamente per risanare il fascismo di quel paese che gli apparve fortemente inquinato da elementi deleteri». Tuttavia, una volta
sciolta l’assemblea avvenne che lo stesso Ferrarin Giovanni, aggredì, con parole e vie di fatto, un tale Ghellere Rinaldo, di anni 65, che pacificamente transitava per la strada, siccome è uno dei più tenaci accusatori del Crivellente10.
Gli eventi del 18 dicembre erano indubbiamente molto gravi. Non soltanto perché accaduti in una circostanza ufficiale, ovvero la visita del segretario federale, ma soprattutto perché avevano palesato nella maniera più deleteria possibile le tensioni e le fratture politiche del Fascio di Villa Bartolomea. Anche se, ed è questo il punto centrale, erano mesi che circolavano le voci del conflitto interno alla Cooperativa di lavoro.
Il prefetto – e qui inizia il terzo atto –, preoccupato, mandò a Villa Bartolomea un proprio funzionario incaricato di raccogliere informazioni dettagliate circa le condizioni politiche del paese11. Miranda, che di primo acchito e senza verificare i fatti si era schierato dalla parte di Crivellente, facendone revocare il trasferimento allo scopo, spiegherà poi, di tutelare il buon nome della Milizia, nei giorni successivi ai gravi fatti del 18 dicembre aveva lentamente iniziato a cambiare atteggiamento. Peraltro, il 22 dello stesso mese, il procuratore del re gli scrisse che «i numerosi testi sentiti [avevano] offerto gravi elementi di responsabilità a carico [di Crivellente], rendendo anche necessario l’allargamento delle indagini ad altri fatti»12. Il prefetto, dinanzi agli elementi emersi dalle indagini, agì di conseguenza avvertendo lo stesso giorno il comando della Milizia veronese e il segretario federale13. Non solo, quello stesso 22 dicembre scrisse anche al provveditore agli studi Renda spiegando che, sebbene egli avesse in un primo tempo assunto un atteggiamento garantista, per non ledere il prestigio della Milizia, non era «purtroppo» «in grado di confermare oggi questa constatazione, dovendo anzi rilevare che la pubblica stima si è gradatamente allontanata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione di Emilio Franzina
  5. Prologo. Un uomo arriva dal cielo
  6. I. Il fascismo veronese prima della marcia su Roma
  7. II. Assalto allo Stato. 1922: l’anno della «ricostruzione nazionale»
  8. III. Il fascismo veronese nella seconda metà degli anni venti
  9. IV. Gli anni del «consenso»: un inizio difficile
  10. V. Fascismo e società veronese
  11. VI. L’apogeo del fascismo
  12. Epilogo. Una città e il suo duce