L'arcipelago del vivente
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L'arcipelago del vivente

Umanesimo e diversità in Elias Canetti

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L'arcipelago del vivente

Umanesimo e diversità in Elias Canetti

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«L'imparare deve rimanere un'avventura, altrimenti è nato morto. Ciò che impari di momento in momento deve dipendere da incontri casuali, e bisogna che continui così, da incontro a incontro, un imparare nelle metamorfosi, un imparare nel piacere».Per Elias Canetti – scrittore e intellettuale bulgaro di nascita, ebreo sefardita d'origine, tedesco per destino, e poi inglese d'adozione, europeo per vocazione, cosmopolita, apolide e migrante nell'anima – la conoscenza è un piacere mentale e fisico, un piacere che ci modifica, se è libero, e che investe ogni parte della nostra esperienza vitale. Dentro un laboratorio di scritture brevi e aforismi fulminanti, e poi in un'opera multiforme e indefinibile come poche altre, Canetti costruisce una nuova idea di umanesimo, aperta a tutto ciò che è diverso e vivente; un umanesimo libertario che ha nei mondi possibili della letteratura e del mito, nell'educazione dell'immaginario metamorfico, nell'amore per la sfera animale e nel rifiuto dei segreti sadici del potere, un presente già differente, il riscatto da uno stato di minorità e inazione che è la malattia culturale da superare. Nelle pagine di questo breve, brillantissimo saggio, il lettore troverà un attraversamento errante, non da specialista ma da «dilettante» (etimologicamente «colui che prova gioia nel compiere un lavoro»), dentro l'opera di Elias Canetti: un viaggio appassionato attraverso la scrittura di un autore il cui scopo era «sfidare il labirinto», come avrebbe detto Italo Calvino, prendere alla gola la complessità dell'esperienza umana, trovare il cammino attraverso il proprio tempo, «senza soccombergli, ma anche senza saltarne fuori».

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435189

IV. Affettuosità al potere

Non voglio incutere alcun timore, non c’è nulla al mondo di cui mi vergogni di più. Meglio essere disprezzati che temuti.
Elias Canetti, La provincia dell’uomo
La parola libertà serve a esprimere una tensione importante, forse la più importante […]. L’origine della libertà sta nel respirare […].
La libertà di respirare è l’unica che fino a oggi non sia stata realmente distrutta.
Elias Canetti, La provincia dell’uomo

1. A lezione con Canetti.

Siamo a C., protettorato meridionale, sottoprotettorato insulare.
Nella locale università studenti e docenti combattono la quotidiana e defatigante battaglia contro le ultime innovazioni governative, placide eredi di mali rimossi e annosi: crediti formativi e piani di studio, requisiti necessari e piani didattici, carenza di aule e disperazione dei precari. Nel giorno di presentazione del corso, avendo adottato Massa e potere di Elias Canetti per una classe di letteratura, può capitare di sentirsi dire da un collega stimato e con più anzianità di servizio: «È una follia, non lo capiranno mai. Nessuno legge più Canetti, nemmeno all’Università; lui è troppo complesso, i nostri studenti troppo ignoranti»; la sentenza pesa come un annuncio di temporale nei giorni a seguire. Il corso inizia e capita però che, dinanzi alla lettura lenta e meditativa, estenuante e qualitativa di quell’opera tormentata e inquietante, infine scatti – direbbe Spitzer – un clic cognitivo, una finestra si apra, succeda (al docente, alla classe) qualcosa che non si sarebbe immaginato…
Per farla breve, alla fine del corso si avvicina una studentessa e mi dice che Canetti le ha cambiato la vita; lei prima senza saperlo non faceva altro, tutto il giorno, che «fare affettuosità, troppe affettuosità, al potere». Ora non lo avrebbe fatto più. Un sano atteggiamento nei confronti dei propri studenti – a ogni livello – è quello di prepararli a tutto, di prepararli al peggio, dunque di prepararli anche a noi professori. Canetti è uno dei migliori antidoti alla sottomissione e alla rassegnazione come «regole» (oggi diffusissime) di vita che abbia incontrato nella mia carriera di docente. Ed è dunque dovuta, all’inizio del capitolo, una speciale e irrituale dedica al proposito della studentessa: no more «affettuosità», please, al potere (a nessun potere).

2. «Da man selber nichts ist»: Canetti e il «familiare» segreto del potere.

Mi convincono poco le giustificazioni etiche ed estetiche dello studio umanistico; ovvero mi convincono dentro un’accezione profondamente «presentista» dei saperi «umani», per la quale ogni lettura, più o meno vicina o lontana, si misura sulla sua capacità di capire e trasformare noi stessi e il mondo in cui viviamo. Studiare un fatto storico o antropologico significa sempre risalire alle origini dei fenomeni viventi, alla loro indeterminatezza, alla loro «apertura di possibilità», come la definiva Kierkegaard. Questo è forse ancora più vero se si vuole studiare il nesso mai sufficientemente esplorato tra l’individuo, la comunità e le forme – mutevoli e complesse – del potere.
Sono due gli eventi storico-biografici che spingono Canetti a progettare per almeno un decennio e a dedicarsi quasi interamente per oltre vent’anni agli elementi gemellati della massa e del potere: il primo è l’omicidio di Walter Rathenau, discusso e geniale imprenditore ebreo e ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, trucidato da un gruppo di terroristi nazionalisti di estrema destra nel 1922; il secondo è il rogo del Palazzo di Giustizia di Vienna del 15 luglio 1927, in seguito alle violenze della polizia e all’assoluzione dei responsabili dell’omicidio di un gruppo di operai1. Proprio in quest’ultimo evento il giovane studente di chimica fa esperienza di quello che gli appare l’elemento di base di ogni fondata riflessione sulla condizione umana: la massa, fenomeno magnetico e ambiguo, composizione di istinti brutali ed esigenze di superamento della dimensione individuale, rovesciamento dei comandi oppressivi e delle pratiche omnipervasive del potere e insieme riproposizione del potere sotto nuove e inquietanti spoglie.
Per analizzare prima la massa e poi il potere (nel corso della lunga redazione del suo celebre saggio, spesso aiutandosi con gli aforismi, le riflessioni e gli abbozzi affidati ai Taccuini) Canetti mette a punto strumenti di analisi profondamente originali se non sostanzialmente inediti: tali strumenti – pur confrontandosi con le scienze umane e naturali, dall’antropologia alla storia, dalla biologia all’etologia – sono prima di tutto (qui uno degli elementi di profonda originalità) radicalmente immanenti, prelevati dalla concreta dinamica psico-biologica dei corpi e dei gruppi; egli costruisce così una geniale, e ancora poco discussa, fisio-antropologia dell’esperienza vivente in cui ogni carattere della comunità e dell’individuo viene costantemente riportato a una basilare dinamica somatico-evolutiva: la coesione della massa ha dunque origine dalla memoria della sfera animale (teriosfera), dalla muta di caccia, dal branco in cerca della preda, e i suoi simboli sono il fuoco e l’acqua, il grano e lo sperma; o ancora, apprendiamo il potere dagli animali e la caccia del gatto al topo diviene il tavolo sperimentale su cui verificare le dinamiche della semplice forza (Gewalt) e del più complesso potere (Macht). In particolare la sezione sul potere, sul bisogno di sopravvivenza e invulnerabilità del potente, sugli organi e gli elementi del potere e sulla dinamica del comando è costruita con un’eccezionale intersezione di saperi e punti di vista (a riprova della novità e dell’urgenza, ancora oggi, dell’umanesimo del diverso di Canetti); troviamo qui insieme l’indagine storica (abbondano le testimonianze sulla cultura di corte e sulla vicenda dei nascenti Stati nell’Europa rinascimentale e moderna), la riflessione antropologica (resoconti etnologici su società non occidentali e premoderne) e un’originale etologia del vivente: la mano, i denti, la velocità del predatore, i processi di divorazione-inglobamento-assimilazione nella relazione materna (descritti con acume ed energia), sono questi gli attori «viventi» all’origine del dramma del potere e della dominazione. Nel capitolo su «Gli elementi del potere» troviamo infine un prezioso e denso paragrafo che ha per titolo «Il segreto» (Das Geheimnis), il quale costituisce, come vedremo, il fulcro stesso della riflessione canettiana sul potere:
Il segreto sta nel nucleo più interno del potere. L’azione di spiare è segreta per sua natura. Ci si nasconde o ci si mimetizza nell’ambiente circostante, restando immobili per non farsi scoprire. La creatura in agguato scompare completamente, si avvolge del segreto come di una nuova pelle e resta a lungo nel suo riparo […]. L’aggressione stessa, pur manifestandosi in modo palese per accrescere la propria efficacia con il terrore, torna a svolgersi nell’oscurità quando principia l’azione di incorporare. La bocca è oscura, lo stomaco e l’intestino sono bui. Nessuno avverte né considera ciò che accade incessantemente nel proprio interno. La maggior parte di questo processo primario di incorporazione resta un segreto (MP, pp. 350-1).
Il segreto, nucleo nascosto del potere, ha le sue origini somatiche nelle funzioni metaboliche, nel buio insondabile dell’interno corporale. La dimensione paranoica del segreto custodito dal potente, nella realtà storica, viene così descritta (come spesso accade in Massa e potere) attraverso un’avvincente serie di analogie ed esemplificazioni: dalle pratiche esoteriche degli stregoni australiani della popolazione Aranda alle memorie del presidente Schreber (che Canetti rilegge a più riprese, come vedremo, in dialettica col celebre Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia – Caso clinico del presidente Schreber, 1910, di Sigmund Freud); dal ritratto dell’infido e sospettoso Filippo Maria Visconti, duca della Milano del XV secolo, allo spietato Cosroe II, dinastia sassanide del VI secolo d.C. Il segreto si configura dunque come caratteristica chiave di ogni tirannide e dittatura; esso è infatti l’antitesi, il nemico giurato (come l’intera dimensione del potere) della metamorfosi che è per Canetti (come abbiamo visto) la funzione etologica, antropologica ed etica che fonda e pone ogni esperienza vivente sotto la sfera della libertà fisica e mentale, dell’empatia e della pietà, del diritto all’imprendibilità, alla contraddizione, alla trasformazione vitale. Se nel cuore del potere si nasconde sempre il segreto, al centro di ogni segreto cova, latente, una pulsione autoritaria.
Buona parte dell’autorità di cui godono le dittature deriva dal fatto che si concede [zubilligt] loro la forza concentrata del segreto, ripartita su molti e rarefatta nelle democrazie. Si osserva con scherno che le democrazie sono parolaie […]. Sembra che ci si lamenti per la mancanza di fermezza [Entschlossenheit]. In realtà si è delusi per la mancanza di segretezza. Gli uomini sono pronti a sopportare molte cose, se sono loro imposte con energia e in segreto [Man ist vieles zu ertragen bereit, solange es gewaltig und unbekannt daher-kommt]. Sembra che una vera e propria volontà di essere schiavi spinga, giacché di per se stessi non si è nulla [da man selber nichts ist], a finire entro un ventre possente. Non si sa ciò che veramente accada, né quando accada; altri possono avere la precedenza nel mostro. Si attende devoti, si trema e si spera d’essere la vittima prescelta [Man wartet ergeben und bebt und hofft, das auserkorene Opfer zu werden]. In questo atteggiamento è lecito riconoscere un’apoteosi del segreto (MP, pp. 356-7, con alcune modifiche).
L’inquietante riflessione di Canetti, quanto mai densa sul piano linguistico e concettuale, ha un’ampia serie di ricadute e merita dunque un’analisi attenta.
Quando si partecipa al segreto, ci ricorda Canetti, si è disposti ad accordare e «concedere» al potere ogni cosa. Perché ci si lamenta – spesso, sempre, anche oggi – delle democrazie (e qui l’esperienza storica del fallimento della Repubblica di Weimar, personalmente vissuto dall’autore, ha di certo un’influenza)? Lo si fa – almeno da un certo versante politico, culturale e mentale – perché le democrazie sono per definizione (dovrebbero per definizione essere) case di vetro, spazi «trasparenti», luoghi della cosa pubblica, dunque tendenzialmente prive di segreto e soprattutto povere (tanto più povere quanto più democratiche) di quell’elemento che un certo tipo di segreto porta con sé: ovvero di un rapporto diretto, privilegiato e fusionale col potere. Il segreto, attributo fondamentale del potere, denuncia dunque una dimensione perversa e diffusissima: quella «volontà di essere schiavi» che appartiene a uomini e donne, quella voglia masochistica di essere qualcosa di più del nulla che ci si sente, di essere parte di un tutto, di un corpo mistico che ingloba e trascende il senso di nullità impotente, frustrante e colpevole con la quale viene percepita e vissuta l’esperienza individuale. Il segreto – suggerisce Canetti – non prospererebbe se non vi fosse anche tra soggetti adulti e «consenzienti», talora in forma ambigua o inconscia, la triste convinzione che «non si è in sé nulla»; una convinzione che porta con sé – corollario inevitabile – il bisogno, l’ansia, il tremore, la speranza di essere divorati, di smettere di essere-in-sé, di assimilarsi e disciogliersi in una pancia possente (mächtigen Bauche, che è anche per antonomasia la grande pancia del potente, simbolo della capacità di contenere, assimilare, divorare che si attribuiscono i dittatori, piccoli e grandi, vicini e lontani). Il segreto racconta dunque l’altro versante del potere, oltre la volontà del potente di sopravvivere e negare la sua morte tramite la morte dell’altro; esso attesta in modo difficilmente revocabile in dubbio che il potere non è solo la sopraffazione, tremenda, del forte sul debole, ma anche il frutto di un’attesa, di un’adesione, di un piacere erotizzato di essere «a disposizione» del potente, di una «servitù volontaria» (come ricordava Étienne de la Boétie nel suo celebre Discours sur la servitude volontarie, già nel 1554), ovvero di un desiderio violento di annullamento, di un’impetuosa evocazione che promana dal basso verso l’Altro. Non è un caso che l’intero brano di Canetti sia costruito – linguisticamente e stilisticamente – in forma impersonale (Man… Man); come a suggerire che nel sacrificio volontario del sé che si opera con l’adesione al segreto il singolo rinuncia alla dimensione individuale in vista di un «bene» più alto: l’unione col padre-Potere, la fusione con un Sé di grado più alto, il ritorno a un Sé che è paradossalmente altro e stesso, diverso e medesimo.
Per confermare dunque tale lettura e penetrare ancora più addentro alla dimensione oscura del segreto del potere di cui ci parla Canetti, può essere utile indagare la vicenda stratificata e «avventurosa» del sostantivo Geheimnis, attraverso quella pratica, talora apparentemente pedante ma di certo ricca di sorprese concettuali ed emotive, che è la ricerca etimologica2. Il termine Geheimnis deriva infatti da una radice indoeuropea diffusissima, Haim, la stessa che genera il germanico haima (casa) e più tardi il tedesco heimat (patria) o l’inglese home: la casa, il luogo familiare, il suolo patrio. La prima forma aggettivale derivante da questa radice in antico alto-tedesco (Althochdeutsch, 750-1050) è heimlih, che significa «di casa», nativo, indigeno, familiare, noto, ma anche «interno», ovvero ciò che è dentro, semioticamente distinto da ciò che è fuori, da ciò che è altro, dall’estraneo, dal nemico; dunque (per traslato e per rotazione semantica) il termine giunge all’accezione opposta di ciò che è celato, protetto, nascosto, segreto. Tale rotazione semantica (dal familiare al nascosto, dal nativo all’occulto, dal noto al segreto, dal sé all’altro) è confermata anche nella trasformazione heimelich del medio alto-tedesco (Mittelhoch-deutsch, 1050-1350). A partire da questa oscillazione semantica, la prima attestazione sostantivale con rafforzativo radicale, Geheimniß, presente in alto-tedesco protomoderno (Frühneuhochdeutsch, intorno al 1500, attestata anche in Lutero), indica addirittura il mistero religioso, la sacra funzione rituale in cui si celebra l’esperienza mistica dell’unione col Divino. Così, se in alto-tedesco moderno (o Neuhoch deutsch, 1600-1700), il termine perderà il carattere mistico-religioso, tale accezione resterà in tralice, quasi in agguato, nella sfera semantica di Geheimnis, inteso come ciò che è insieme familiare e nascosto, come una parte di noi celata e rimossa così profondamente da non potersi più spiegare, conoscere, raggiungere, svelare.
Incrociando il close reading del brano di Canetti con l’etimologia del termine, la dimensione del segreto del potere si carica quindi di un significato più radicale e inquietante. Geheimnis (familiare-segreto) è ciò che opera uno «spaesamento» del sé e che pone in contatto con ciò che è per noi misterioso e noto al tempo stesso.
Possiamo infine compiere un passo ulteriore nell’analisi della dimensione del segreto, attingendo alla celebre analisi freudiana del Das Unheimlic...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Premessa pratica prima che teorica
  5. I. La provincia dell’uomo: umanesimo, diversità, metamorfosi
  6. II. Le lingue del mondo
  7. III. L’antidoto animale
  8. IV. Affettuosità al potere
  9. V. «Un cactus di tormento e di abbandono»: dignità della follia e radicalità etica
  10. L’immaginario della fine: una conclusione?
  11. Appendice I. Insegnare l’utopia: note sulla conoscenza umanistica
  12. Appendice II. L’assistente ingrato: accademia e coercizione
  13. Abbreviazioni bibliografiche