Sbatti il matto in prima pagina
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Sbatti il matto in prima pagina

I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia

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I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia

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In dieci anni, tra il 1968 e il 1978, matura il clima che porterà l'Italia, primo paese al mondo, alla chiusura dei manicomi. In questo contesto il ruolo dei quotidiani è fondamentale: grazie alle loro inchieste e alle interviste, cronisti, inviati e opinionisti contribuiscono a sensibilizzare l'opinione pubblica sugli orrori nascosti dentro le mura degli ospedali psichiatrici, dove poveri, anziani, omosessuali e bambini disabili vengono di rado curati e quasi sempre segregati e maltrattati, sino a far perdere loro ogni dignità umana. Attraverso gli articoli delle maggiori testate giornalistiche nazionali, questo lavoro ricostruisce la storia di quegli anni così significativi: a raccontarla sono i protagonisti della cultura del tempo, da Indro Montanelli ad Angelo Del Boca, da Dacia Maraini a Natalia Aspesi, ma anche intellettuali internazionali come Michel Foucault, Noam Chomsky e Jean-Paul Sartre. Migliaia di personaggi e oltre mille articoli di giornale per ricostruire la cultura dell'epoca, l'ignavia e le controversie attorno alla malattia mentale: medici che non vedono, sindacati che proteggono i propri iscritti, partiti attenti a non urtare gli elettori e lo stesso Franco Basaglia contrario alla legge che porta il suo nome. Emerge uno scenario diverso da quello generalmente immaginato, nel quale diventano evidenti i retroscena dei controversi atteggiamenti dei politici, che contrastano le aperture progressiste di innovatori ormai dimenticati. Nel 1978, dopo anni di dibattito intensissimo, anche grazie alla diffusione dei quotidiani, la situazione non può più essere ignorata: quelli che il Ministro della Sanità, Luigi Mariotti, nel 1965 aveva definito «lager», chiudono finalmente i battenti.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435288
Categoria
Sociologia

IV. «Io, povero matto»

(1969)

Gli infermieri nel mirino della contestazione

«Io, povero matto, non posso che approvare in modo completo l’atteggiamento della gioventù studentesca torinese».
La frase è ripresa da una lettera scritta da un giovane paziente del manicomio di Racconigi alla rubrica Specchio dei tempi della «Stampa» (8 gennaio); si tratta di un fatto inconsueto: da un lato, è evento raro dare la parola ai «matti» e, dall’altro, esso testimonia della scelta degli ospedali psichiatrici come contestazione studentesca contro un sistema autoritario. In quei giorni, infatti, si assiste a un’attività del tutto nuova degli studenti universitari: visitano le strutture, raccolgono testimonianze di medici, infermieri e pazienti degli Op per presentare un documento-guida a un convegno da loro organizzato a Collegno in quello stesso mese. La contestazione, nata all’interno delle Università come forma di protesta contro le medievali strutture del sapere, travalica ormai le isolate discipline degli Atenei per investire diversi aspetti dell’organizzazione e della cultura del paese1. Tra questi, fu considerato emblematico il sistema psichiatrico. Come abbiamo visto, l’anno precedente gli studenti di Architettura e di Medicina avevano organizzato un convegno sul tema «È un reato costruire un manicomio?», avevano occupato la sede dell’ospedale di Collegno e indetto assemblee con medici, professori universitari, infermieri e pazienti degli ospedali psichiatrici.
Il quadro che emerge dall’inchiesta degli studenti colpisce perché descrive una realtà sconosciuta o per i più rimossa. Oltre alle descrizioni delle strutture fatiscenti, dell’assenza di un progetto curativo o riabilitativo, delle disumane condizioni di vita dei degenti, emerge una pervasiva violenza che domina negli istituti: l’obbligo di indossare la stessa divisa di tela grigia estate e inverno, l’impossibilità di utilizzare i servizi igienici dalle diciotto fino alle sette del mattino successivo, le ore interminabili passate senza fare nulla, ammassati in cinquanta-sessanta nello stesso stanzone. «È violenza costringere i malati a mangiare se non hanno fame, spostarli da un reparto all’altro dove le condizioni sono più pesanti per punizione, o minacciare trasferimenti per impaurirli; è violenza afferrare il o la paziente per i capelli spingendolo con la faccia nella minestra» («La Stampa», 4 gennaio).
Del tutto insufficiente è l’assistenza medica, continua «La Stampa»:
«“A essere ottimisti, si può calcolare che ogni sanitario veda ciascuno dei 300 e più pazienti che gli sono affidati due volte l’anno. Si limita a curare chi si presenta lamentando qualche guaio. Il più delle volte si limita a somministrargli qualche compressa […]. I medici lavorano tre ore al giorno in condizioni proibitive per il gran numero dei ricoverati e d’altra parte lo stipendio esiguo non li incoraggia a dedicarsi si più”. Non va meglio con gli infermieri: “Gli infermieri sostengono di trattare i malati meglio che possono, ma l’ambiente e il sistema condizionano lo staff in modo inderogabile”».
Dura è la denuncia di «io, povero matto» contro «l’abuso della contenzione degli infermieri e anche delle suore, le quali a volte credono nella punizione “preventiva” contro il parere del sanitario». Tra i casi più drammatici citati, quello di una malata semiparalitica che è stata legata «alle braccia e alle gambe colpite da emiplegia», e di un’altra, legata mani e piedi, chiusa nella camicia di forza, «infine incerottata alla bocca, perché non ne uscissero le parole oscene che pronunciava».
Gli studenti nel documento scrivono: «sempre al chiuso per mancanza di personale che li sorvegli, i pazzi restano ore e ore con le mani in mano. Ammassati in stanzoni maleodoranti. Ci sono donne senza la maglia di lana, in cameroni con 14 gradi perché l’amministrazione dice di non aver denaro per provvedere indumenti adatti. D’inverno i malati lavorano all’aperto con vestiti di tela addosso».
L’invocazione della mancanza di denaro come giustificazione percorre la storia della psichiatria. Già il 17 febbraio 1875 il direttore del manicomio torinese Giovanni Stefano Bonacossa, a proposito della proposta di trasloco a Collegno, scriveva sulla «Gazzetta piemontese», con lo stile cortesemente ironico di allora, lamentandosi degli sprechi: «Innalzare intero un manicomio, per cui saranno approssimativamente necessari due milioni belli e caldi nei tempi correnti di pecunia così abbondanti e di cortesi bollette dell’agente delle tasse con altre simili graziosità».
Questa la conclusione degli studenti:
«La psichiatria attuale è repressiva, escludente dalla vita normale: rende l’individuo un oggetto senza capacità di pensare e potere di decidere: condizioni necessarie per la salute mentale».
Nella stessa pagina della «Stampa» (4 gennaio), senza esplicito collegamento, un articolo su Contestazione e teppismo, che stabilisce i limiti reciproci citando i rischi di «squadrismo» della contestazione studentesca.
L’anno si apre dunque con un duro atto d’accusa contro le carenze delle strutture e dell’assistenza psichiatriche. Chiamati in causa in modo crescente dalle contestazioni, gli infermieri si ribellano, rifiutandosi di praticare qualsiasi atto medico; alcuni decidono, tuttavia, di ribattere alle accuse, prendendo la parola. È il caso di un gruppo di infermiere dell’ospedale di via Giulio, che l’11 gennaio invia alla «Stampa» una lettera dal titolo E io, povera infermiera: «Sembra che la colpa della situazione sia nostra. C’è del vero, perché non abbiamo ancora la forza necessaria per respingere situazioni e metodi assurdi, inumani, imposti da chi dirige i manicomi». Nella lettera si forniscono particolari raccapriccianti sui metodi praticati fino a poco tempo prima: la stessa siringa usata per trenta pazienti e sterilizzata con la brace delle sigarette, «capelli lavati con la lisciva». In un sistema del genere, che racchiude 5000 persone (pazzi e non), la soluzione non è solo eliminare la contenzione: «Vogliamo abolire le cinghie? Lo scandalo di vedere esseri umani legati per ore e ore, nella loro sporcizia? Giusto. Ma basta?».
L’interrogativo è pregnante, provenendo da un’operatrice del settore. L’autrice della lettera, pur riconoscendo qualche recente cambiamento, «perché alcuni medici giovani hanno reagito alla pigrizia e certi infermieri a certi metodi», conclude: «L’umanità che è qua dentro è ammalata e deve essere curata. Non rinchiusa e custodita pur che sia».
In segno di protesta, e in difesa della loro dignità professionale, il corpo infermieristico aveva dunque deciso di smettere di assumere iniziative di tipo medico che esulavano dalle loro competenze, come fatto fino a quel momento «per ovviare alla carenza di una parte dei medici e alle deficienze ambientali».
La protesta rientrerà nel giro di qualche giorno, visto che già il 10 gennaio «La Stampa» riferisce della ripresa della collaborazione tra medici e infermieri. Ma sarà una breve tregua: il rinnovamento degli ospedali psichiatrici torinesi, anche se avviato, troverà molti ostacoli, sempre più spesso tra gli attori interni del mondo psichiatrico. Il 21 maggio titola «La Stampa»: Infermieri: una vita dura in manicomio, riportando una nuova protesta del personale infermieristico per le difficoltà connesse ai metodi innovativi introdotti nell’assistenza ai malati di mente. Tra le altre lamentele il fatto che «i medici permettono ai pazienti di uscire dal reparto senza che gli infermieri ne siano informati». La tensione è di nuovo alta: i medici ribattono che sono gli infermieri a rifiutarsi di collaborare, e uno degli innovatori, il dottor Prezza, annuncia due giorni dopo la propria decisione di lasciare il manicomio di via Giulio proprio a causa dell’«ostruzionismo degli infermieri».
Intanto sindacati e infermieri hanno deciso di vietare la presenza di estranei alle loro assemblee, decisione criticata anche da un primario manicomiale, il professor Gustavo Gamna (tra poco al centro di una polemica per l’uso dell’Lsd), pur ammettendo che la quiete interna degli ospedali è gravemente turbata. Dunque, gli infermieri entrano di nuovo in sciopero.

«Non ci nasconderemo e non nasconderemo niente a nessuno»

La reazione delle autorità alle proteste degli studenti non tarda ad arrivare: il 10 gennaio il presidente degli Ospedali psichiatrici di Torino, Mario Rubatto, annuncia l’apertura di un’inchiesta approfondita «ad alto livello» sulla condizione dei manicomi. Egli lamenta che la legge Mariotti si limiti a occuparsi di schedature e di organici, mentre «non prevede che si aprano i reparti o che i malati siano forniti di coltello e forchetta». Rubatto scrive una lettera al prefetto Caso e al medico provinciale Luigi Gaglio, riconoscendo il valore della contestazione studentesca quale stimolo a modificare una situazione non più sopportabile: «Ben vengano le scosse che possono condurre a un più rapido miglioramento della situazione e ad accelerare i provvedimenti che il Consiglio di amministrazione da tempo auspica». Si dà quindi mandato alla Commissione di vigilanza dei manicomi, guidata da Gaglio, di avviare subito l’inchiesta.
E così avviene: il 13 gennaio «La Stampa» annuncia l’inizio dei lavori della Commissione di vigilanza nei manicomi torinesi di Collegno, Grugliasco, Savonera e in quello cittadino di via Giulio.
«Un compito delicato, che richiederà molto impegno. Ci si troverà senz’altro di fronte a deficienze gravi, spesso assurde per una società avanzata. Derivano da una legislazione arretrata e da una struttura sociale che tende da secoli a isolare i malati di mente, ad accomunarli con la definizione di “pazzi” quasi fosse un marchio vergognoso, senza fare molto per recuperarli alla vita della comunità».
Gaglio spiega che gli strumenti legislativi a disposizione (sostanzialmente la legge del 1904 e la legge stralcio del 1968) sono vetusti e non consentono grandi cambiamenti, ma afferma che l’inchiesta può avere il benefico effetto di far emergere «le carenze dei manicomi torinesi, il soverchio affollamento dei reparti, la scarsità dei mezzi finanziari», e assicura: «Se sarà necessario interverremo perché niente rimanga all’oscuro e impunito. Non ci nasconderemo e non nasconderemo niente a nessuno».
Di fatto, la realtà manicomiale era ormai ben poco nascosta, grazie all’interessamento dei quotidiani. Il 12 gennaio, forse per la prima volta dalla vicenda dello smemorato di Collegno2, il manicomio appare in prima pagina con un’inchiesta accompagnata all’interno da alcune fotografie.
Il cronista (l’articolo non è firmato) visita Collegno:
«Andiamo a vedere come vivono i duemila ricoverati in edifici che hanno da 100 a 300 anni. Ci siamo già stati nel 1966, da allora qualcosa è migliorato. Ma chi potrà rendere funzionali questi tetri ambienti? Sono quasi le 19, la cena è finita, parecchi sono già coricati. Sezione 8, 150 letti, uno addossato all’altro. Luci accese, un giovane malato lavora a maglia, il suo vicino è legato. Venti giorni fa ha spaccato una sedia addosso a un infermiere, stasera ha rifiutato il sedativo e si agita. Sezioni 7 e 5, il fetore prende alla gola. Qui ci sono anche i “sudici” e i letti distano appena 30 centimetri. Ogni spazio è sfruttato. Vecchi scheletrici, rattrappiti, gialli, con lo sguardo ebete. […] Nel refettorio qualcuno gioca a carte; un uomo guarda un quaderno, lo sfoglia e ha un sorriso remoto. Passiamo attraverso altre sezioni; ovunque lo stesso squallore, affollamento, promiscuità dolorosa. Alcuni reparti sono disastrosi, ad esempio quello riservato agli alcolisti, mentre altri sono un pochino meglio, c’è un minimo di conforto e di pulizia».
Compare la foto di un paziente legato al letto, a faccia in giù, con la didascalia: «Uno degli infermi ricoverato al manicomio di Collegno. Immobile, insensibile a tutto. Ieri si chiamavano indemoniati, ora sono soltanto oggetti pericolosi da segregare perché non disturbino».
Il 16, 17 e il 18 gennaio, sempre non firmati, appaiono tre nuovi articoli sulla «Stampa». Nel primo, intitolato I problemi di «io, povero matto», sono formulate «le proposte per risolvere il dramma dei manicomi […]. Una delegazione di studenti si è recata ieri dal presidente degli ospedali psichiatrici [Mario Rubatto] a chiedergli perché si opponga all’assemblea prevista per sabato a Collegno. Il gr. uff. [sic] Rubatto ha risposto: “Per due motivi: 500 infermieri, 50 medici, 30 malati, almeno 300 studenti e tutto il consiglio di amministrazione non possono trovar posto in un teatrino capace di un centinaio di posti”».
Rubatto conferma in questo modo che le precedenti assemblee erano frequentate da una minoranza di dipendenti. Poi prosegue spiegando l’altro motivo: «“Inoltre l’ordine del giorno comprende temi, come la proposta di costituire nel manicomio l’assemblea generale con poteri decisionali, che esorbitano dalle disposizioni di legge al cui rispetto siamo tenuti”. In alternativa, ha suggerito agli studenti una riunione in un cinema torinese, e il volontariato degli studenti, presalario, lavoro di équipe con medici malati e infermieri, assemblee di lavoro e di studio con i degenti e riunione bimestrale del Consiglio di amministrazione degli ospedali».
Nel secondo articolo si denuncia ancora una volta il problema della scarsità di personale: «Un medico di guardia per 2000 malati» (17 gennaio); nel terzo (18 gennaio) si parla senza mezzi termini di «lager della sezione 12», riferendosi a una sezione per epilettici:
«Manca lo spazio per qualsiasi forma d’intimità, a tavola in un metro stanno seduti in tre; non esistono né tovaglie né tovaglioli, i piatti sono ciotole di metallo la cui pulizia a dir poco lascia a desiderare. I pazienti stanno quindici ore al giorno in uno stanzone con a disposizione un metro e venti di spazio. Al mattino chi è in grado di alzarsi fa la coda per lavarsi e andare in bagno, ma alcuni non ce la fanno ad aspettare con le conseguenze che ognuno può immaginare. Il ricambio della biancheria è quasi un’utopia, di notte la luce è sempre accesa. I malati sono disumanizzati in tutto».
Appena pochi anni prima «La Stampa» descriveva i reparti alcolisti e lavoratori come modello di lindore3.
Molto innovativa la proposta di Rubatto sul presalario agli studenti4, che però è andata perduta nella globale contestazione; ad ogni modo, gli studenti ottengono l’assemblea («La Stampa», 25 gennaio).
Il 21 gennaio 1969 il professor Filippo Franchi, consulente dermatologo di via Giulio, scrive nella rubrica dei lettori che nulla è cambiato in quella struttura dalla sua visita con l’assessore Dellepiane nel 1965, quando l’assessore stesso aveva dichiarato essere quel manicomio un «obbrobrio».
Il 22 gennaio il cronista visita un altro reparto, «lo sconvolgente reparto B di Villa Azzurra», struttura che ospita oltre 200 bambini, laceri, sporchi e legati. Il caso di questo padiglione di Grugliasco, confinante con Collegno e amministrativamente da esso dipendente, diventerà oggetto dell’attenzione di tutti i giornali solo l’anno seguente (salvo l’«Unità», come vedremo)5, diventando uno dei più clamorosi scandali manicomiali del periodo antecedente la riforma psichiatrica. Era lo stesso reparto definito nel 1966 e poi nel 1967 dai professori De Caro e Mossa come uno di quelli «avanzati».
L’articolo della «Stampa» del 22 gennaio non ebbe invece quell’anno una particolare risonanza a livello nazionale, malgrado l’evidente coinvolgimento emotivo dei giornalisti.
«Si entra nel reparto B e il cuore si chiude. I bimbi, dai sei anni in su, sono quasi sempre legati; parecchi sono coprofagi (mangiatori di feci), altri laceratori: se appena le loro mani sono libere, strappano indumenti e lenzuola, si fanno del male in tutte le maniere possibili. Cerebropatici, frenastenici e oligofrenici, caratteriali, mongoloidi; tutti di quoziente intellettuale indefinibile. Una dolorosa, tragica infanzia, fermata da una mano crudele sulla soglia della conoscenza, preda di impulsi violenti e incontrollabili. Non si tengono puliti, non mangiano se non imboccati. E restano inchiodati lì, nella loro desolata miseria».
Le cose non vanno meglio nell’ospedale femminile di Grugliasco, che accoglie 647 pazienti. Anche qui affollamento e promiscuità, carenze igieniche e pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. I. Non tutti qui sono matti, non tutti i matti sono qui I giornali raccontano la psichiatria
  7. II. Che ci sarà mai dietro queste mura? (prima del 1968)
  8. III. Gli ospedali psichiatrici: la Cenerentola del sistema ospedaliero (1968)
  9. IV. «Io, povero matto» (1969)
  10. V. La contenzione per il bene dei bambini (1970)
  11. VI. La nuova psichiatria in tribunale (1971)
  12. VII. I manicomi al Nord e al Sud (1972)
  13. VIII. Per una psichiatria più democratica: progressi e battute d’arresto (1973)
  14. IX. «Dare parole al silenzio della sofferenza» (1974)
  15. X. Colpa e malattia: i manicomi giudiziari (1975)
  16. XI. La sessualità in manicomio (1976)
  17. XII. Il difficile lavoro dentro la realtà (1977)
  18. XIII. «Una legge di compromesso, non ancora la liberazione dei matti» (1978)