II. Cyber intelligence e big data
Nel contesto emergente della cyber intelligence è fondamentale considerare la rilevanza della quantità crescente dell’informazione. Le attività che produciamo nel cyber spazio vengono in parte memorizzate e archiviate sotto forma di big data1. In primo luogo, con questa definizione indichiamo l’enorme e complesso flusso di informazioni in cui «il telefono, la radio e specialmente il computer consentono di tracciare chiunque e ovunque»2. Ogni giorno produciamo una grande quantità di dati: navighiamo in internet e postiamo pensieri sui social network, chiamiamo dal cellulare amici e parenti, comunichiamo tramite email, effettuiamo acquisti con carte di credito, pubblichiamo le nostre diete e condividiamo informazioni intime. Tutte queste attività si svolgono nel cyber spazio e hanno un effetto collaterale: la produzione di tracce digitali che documentano la nostra vita quotidiana3.
«Nel secolo scorso – scrive Stephen Baker – […] il governo della Germania dell’Est arruolava decine di migliaia di cittadini come spie. Oggi noi spiamo noi stessi e mandiamo aggiornamenti elettronici minuto per minuto»4. Questa enorme e preziosa montagna di informazioni, da noi spesso inconsapevolmente prodotta, è avidamente memorizzata dalle compagnie che ci forniscono i servizi (tra i maggiori senz’altro Google, Twitter, Facebook e le società telefoniche) e che riescono a comporre un mosaico del nostro comportamento personale e sociale. Gli operatori telefonici, per esempio, registrano nei loro ciclopici archivi tutte le telefonate, memorizzando informazioni sull’utente chiamante e quello ricevente, l’orario e la durata della telefonata, il luogo da cui è stata effettuata e quello in cui è stata ricevuta. In altre parole, gli operatori telefonici conservano traccia delle diverse dimensioni della nostra vita: le relazioni sociali, la mobilità, il tempo che impieghiamo nelle nostre attività.
E si tratta solo di una piccola parte di quanto si può registrare ogni giorno. Facebook, il social network più famoso del mondo, ricostruisce nei dettagli la rete di relazioni e le attività di più di un miliardo di persone, annotando minuziosamente le modalità di comunicazione (conversazioni in chat, audio e video chiamate, post, foto, attività sui social network), le opinioni espresse attraverso i post in bacheca, la posizione geografica degli utenti e addirittura i gusti personali su film, libri e luoghi. Come Facebook, dozzine di aziende e istituzioni, sia pubbliche che private, annotano aspetti delle nostre vite.
Questa duplice capacità, senza precedenti nella storia umana, di produrre dati e di memorizzarli in grandi quantità ha generato la cosiddetta data revolution. Una rivoluzione che sta influenzando profondamente tutti gli aspetti della nostra esistenza: governi, economia, scienza e società5. Grazie ai big data, «i nostri passati, così riccamente documentati, avranno un impatto sulle nostre prospettive future, mentre la nostra capacità di influenzare e controllare il modo in cui veniamo percepiti dal prossimo diminuirà drasticamente»6. Se Bruce Sterling negli anni novanta sosteneva che «non vi è ancora alcuna sostanza di cyber spazio, nulla che si possa maneggiare»7, i big data danno oggi forma e sostanza alle attività che svolgiamo nel cyber spazio, divenendo una potentissima lente di osservazione. Siamo alla presenza di un formidabile microscopio sociale che permette di osservare molti aspetti del comportamento umano, sia individuale che collettivo.
Esso è tuttavia soltanto uno strumento che monitora le attività nel cyber spazio, poiché i big data sono del tutto inutili senza le competenze necessarie per elaborarli, analizzarli e ricavarne conoscenza. Infatti, il termine big data, nel suo significato più profondo, si riferisce agli algoritmi matematici per individuare le informazioni e alla creazione di modelli per la previsione delle attività umane8. È importante rilevare che i big data non costituiscono un valore in sé, ma lo acquistano grazie alla competenza degli esperti di ricavare informazione utile dall’enorme mole di dati.
L’espressione «big data» assume quindi un duplice significato, che si riferisce sia alla valanga di dati personali sia all’insieme delle metodologie per trattarli. La consapevolezza di questa rivoluzione9 comporta una serie di implicazioni psicologiche e sociali, culturali e istituzionali, personali ed economiche10. In uno scenario in cui il peso delle nuove tecnologie sarà sempre più preponderante nelle economie avanzate e in quelle emergenti11, secondo Mayer-Schönberger e Cukier,
i Big Data possono veramente ridisegnare il nostro modo di vivere, di lavorare e di pensare […]. Si sta modificando il terreno su cui poggiano i nostri piedi. Le vecchie certezze vengono messe in discussione. I Big Data ci obbligano a riesaminare da zero la natura del processo decisionale, del destino e della giustizia […]. Il sapere, che un tempo si identificava con la conoscenza del passato, viene a identificarsi con la capacità di prevedere il futuro12.
I big data
segnano il momento in cui la «società dell’informazione» adempie finalmente alla promessa insita nel suo nome. I dati vengono a occupare il centro del palcoscenico. Oggi tutti quei bit digitali che abbiamo raccolto si possono sfruttare con modalità innovative per realizzare nuovi scopi e liberare nuove forme di valore. Ma ciò richiede un nuovo approccio mentale e metterà in discussione le nostre istituzioni e persino il nostro senso di identità13.
Questa nuova era sarà caratterizzata da una grande contraddizione, poiché le persone avranno a disposizione sempre più informazioni ma avranno maggiore difficoltà a ricordarle e custodirle. Com’è noto, dal punto di vista umano esistono dei limiti fisiologici alla memorizzazione e all’assorbimento delle informazioni14. Zygmunt Bauman parla di civiltà dell’oblio, dove diventa più importante dimenticare che ricordare, poiché «tutte le informazioni […] invecchiano rapidamente e, se non vengono tempestivamente eliminate (cancellate dalla memoria), possono rivelarsi fuorvianti»15. Assisteremo sempre di più all’occultamento dei fatti nella quantità, ampliando a dismisura una storia antica: un proverbio degli indiani d’America ricorda che «se vuoi nascondere un albero devi metterlo in una foresta». E si andrà necessariamente incontro a quella che Jane Yakowitz ha definito la tragedia dei data commons per identificare «lo spreco di una risorsa comune di grande valore per una concomitanza di interessi particolari, arroganza, ignoranza, paura e mancanza di regole e di fiducia»16.
La sovrabbondanza delle informazioni digitali crea inevitabilmente manipolazione, tanto che si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una società della disinformazione che ottiene l’ignoranza dei cittadini proprio attraverso l’informazione, o meglio il suo eccesso. In definitiva, potremmo ipotizzare che la nuova società dei big data con le sue aspettative e i suoi limiti17, si contrappone e si confronta con la società liquida prospettata da Bauman18.
Big data e Open Source Intelligence
Con il termine «fonte» si indica l’origine della notizia, cioè chi la produce, e si definisce aperta quella che è accessibile a tutti. La disponibilità di molte «fonti aperte», e di altrettanti strumenti tecnologici che ne consentono l’accesso, ha dato avvio a un nuovo filone di ricerca definito Open Source Intelligence (Osint). Le «fonti aperte», che costituiscono la quasi totalità delle informazioni dell’intelligence, non sono riservate e non possono neppure rimanere tali. Si pensi, ad esempio, alla necessaria trasparenza degli atti delle amministrazioni pubbliche oppure alle informazioni coperte da segreto di Stato che dopo un determinato periodo vengono rese note. Si aggiunga a ciò la diffusione di notizie pubbliche riservate, come è avvenuto con Wikileaks, Datagate e Vaticanleaks19. Le informazioni provenienti dalle «fonti aperte», una volta verificata la loro credibilità, sono integrate con le informazioni provenienti dalle «fonti chiuse», cioè da quelle che non sono legalmente ed eticamente disponibili ma che risultano decisive per le scelte del decisore. Tali informazioni si ottengono talvolta attraverso le black operations, cioè azioni illegali che individuano dati preziosi, non altrimenti ottenibili.
Le informazioni da fonte chiusa potrebbero essere considerate come una specie di golden share, «azioni dorate», che impreziosiscono e svelano la restante parte delle notizie a disposizione. Di fatto rappresentano la pietra filosofale degli alchimisti che trasmuta piombo e rame, cioè la massa informe delle informazioni, in argento e oro, cioè in un’informazione attendibile e completa. Il punto di arrivo è la conoscenza, la quale si ottiene eliminando i veli che impediscono la comprensione della realtà e diradando le ombre della disinformazione, a cui contribuiscono le elaborazioni scientifiche delle previsioni20 e le vicende narrate dai media21. In questo tempo impetuoso convivono effetti opposti, luminosi e oscuri insieme, al cospetto dei quali occorre mantenere lucidità intellettuale. Dunque, bisogna essere vigili nell’esaminare le rapidissime trasformazioni sociali, evitando di sposare acriticamente le tesi degli apocalittici o degli integrati di fronte ai cambiamenti prodotti dalle tecnologie22.
Una volta reperiti i dati, da fonti chiuse e aperte, si procede alla loro trasformazione in informazioni complete da distribuire tempestivamente alle persone giuste: è il processo tipico dell’intelligence. Oggi, grazie ai big data che si acquisiscono anche dall’«internet delle cose»23 o «internet del tutto», l’intelligence, che prima si misurava con il problema spinoso della scarsità, deve affrontare la sovrabbondanza delle informazioni, che solo in minima parte sono disponibili tramite i comuni motori di ricerca o in forma di big data.
La carenza delle informazioni si è oggi trasformata in eccesso, dunque, modificando radicalmente il processo tradizionale di intelligence. Tutto comincia con l’individuazione delle reali esigenze informative dei decisori, che formulano precise richieste24. Si tratta di un aspetto che rappresenta un problema classico dell’intelligence, ma, vista la complessità dei problemi e la pluralità delle informazioni, la dimensione del fenomeno è diventata drammatica, se non si forniscono dettagliate indicazioni. Questa fase delicata è affidata alle figure degli analisti, che utilizzano specifiche metodologie e tecniche per circoscrivere l’esatto fabbisogno informativo25. La domanda fondamentale che deve porsi l’analista di intelligence è: qual è l’informazione realmente utile a un preciso decisore politico rispetto a un determinato problema di sicurezza? Si noti che è un aspetto decisivo non solo per l’intelligence, ma pervade tutti i contesti della ricerca sociale26.
Un aspetto determinante de...