Il capitale quotidiano
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Il capitale quotidiano

Un manifesto per l'economia fondamentale

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Il capitale quotidiano

Un manifesto per l'economia fondamentale

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L'economia fondamentale è l'infrastruttura della vita quotidiana. È quello che ogni giorno diamo o dovremmo dare per scontato: la produzione e la distribuzione del cibo, la distribuzione dell'acqua, dell'energia, del gas, i trasporti, l'istruzione, la sanità, i servizi di cura. In questi settori – almeno in questi – il benessere della collettività dovrebbe essere il principio guida dell'azione economica. Da più di vent'anni, invece, anche in questa sfera dell'economia hanno preso piede la massimizzazione del profitto, l'orientamento al breve termine, la propensione all'accumulazione finanziaria e alla rendita. questo libro – frutto di un percorso di ricerca transnazionale – spiega perché anche in Italia, come nel resto d'Europa, la corsa irresponsabile verso l'estrazione di valore e l'utile di breve periodo coinvolge imprese, istituzioni locali e soggetti a cavallo tra pubblico e privato. Una serie di casi di studio mostra come una simile tendenza stia minando le basi dell'economia fondamentale, alimentando fratture e diseguaglianze sociali. A fronte di questa deriva – spiegano gli autori – non bastano forme molecolari di autodifesa della società. Serve invece ritrovare la strada di un'innovazione sociale radicale e di un riformismo non liberista. Per tutte le attività economiche fondamentali deve valere una licenza sociale: l'attività economica, privata o pubblica che sia, si deve ritenere legittima soltanto se opera a vantaggio, e non a detrimento, della società.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435493
Categoria
Sociology

III. L’estrazione di valore nell’economia fondamentale*

Lo Stato moderno, che non ha costruito il capitalismo ma lo ha ereditato, talora agisce a suo favore, talaltra ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi distrugge le sue risorse. Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato (Braudel 1981a, p. 65).

1. Introduzione.

Se c’è uno spazio dell’economia nel quale ci si aspetterebbe – o almeno ci si dovrebbe aspettare – che le finalità perseguite dagli attori economici siano strettamente aderenti all’idea di utile sociale, è lo spazio dell’economia fondamentale, ovvero l’insieme dei settori dell’economia che hanno a che fare con la vita quotidiana, con l’esercizio della cittadinanza sociale: i settori nei quali si producono e circolano i beni e i servizi la cui disponibilità si dà quotidianamente per scontata. In quest’ambito, l’idea del «soddisfacimento dei bisogni umani» – che secondo la tradizione degli studi aziendali europei (e italiani in particolare) deve costituire l’obiettivo dell’iniziativa economica (Zappa 1927) – è particolarmente chiara. Il valore a cui le imprese dovrebbero mirare, in quest’ambito, ha a che vedere con la necessità di garantire ai cittadini livelli crescenti di benessere, accordando questa finalità con quella di assicurare all’impresa – e solo indirettamente ai suoi proprietari (o azionisti, o investitori) – un successo e una prosperità di lungo termine. Nei termini dell’economia delle convenzioni (Boltanski - Thevenot 1991), ciò implica una combinazione variabile di diversi «ordini del valore» o «principî di giustificazione», basati su metriche diverse e tra loro non commensurabili.
Come vedremo più in dettaglio nel cap. V, le attività che includiamo nella categoria di economia fondamentale, sono in larga parte quelle che nell’età dei diritti (Bobbio 1992) si sono venute configurando come servizi pubblici, e quindi sono state in diversa misura (e con diversi strumenti) «protette» rispetto all’esercizio della libertà economica; con esiti, notoriamente, non sempre entusiasmanti, sia in termini di efficacia, sia in termini di efficienza (ovvero di costi per il bilancio dello Stato). A partire dagli anni ottanta, i limiti conclamati della gestione dei servizi pubblici sono diventati una piattaforma culturale per la stagione della privatizzazione o, secondo la definizione più usata in Italia, delle privatizzazioni. Secondo la retorica delle privatizzazioni, il passaggio di molte delle attività economiche fondamentali da una gestione di diritto pubblico a una di diritto privato avrebbe comportato un guadagno per i cittadini, in termini di accessibilità alle risorse e di riduzione della spesa collettiva. In sé, la privatizzazione – intesa appunto come transizione da una regolazione pubblicistica a una privatistica, a prescindere dal fatto che il controllo resti in mano pubblica o passi a privati – comporta un immediato cambiamento delle finalità dell’impresa: mentre un’attività economica regolata secondo diritto pubblico è destinata al perseguimento degli obiettivi costituzionali, un’attività regolata secondo diritto privato – anche nel caso in cui resti sotto la proprietà o il controllo dello Stato – deve perseguire l’utile economico formalmente inteso, a beneficio della proprietà.
Tanto nei settori tuttora controllati dallo Stato, quanto in quelli «protetti», quanto infine in quelli affidati al «libero mercato», l’orientamento al benessere collettivo ha uno spazio sempre più ridotto. Un tempo relegata tendenzialmente nella sfera dell’alto capitalismo e della speculazione finanziaria, l’ambizione di ottenere extraprofitti si diffonde oggi anche nell’area dell’economia fondamentale. Nello spazio destinato alla produzione dei beni e dei servizi di uso quotidiano – «strategici» nella prospettiva del benessere e della cittadinanza – prende campo la tendenza a generare profitti (o, piuttosto, rendite) senza generare prosperità: profiting without producing (Lapavitsas 2013).
Si attivano così, anche nella sfera dell’economia fondamentale, processi di estrazione di valore. Come ricordava Luciano Gallino:
L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio (Gallino 2011, p. 6).
Secondo le promesse della vulgata neoliberista, alla diffusione del «libero mercato» in tutti i settori dell’economia sarebbe conseguito un orizzonte di prosperità: la rimozione degli ostacoli regolativi alla libertà economica promuoverebbe la «libera concorrenza» e, con essa, l’efficienza e anche l’efficacia dell’azione economica. Nella realtà, è l’idea stessa di «libero mercato» a essere rimasta spesso priva di riscontri. Essa porta con sé un equivoco originario, che John Kenneth Galbraith (2004) aveva indicato efficacemente come una sorta di «truffa semantica»: il termine mercato, già dal secondo dopoguerra, è stato impiegato per designare in realtà il capitalismo, costruendogli una rappresentazione impersonale, che rimuovesse qualsiasi riferimento ai capitani d’industria e agli attori della finanza speculativa. Quest’uso diventa sistematico a partire dagli anni ottanta, sostenendo la diffusione del credo neoliberale: «Il riferimento al mercato come alternativa benevola al capitalismo è un’operazione cosmetica, fiacca e insipida, destinata a scoprire una scomoda realtà» (ibid., p. 66), ovvero la soverchiante diffusione di monopoli, oligopoli, strategie di prevenzione della concorrenza, e di una miriade di condizionamenti che – nell’apparenza di enfatizzarla – minano alla radice la possibilità dei consumatori di scegliere alcunché.
Gli esempi di attività economiche fondamentali nelle quali l’idea di «libero mercato» resta solo una suggestione sono innumerevoli. Ogni cittadino ne fa quotidiana esperienza quando affronta spese tanto indispensabili quanto prive di un degno corrispettivo, che si presentano come sistematiche decurtazioni del reddito familiare, a beneficio di rendite di posizione: ad esempio, quando paga tariffe esorbitanti per la fornitura di beni essenziali, quando si misura con la scelta dei prodotti alimentari, quando transita in autostrada o parcheggia nei pressi di un aeroporto. Un’analoga percezione di subalternità i cittadini sperimentano nella veste di contribuenti, poiché in molti casi le attività economiche in questione sono finanziate a carico della fiscalità generale; nonché in veste di lavoratori, dal momento che il lavoro – come mostreremo fra breve – è una delle «leve» privilegiate nella ricerca della massima redditività degli investimenti: una leva a contrario, evidentemente, poiché – lungi dall’essere considerato come una risorsa – è trattato come un ostacolo che si frappone fra i titolari dell’attività economica e il profitto.
Come mostreremo nel seguito di questo capitolo, i dispositivi di produzione di extraprofitti sono vari, e sono diffusi in tutti i settori dell’economia fondamentale. Le evidenze che offriremo ai lettori scaturiscono da ricerche empiriche condotte, con metodi differenti, su settori diversi. Si tratta di campi d’azione affidati, almeno apparentemente, alla «libera concorrenza» (come nel caso della grande distribuzione organizzata), oppure di settori «protetti» e sovvenzionati (come nel caso delle ferrovie, del trattamento dei rifiuti, dei servizi di cura), o ancora di settori che sono rimasti «in bilico» fra la gestione pubblica e quella privata (la distribuzione dell’acqua). Benché sia difficilmente concepibile come un’attività economica fondamentale (almeno nel senso in cui lo sono le altre), ci è sembrato opportuno includere in tale rassegna anche il settore delle attività connesse ai beni culturali (gestione dei musei, organizzazione di mostre): anche in questo caso l’azione economica si sviluppa intorno a un complesso di beni che appartengono, o dovrebbero appartenere, alla quotidianità della vita sociale, e ne fa oggetto di una valorizzazione intesa in senso prettamente strumentale.
Nel breve campionario che proponiamo, si vedranno all’opera almeno quattro modalità di estrazione di valore, che non si escludono a vicenda, ma sono anzi tendenzialmente compresenti:
1) L’abbattimento dei costi (lavoro incluso) e la pressione sui fornitori. Il modo relativamente più semplice e praticabile per incrementare i profitti, anche nel breve termine, è la riduzione dei costi, e la trasformazione dei costi fissi in costi variabili. Molto spesso si tratta di beni strumentali o infrastrutture. Molto significativo è l’esempio delle ferrovie italiane, che nell’arco di una decina di anni hanno rottamato più della metà del parco rotabili e dismesso una porzione cospicua della rete nazionale. Ma le operazioni di cost-cutting più agevoli e significative – accompagnate molto spesso da una ridefinizione degli obiettivi di produzione di beni e servizi – sono quelle che riguardano la forza lavoro. In questo campo si agisce non soltanto riducendo nel tempo i volumi occupazionali, ma anche mettendo a valore gli strumenti normativi che sono stati via via offerti dal legislatore per ridurre costi e responsabilità a carico del datore di lavoro: contratti di lavoro «flessibili», forniture di manodopera, segmentazione dei processi produttivi. Altri importanti interventi di riduzione o compressione dei costi, soprattutto in alcuni settori (si veda in questo capitolo il caso della grande distribuzione organizzata) riguardano la catena del valore, e in particolare i rapporti economici con i fornitori. L’extraprofitto si ottiene in questi casi ai danni di altri attori economici che, attraverso successivi «giri di vite», vengono costretti a operare in condizioni economicamente problematiche, sacrificando a loro volta la manodopera e la qualità della produzione. La possibilità di mettere diversi fornitori (attuali o potenziali) in concorrenza fra loro genera da un lato margini di profitto per chi governa la catena del valore, dall’altro effetti di distruzione di risorse per gli attori economici in posizione subalterna.
2) L’uso delle risorse pubbliche. La caratteristica che nell’epoca del «capitalismo democratico» ha contraddistinto molti settori che avevano a che fare con le esigenze primarie dei cittadini – ovvero l’uso delle risorse pubbliche per coprire i costi (in tutto o in parte) e per finanziare gli investimenti – nel presente è divenuta, paradossalmente, uno dei dispositivi più frequenti ed efficaci di estrazione del valore. Bisogna prendere atto che questa contiguità con le finanze pubbliche non può essere interpretata come una perdurante presenza dello Stato in funzione redistributiva. Si tratta, semmai, del fenomeno opposto: gli strumenti di quella che era l’economia pubblica sono oggi piegati al servizio dell’interesse di parte. Il gioco ha poco a che vedere con la «libera concorrenza»: posta sotto l’ombrello del finanziamento pubblico, la celebra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Un neoliberismo a bassa intensità: trentacinque anni di «riforme» in Italia
  7. II. L’impresa disconnessa: point value, estrazione di valore, accumulazione finanziaria
  8. III. L’estrazione di valore nell’economia fondamentale
  9. IV. L’autodifesa della società: teorie, movimenti, prassi di riconnessione
  10. V. Oltre l’autodifesa: riconnettere l’economia fondamentale
  11. Bibliografia
  12. Gli autori