La sinistra radicale in Europa
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C'è uno spazio, una prospettiva, un ruolo politico possibile per le sinistre radicali in Europa? E come si distinguono o si contrappongono ai riformismi e ai populismi da cui vogliono differenziarsi? Questo saggio offre un'analisi approfondita dei partiti della sinistra radicale europea, sistematizzandone caratteristiche e dinamiche (idee-guida, valori, organizzazione ed elettorato) in una prospettiva comparata. Il punto di partenza è il 1989, quando – dopo il crollo dei regimi a socialismo reale – i partiti comunisti dei principali paesi europei conobbero un profondo processo di trasformazione, che investì sia la loro forma organizzativa sia la strutturazione dell'offerta politica. Nacquero così, tra la fine del Novecento e i primi anni duemila, numerose formazioni politiche che includevano diverse componenti, non soltanto di origine marxista. All'interno di questo quadro di riferimento, il volume si concentra sui partiti della sinistra radicale di Italia, Spagna, Francia e Germania nel venticinquennio successivo alla caduta del muro di Berlino. Ciò che emerge – anche sulla base delle testimonianze dei leader e dei principali dirigenti politici raccolte direttamente dall'autore – è che i partiti della new left europea, più che mantenere caratteristiche anti-sistema, tipiche dei partiti rivoluzionari, hanno ormai assunto una logica pro-sistema, pur continuando a svolgere una robusta opposizione ai governi, di destra e di sinistra, fautori delle politiche neoliberiste e dei tagli alla spesa pubblica. Il libro si misura, infine, con un ultimo interrogativo: dati gli sviluppi registrati nel campo della sinistra radicale, è possibile immaginare nelle principali democrazie europee un'opzione di governo che porti alla convergenza dei partiti riformisti e dei partiti della nuova sinistra in un unico progetto politico?

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435509
Parte prima
La trasformazione

I. La sinistra dopo il comunismo

1. Premessa.

«Mi creda, non fomentiamo l’odio. Sosteniamo soltanto che la lotta di classe è una legge dell’evoluzione sociale. Non ne siamo responsabili. Non è nostra invenzione. Ci limitiamo a spiegarla, come Newton spiegava la gravitazione»1. Sono le parole di Ernest Everhard, protagonista de Il tallone di ferro, romanzo di Jack London che narra l’ascesa immaginaria di un’oligarchia dittatoriale a capo del governo federale degli Stati Uniti d’America, descrivendo la percezione del cammino irreversibile della lotta di classe tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Intanto, in quegli anni, in Germania, nel cuore del Vecchio continente, la lunga depressione economica successiva al boom industriale del biennio 1871-1873 produce un progressivo peggioramento dello stile di vita dei lavoratori e una concentrazione dei mezzi di produzione senza eguali nella storia del paese. Tutto ciò contribuisce a far crescere in una larga parte dei cittadini del secondo Reich il convincimento dell’imminente, irreversibile, crisi capitalistica e dell’effettivo sviluppo dell’umanità nella direzione indicata dalla dottrina socialista (Steinberg 1967; Andreucci 1979).
Nei decenni successivi, però, la storia prende tutt’altra direzione di marcia, fino all’avvento del nazifascismo e all’esplosione della seconda guerra mondiale. Il susseguirsi degli eventi accaduti sul finire del XIX secolo viene, tuttavia, tradizionalmente considerato il presupposto che innesca, in Germania prima che altrove, il processo di contaminazione (allora) del tutto originale tra il movimento operaio e l’ideologia marxista, che nel frattempo, dopo la pubblicazione del Manifesto nel 1848 e del primo libro de Il Capitale nel 1867, va velocemente diffondendosi in tutta Europa. Senza dubbio, l’incontro tra il movimento dei lavoratori tedeschi e la teoria marxista costituisce la condizione necessaria e sufficiente per la fondazione di uno dei primi partiti socialisti europei. La nascita del Sap (Sozialistische Arbeiterpartei Deutschlands) risale al 1875, anno del congresso di Gotha, quando l’Associazione generale degli operai si fonde con il Partito socialdemocratico dei lavoratori dando vita al Partito socialista dei lavoratori. Da allora, bisognerà attendere ancora un quindicennio (il passaggio avverrà nel 1890) prima che quel partito assuma la denominazione definitiva di Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands).
Considerando i fatti tedeschi come primo esperimento di costruzione del campo socialista, a partire dalla Germania è possibile individuare molti filoni di pensiero che, dopo Marx, influenzano lo sviluppo dei partiti operai durante la prima metà del XX secolo: 1) l’«ortodossia» marxista à la Karl Kautsky (1902), che, all’inizio del Novecento, colloca la rivoluzione proletaria all’interno delle istituzioni democratiche del costituendo Stato borghese-capitalistico; 2) a sinistra di Kautsky avanza l’ipotesi «avanguardistica» teorizzata da Lenin (1902, 1918), con riferimento alla quale un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione si carica della responsabilità di sovvertire l’ordine costituito per la realizzazione del comunismo; 3) alla destra di Kautsky emerge l’opzione «revisionista» secondo la declinazione formulata da Eduard Bernstein (1899), che contribuisce a strutturare il fronte riformista all’interno della socialdemocrazia tedesca. A sessant’anni dalla riflessione di Bernstein, dopo il congresso di Bad Godesberg del 1959, i socialdemocratici tedeschi abbandonano definitivamente l’impianto ideologico marxista adottando un programma di riforme moderato; 4) ispirato da una sensibilità culturale autenticamente «movimentista» si afferma il progetto della Neue Linke (Nuova sinistra) di Rosa Luxemburg (1899), che, contraria a ogni forma d’irrigidimento rivoluzionario, si dichiara interessata a lavorare sulla spontaneità del movimento operaio. A tale matrice ideologica vanno aggiunti due altri tasselli essenziali per comprendere a pieno la storia politica della sinistra novecentesca: 5) il filone libertario e anarchico ispirato a Proudhon (1846) e Bakunin (1873); 6) la scelta laburista di origine anglosassone legata alla militanza trade-unionista (Clegg 1994).
Attorno a questa complessa articolazione di pensiero, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo, in Europa e nel mondo cominciano a strutturarsi diverse parti di differente derivazione marxista: socialista e socialdemocratica, comunista, anarchica e laburista, che provano a unirsi in un’unica organizzazione politica. Dopo la scissione consumatasi nella Prima Internazionale (1864-1876) tra marxisti e anarchici rispetto al ruolo attribuito allo Stato (Bakunin 1873), i partiti che aderiscono alla Seconda Internazionale (1889-1916) presentano una maggiore omogeneità politica. L’alleanza tra le principali forze anti-borghesi può, tuttavia, considerarsi conclusa al momento dello scoppio della rivoluzione russa del 1917, con la fondazione della Terza Internazionale (o Komintern, 1919-1943), istituita per volere dei bolscevichi allo scopo di creare ampio sostegno al governo dei Soviet, favorire la formazione dei partiti comunisti-leninisti e diffondere la rivoluzione in tutto il mondo. Da qui, il dispiegamento del Novecento, che secondo Hobsbawm (1994) ha tutte le caratteristiche di un «secolo breve», inaugurato nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, e conclusosi nel 1989, con l’implosione dei regimi a socialismo reale che contribuiscono a scandire la storia del XX secolo.
Se nella Germania della seconda metà dell’Ottocento, quindi, data la prima esperienza di strutturazione politica del movimento operaio, può segnarsi la nascita della tradizione politica di origine marxista, alcuni anni dopo, sempre in Germania, si ha la conclusione di una vera e propria epoca storica. Infatti, a partire dal 1989 i partiti della sinistra d’ispirazione social-comunista entrano in crisi sotto le macerie del muro di Berlino, abbattuto la notte del 9 novembre di quello stesso anno dopo aver rappresentato per quasi un quarantennio il simbolo della separazione fisica dell’Europa e del mondo, e con ciò la divisione tra sistemi politici a democrazia capitalista e sistemi politici di origine sovietica. Tra le rovine della Porta di Brandeburgo si sgretola l’esperienza del socialismo reale, che di lì a breve registra la sua definitiva scomparsa di fronte alla dissoluzione dell’Urss (1917-1991)2. Date tali considerazioni, è tra le schegge di quei frantumi che un venticinquennio più tardi si vuole andare a scavare per cercare di cogliere il senso dei cambiamenti avvenuti. In sostanza, a un quarto di secolo dai fatti di Berlino, e dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, nella prima parte del libro presentiamo il dibattito sulla sinistra post-novecentesca e sulle trasformazioni registrate nei principali partiti comunisti dell’Europa occidentale.

2. Il dibattito sulla sinistra.

Nella seconda metà del Novecento, quasi nello stesso momento in cui si assiste al crollo del muro di Berlino e all’implosione dei regimi a socialismo reale, in Europa si sviluppa un forte interesse per lo studio delle categorie destra e sinistra. Il dibattito vede coinvolti numerosi autori: filosofi, storici, studiosi delle dottrine e del pensiero politico contemporaneo, sociologi e politologi di varia estrazione e formazione culturale. Nel 1981, con Left and Righ, Jean Laponce si colloca tra i pionieri di tale riflessione, ribadendo la necessità di mantenere le categorie tradizionali della politica moderna come chiavi d’interpretazione efficaci anche in epoca contemporanea. Su questo stesso filone di pensiero, in Italia, Dino Cofrancesco (1981, 1984) pubblica due lavori consecutivi, a cui seguono numerosi studi e ricerche3. Dopo i fatti del 1989 anche Norberto Bobbio (1994) arriva a occuparsi del tema, rimarcando l’efficacia di tale distinzione dopo la crisi delle ideologie novecentesche. Abbandonata l’ipotesi del superamento rivoluzionario dello Stato borghese capitalistico, in età post-bipolare per Bobbio destra e sinistra continuano a mantenere una funzione d’interpretazione «diadica» dei rapporti politici, fondata soprattutto sul principio d’eguaglianza. Per il filosofo torinese, anche dopo il 1989, se la sinistra è ancora quella parte politica che mostra interesse per il conseguimento delle condizioni di eguaglianza sostanziale, la destra continuerebbe a fondarsi essenzialmente sul concetto della disuguaglianza. Detto altrimenti, mentre per la sinistra (à la Rousseau) gli uomini nascono originariamente eguali per essere resi diseguali dal processo di differenziazione a cui sono sottoposti nella società in cui vivono; per la destra (à la Nietzsche) gli uomini sono diseguali e soltanto nella società, con la morale del gregge e l’utilizzo della religione come strumento di compassione e rassegnazione, sviluppano condizioni di maggiore assimilazione. Per Bobbio (1994, p. 79): «Se vi è un elemento caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è l’egualitarismo, inteso […] non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano uguali in tutto, ma come tendenza a rendere più eguali i diseguali». Dopo la riflessione di Bobbio la difesa delle categorie destra e sinistra continua ad appassionare numerosi studiosi anche nei decenni successivi. Infatti, sebbene i processi di trasformazione economica e sociale sperimentati negli anni a cavallo del secolo mettano a dura prova le ideologie politiche tradizionali, parte della letteratura nazionale e internazionale continua a schierarsi dal lato di chi crede che non siano disponibili idee nuove in grado di descrivere più efficacemente il mutamento in corso. A questo proposito, per Marcel Gauchet (1992) la droite e la gauche continuerebbero a essere chiavi di lettura funzionali anche in epoca contemporanea, dimostrando di saper interpretare il progressivo mutamento in corso. Su questa stessa lunghezza d’onda si collocano le riflessioni avanzate da altri autori contemporanei, convinti che destra e sinistra continuino a essere due modi distinti di rappresentare la scissione individualistica che caratterizza la modernità e la post-modernità e, perciò, due famiglie politiche diverse, ma tuttora capaci di rappresentare il conflitto esistente tra particolare e universale (Santambrogio 1997, 1998; Galli 2010).
Nonostante i contributi a difesa delle categorie classiche della politica, a partire dai primi anni novanta del Novecento non mancano interventi a sostegno delle ragioni opposte. In tal senso, va innanzitutto segnalato il lavoro svolto da Anthony Giddens, prima con un testo del 1994 significativamente intitolato Beyond Left and Right e poi con un volume militante dedicato allo studio della Third Way (1998). Di lì a poco, quest’ultimo saggio diventerà il manifesto del laburismo inglese ai tempi di Tony Blair. Rispetto alle due categorie tradizionali, secondo Giddens non si possono non considerare le modificazioni intervenute nella destra e nella sinistra in regime di globalizzazione e globalismo internazionale. In sostanza, per il sociologo inglese, a sinistra viene totalmente a mancare un agente sociale, una «classe» marxianamente intesa, capace di far marciare sulle proprie gambe il progresso destinato a realizzare il programma della trasformazione sociale. Per questo motivo, lungi dall’essere interessato a misurarsi con un progetto di mondo ideale, l’autore si pone in ottica di «realismo utopico», per un modello di società democratica in grado di garantire, al di là della contrapposizione destra/sinistra, il rispetto dei principî liberali, prestando particolare attenzione alle questioni ambientali, alla regolazione del territorio e alla costruzione di un processo partecipativo largamente inclusivo. Tra gli studiosi critici della dicotomia destra e sinistra si ricordano anche Lasch (1991) e Sternhell (1978, 1983). Il primo concentra la sua analisi sull’idea di «progresso», intendendo con questo concetto la convinzione maturata nelle democrazie occidentali di un mondo creduto privo di limiti umani. Per Lasch, destra e sinistra, pur con sguardi diversi, condividono la desiderabilità dello sviluppo tecnico ed economico e con ciò l’inevitabilità del progresso nel corso della storia dell’umanità. Sternhell, invece, propone una riflessione tutta centrata sui contenuti delle categorie politiche contemporanee, arrivando ad affermare sul piano ideologico il superamento della diade destra-sinistra. Seppur con ragioni molto diverse, anche Hanspeter Kriesi (1998), e con lui una parte della letteratura politologica internazionale (Knutsen - Scarborough 1995; Gabel 1998; Kriesi e altri 2008), si ascrive all’elenco dei critici di tale contrapposizione, spiegando le dinamiche politiche sviluppatesi nel XXI secolo con la distinzione operata tra «vincitori» e «vinti» del processo di globalizzazione. In questa prospettiva, nei governi occidentali post-bipolari, le forze politiche con responsabilità di governo tenderebbero a difendere lo status quo e gli interessi dei «vincitori», mentre le formazioni politiche marginali, prive di responsabilità di governo, finirebbero con lo schierarsi al fianco dei «vinti» della globalizzazione, assumendo posizioni fortemente critiche nei confronti degli equilibri del potere costituito e delle classi dirigenti in carica. Per il superamento della divisione tra destra e sinistra si collocano anche il ragionamento di Alessandro Campi (1997) e quello di Roberto Segatori (1997, 2015). Sul piano del realismo politico, Alessandro Campi non contesta il perpetuarsi della dicotomia tradizionale del sistema politico europeo, né con ciò la sopravvivenza di gruppi, movimenti, correnti di pensiero e partiti schierati dall’una o dall’altra parte. L’autore avanza, semmai, dei dubbi riguardo l’utilità delle categorie destra/sinistra in termini di spiegazione storico-politica. Per Segatori, invece, negli anni a cavallo del secolo si sarebbe registrato un vero e proprio «slittamento progressivo» dei contenuti attribuiti alla destra e alla sinistra novecentesche, da cui originerebbero nuovi cleavages sociali che contrappongono cittadini established e cittadini anti-established, ovvero coloro che si trovano in una posizione garantita rispetto alle tutele storiche del sistema di welfare e chi si trova scoperto da tali protezioni sociali.
Fin qui il contesto di riferimento e il dibattito sviluppatosi in letteratura tra critici e difensori delle categorie classiche della politica moderna e contemporanea. A nostro avviso, però, nonostante le differenze con il passato, la distinzione tra destra e sinistra, lungi dall’essere del tutto tramontata, mostra ancora la capacità di fornire un contribuito utile alla lettura dei processi di trasformazione in corso. Infatti, seppure a condizioni molto diverse rispetto a quelle verificatesi nel Novecento, all’inizio degli anni duemila, nei sistemi politici europei e del mondo occidentale, le famiglie destra e sinistra continuano a esprimere e a (tentare di) rappresentare i conflitti tuttora esistenti all’interno della società. In questa prospettiva, riprendendo il filo del ragionamento sviluppato da Bobbio (1994), riteniamo che all’inizio del XXI secolo esistano ancora una destra che continua a essere la parte interessata a difendere e conservare l’equilibrio dei rapporti di forza dominanti all’interno di una data comunità politica e una sinistra che resta definibile come la parte maggiormente interessata a cambiare lo stato di cose presenti, in modo da ridurre, o cercare di ridurre, il divario esistente tra gli strati sociali più abbienti e quelli meno abbienti della popolazione, tra established e anti-established e tra «vincitori» e «vinti» della globalizzazione internazionale. Per questo motivo, in Europa, il termine sinistra può considerarsi ancora il nome di una parte, di un settore della società e di uno schieramento culturale e politico, che, indipendentemente dalle difficoltà contingenti, si candida a governare le contraddizioni contemporanee senza perdere di vista le condizioni di vita materiali delle persone coinvolte. Al riguardo, si potrebbe discutere dell’efficacia con cui le forze politiche della sinistra sopravvissute al «secolo breve» perseguono l’obiettivo dichiarato (quello, cioè, di una maggiore redistribuzione delle ricchezze prodotte), tuttavia, a prescindere dai risultati conseguiti, sullo scenario politico internazionale e nelle dinamiche nazionali di ogni Stato democratico resta viva un’opzione politica che si riconosce nella volontà di continuare a «rendere più eguali i diseguali».
Da questo punto di vista, ci sentiamo di condividere il pensiero di Franco Cassano (2014), che descrive «la sinistra nell’era del cambiamento» come una parte politica profondamente trasfigurata rispetto alle sue forme novecentesche, ma comunque funzionale a interpretare la storia europea anche dopo la caduta dei regimi social-comunisti. Per Cassano, le organizzazioni politiche che si richiamano alla sinistra degli anni duemila dovranno necessariamente fare i conti con le trasformazioni registrate dopo la fine del Novecento, ma tutto ciò «non significa la fine della corsa della sinistra, ma solo l’inizio di un tragitto più laico e impegnativo non assistito dall’esistenza di classi generali» (Cassano 2014, p. 9). A questa riflessione si aggiunge quella di un altro autore che si misura con i temi della sinistra contemporanea. Infatti, dati i cambiamenti registrati nel venticinquennio successivo alla caduta del muro di Berlino, Carlo Galli (2013) descrive così i termini della trasformazione in corso:
Tutti sanno […] che la sinistra è in crisi, e che, al tempo stesso è nella crisi, ovvero si trova dentro la crisi di ciò che l’ha mandata in crisi, dentro la crisi del neoliberismo. Da questa crisi essa non può uscire com’era prima di entrarvi; ma non può neppure uscire trasfigurata, divenuta mimetica rispetto a un tempo che si sta chiudendo. Deve andare oltre. E anche se si dice di solito, sulla scia di Cromwell, che nessuno va tanto lontano come chi non sa dove va, un sistema d’orientamento è indispensabile: l’estemporaneità programmatica della s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Elenco delle abbreviazioni
  6. Introduzione
  7. Parte prima. La trasformazione
  8. Parte seconda. La strutturazione politica
  9. Conclusioni
  10. Le interviste
  11. Bibliografia