Il fattore umano
eBook - ePub

Il fattore umano

Perché è il lavoro che fa l'economia e non il contrario

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il fattore umano

Perché è il lavoro che fa l'economia e non il contrario

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Quali sono le ragioni dello storico ritardo italiano in tema di lavoro? Perché il nostro tasso di occupazione resta tra i più bassi d'Europa? Il nuovo libro di Romano Benini e Maurizio Sorcioni, due tra i più autorevoli esperti di mercato del lavoro in Italia, risponde a questi interrogativi, giungendo alla conclusione che lo sviluppo umano è il fattore fondamentale che crea le condizioni per lo sviluppo economico e che le difficoltà occupazionali italiane dipendono da mancati investimenti e da politiche sbagliate proprio in tale direzione. Il confronto con il panorama europeo, in particolare l'analisi del modello tedesco, è la chiave per chiarire le criticità del nostro paese. Con la crisi, la Germania ha puntato decisamente sui servizi per il lavoro: un investimento puntuale ed efficace, che ha determinato risultati economici che la stessa Germania non aveva mai conosciuto. Negli stessi anni l'Italia ha invece investito poco e male sulla connessione tra i fattori che creano lavoro: competitività, produttività e sviluppo umano; a fare da freno non è solo la politica, ma sono anche i condizionamenti di dottrine economiche e sindacali sbagliate, oltre che un eccesso di regionalismo che ha danneggiato la nostra economia. Il volume propone inoltre un'analisi delle recenti riforme del governo Renzi in materia di lavoro, tentando di capire cosa va nella direzione del cambiamento e cosa ancora manca per riuscire a invertire la rotta. La partita si gioca tutta sul terreno delle competenze e di un ambiente in grado di promuovere il fattore umano, una sfida per il nostro paese ancora in buona parte da vincere.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il fattore umano di Romano Benini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politics & International Relations e Politics. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435561

IV. Il sistema italiano durante la crisi: i gironi dell’inferno

1. Lavorare e innovare per competere.

La sfida del lavoro è stata intrapresa in Italia con molti anni di ritardo rispetto al resto d’Europa e soprattutto attraverso misure e interventi che richiedono la messa in discussione di logiche che per anni hanno ostacolato le riforme necessarie. Queste misure, per essere pienamente valide ed efficaci, devono sollecitare la coesione di un paese, come l’Italia, caratterizzato da una situazione estremamente differenziata al suo interno, oltre che promuovere la capacità di competere, sostenere lo sviluppo umano e l’efficienza del mercato del lavoro, attivare i disoccupati e avviare servizi in grado di far funzionare il nuovo sistema e renderlo accessibile.
Esistono alcune questioni di fondo che vanno affrontate prima di esaminare cosa è successo all’Italia del lavoro durante la crisi. La prima questione riguarda la risposta alla domanda più importante: perché? Non è semplice infatti capire perché in questi anni, mentre i più forti paesi europei marciavano spediti nella direzione della promozione del capitale umano e dell’attivazione al lavoro, l’Italia abbia proceduto con ostinazione nella direzione contraria. Servirà un capitolo intero di questo libro per provare a cogliere i motivi di questa difficoltà nel promuovere il lavoro e per spiegare almeno vent’anni persi nell’inutile battaglia ideologica incentrata ottusamente sulle forme del lavoro e non sui contenuti, tra i fautori della flessibilità senza regole e i sostenitori dell’assistenzialismo a imprese e lavoratori e dell’aumento della spesa pubblica come principale fattore occupazionale. Le altre questioni riguardano invece l’aspetto della grave disomogeneità delle condizioni sociali ed economiche tra le regioni, che fanno dell’Italia il paese rappresentativo al massimo grado di quello che è un aspetto tipico dell’Unione europea di oggi. La coesione, come vediamo, incide fortemente sulla capacità di competere dei sistemi: le nazioni più piccole e coese, come l’Olanda, sono proprio per questo più forti di nazioni più grandi ma segnate al loro interno da condizioni di vita e di lavoro più difformi, come Spagna e Italia; le grandi nazioni che invece hanno investito con decisione su efficaci politiche di coesione, come la Germania, hanno ricavato da questo sforzo il massimo beneficio; è stata proprio la conquista di una più salda coesione rispetto a vent’anni fa il fattore che ha dato la spinta alla Germania.
L’Italia inoltre deve fare i conti con un altro aspetto: ammesso (e non concesso) che le riforme del governo Renzi vadano nell’auspicata direzione e ammesso (e non concesso) che queste riforme siano sostenute da un efficace sistema di governo e di servizi (ancora da costruire e da vedere), è comunque evidente che i dieci anni di scelte non fatte hanno accumulato un ritardo, rispetto ai fondamentali del lavoro, che l’Italia non può certo colmare in poco tempo. E non è solo una questione di tempo: perché l’Italia possa allinearsi ai paesi europei più avanzati, quanto a politiche del lavoro, sono indispensabili alcuni presupposti che ancora mancano: risorse, investimenti, regole e poteri coerenti con questo obiettivo. Se la legge di riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, va in buona sostanza nella direzione auspicata, servono tuttavia ancora molti altri passaggi per colmare il divario, il vuoto che in questi anni della lunga crisi del lavoro l’Italia ha scavato tra sé e i paesi europei più forti e meglio governati.
Il ritardo della politica, come vedremo, dipende anche dall’incredibile ritardo con cui l’ambiente accademico e sindacale italiano ha capito che la crescita economica, in termini di qualità e di capacità di competere, dipende sempre meno dall’aumento del capitale e del lavoro utilizzati e sempre più dalla conoscenza e dall’innovazione, meno dalla quantità e più dalla qualità. Un settore, quello accademico e sindacale, che in Italia è stato ed è tuttora molto legato alla classe politica, più di quanto avvenga nel resto d’Europa: è quest’ambito che ha fornito alle istituzioni buona parte dell’intellighenzia che nel decennio dal 2004 al 2014, quello buttato dell’economia italiana, si è resa responsabile delle scelte più sbagliate e infelici.
Insomma, se le riforme riusciranno a superare e a vincere l’azione negativa di quelle controriforme che sempre contrastano il cambiamento, si dovrà comunque tener conto di tutto il tempo perso e del ritardo storico dell’Italia del lavoro rispetto ai paesi più avanzati per quanto riguarda i presupposti della capacità di competere: la conoscenza, l’attivazione e l’innovazione.

2. Il primo girone: la competitività.

La capacità di contrastare la crisi, di liberare anticorpi ed energie sane, dipende da due aspetti che riguardano il cosa e il quando: il miglioramento dei fattori della coesione (condizioni più omogenee per i cittadini dello stesso Stato) e la capacità di reagire durante le crisi (indice della resilienza di un sistema). Rafforzare la coesione e la reazione: sono gli aspetti che distinguono un sistema sano da un mero complesso di territori non legati tra loro. Per riprendere una vecchia immagine, parliamo della nazione come di un organismo, un organismo sociale ed economico. Se manca questa unità, questa profonda comunicazione tra le parti, questo procedere nella medesima direzione, l’Italia rischia di indicare una semplice «qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico», come sosteneva quel Metternich che fu il più agguerrito nemico del nostro Risorgimento.
Proviamo dunque ad analizzare lo stato di salute dei fondamentali della competitività italiana all’inizio della crisi e durante gli anni cruciali della prima recessione, considerando quindi il periodo tra il 2009 e il 2013. In questo modo possiamo non solo capire cosa è avvenuto, ma anche quali siano state le politiche sbagliate, valutando cos’è accaduto e quali fattori della competitività si sono maggiormente indeboliti in questi anni che precedono le riforme del governo Renzi. A quel punto potremo valutare anche se e come gli interventi dei governi italiani successivi al 2014 abbiano risposto alle indicazioni della Commissione europea e soprattutto alle scelte più efficaci degli Stati usciti dalla crisi in buone condizioni.
Come sottolineato nei capitoli precedenti, durante gli anni cruciali della crisi, tra i paesi che, secondo i rapporti ufficiali della Commissione europea e dell’Ocse, hanno rafforzato la capacità di competere troviamo Belgio, Germania, Ungheria e Olanda, mentre tra i paesi che hanno diminuito questa capacità abbiamo Spagna, Grecia e Italia. Altre nazioni, come Francia, Polonia e Regno Unito, presentano una situazione meno uniforme: durante la crisi alcune regioni si sono rafforzate e altre indebolite. Esiste in ogni caso un dato di fondo, che accomuna l’Italia al resto dell’Europa: gli anni della crisi hanno letteralmente «fatto a pezzi» l’Europa, sempre più divisa tra le diverse nazioni che la compongono, e con una disomogeneità e una divisione interna che si duplica anche all’interno dei singoli paesi. Se consideriamo l’Italia, oltre a un generale indebolimento del sistema paese, si sono indebolite in termini di capacità di competere soprattutto le regioni più forti, come la Lombardia (che perde tra il 2009 e il 2013 ben 41 posizioni in Europa), il Veneto e l’Emilia Romagna. Continua nello stesso periodo il crollo di regioni come la Sicilia, la Calabria, la Campania e la Puglia (territori in fondo alla classifica europea da questo punto di vista). Secondo i rapporti ufficiali della Commissione europea sulla competitività regionale (Rci), dall’inizio della lunga crisi si trovano in migliori condizioni di salute rispetto a prima solo la Basilicata, il Molise, l’Umbria, la Sardegna e la Liguria. Sono decisamente più forti solo le due Province autonome di Trento e Bolzano, non a caso quelle che hanno investito maggiormente nei settori dello sviluppo umano e dell’innovazione, adottando anche interventi tarati sul modello tedesco. In ogni caso, valutato per capacità di competere, durante la crisi il sistema italiano si è diviso ulteriormente al suo interno e ha dimostrato una minore capacità di tenuta d’insieme, anche a causa di un sistema di poteri e funzioni sui temi del lavoro e dello sviluppo gestito quasi interamente dalle regioni e con scarsi poteri attribuiti allo Stato. Inoltre, se consideriamo i diversi fattori, analizzando gli indicatori di competitività con cui la Commissione europea e l’Ocse esaminano la forza di un sistema, emerge come l’Italia sia un paese che procede in ordine sparso, con regioni che hanno condizioni tra loro estremamente difformi. Gli unici fattori, ad eccezione della salute (merito anche delle nostre abitudini alimentari), in grado di unificare le condizioni della competitività italiana sono proprio quelli che riguardano lo sviluppo umano e la capacità istituzionale; e da questo punto di vista si registra una situazione comune, ma in senso negativo: tra il 2009 e il 2013 tutte le regioni italiane, tranne le Province autonome di Trento e Bolzano, perdono colpi nello sviluppo umano e nel governo. La capacità di governare e promuovere lo sviluppo umano: questo è stato in sintesi il problema che ha impedito all’Italia di uscire dalla crisi, liberando capacità, energie, competenze e merito.

3. Il secondo girone: lo sviluppo umano.

Abbiamo visto come gli aspetti della promozione dello sviluppo umano siano centrali per la capacità di competere: la buona salute, la conoscenza e il lavoro sono i fattori che determinano le condizioni della capacità d’agire delle persone e che quindi creano sviluppo. L’Italia si è presentata all’inizio della crisi con situazioni molto diverse al suo interno proprio su questi aspetti: le condizioni del sistema sanitario in genere buone e ben distribuite tra le regioni e a livello nazionale; il sistema educativo nella media europea, ma con forti differenze tra le regioni; il sistema della conoscenza e dell’alta formazione in condizioni peggiori, ma non ancora compromesso, e il sistema del mercato del lavoro in generale in pessime condizioni, tranne che per le solite e limitate eccezioni.
È evidente che la nostra possibilità di migliorare il sistema Italia e di farlo funzionare al meglio dipende dagli investimenti che facciamo nello sviluppo umano e nei territori più in difficoltà. Andiamo allora a vedere cosa è successo tra il 2009 e il 2013, nell’evolversi della crisi europea.
Rispetto alle condizioni della salute, sembra che gli italiani stiano oggi persino meglio, e che la crisi non abbia nuociuto al loro benessere fisico. Non si tratta però solo di misurare l’efficienza del sistema sanitario: questo indicatore valuta la condizione della salute, che dipende molto anche dalle abitudini e dal regime alimentare. Il merito, quindi, è in gran parte della nostra tradizione, della dieta mediterranea. L’investimento nel sistema sanitario è comunque rimasto stabile, anche se sono stati fatti alcuni tagli, peraltro a volte necessari. In ogni caso per la salute dei suoi cittadini l’Italia spende in media meno della Germania, che ha aumentato di molto gli investimenti nel sistema sanitario proprio durante la crisi.
L’educazione di base considera il livello di apprendimento linguistico e matematico dei ragazzi. La condizione della scuola primaria italiana è buona, ma non eccellente: questa eccellenza spetta agli inglesi, ma soprattutto ai polacchi e ai finlandesi (sempre tra i primi in Europa durante gli anni dal 2008 al 2014). In ogni caso durante questa fase l’Italia ha diminuito la spesa per l’educazione primaria, anche se in modo contenuto, e ha perso qualche posizione. Il problema è che, più si prosegue con gli studi, più in Italia diminuiscono gli investimenti e di conseguenza la qualità dei sistemi formativi: con il proseguimento dei cicli scolastici cresce infatti il divario come spesa media rispetto agli altri paesi europei. Le regioni italiane che rientrano nella media europea per l’alta formazione e l’aggiornamento professionale sono Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Friuli, Marche, Toscana, Umbria, Lazio e Molise, insieme alla provincia di Trento. Si tratta comunque di una posizione medio-bassa, mentre le altre regioni si collocano nella fascia delle peggiori d’Europa. Il fenomeno più rilevante però è un altro: tutte le regioni italiane durante gli anni più intensi della crisi hanno perso posizioni per quanto riguarda l’accesso alle conoscenze e la qualità dei sistemi di alta formazione. Non è un caso che in questo periodo siano diminuiti gli investimenti in scuola, università e ricerca.
Un fenomeno tipicamente italiano è inoltre quello derivante dalla particolare governance del nostro paese, caratterizzata dal ruolo non indifferente riservato alle regioni. Mentre la spesa pubblica nazionale per l’istruzione scolastica durante la crisi è rimasta stazionaria (mentre nel resto d’Europa cresceva), quella regionale è addirittura diminuita del 20% dal 2008 al 2014. Una vera e propria corsa del gambero che ha riguardato sia il Nord Italia più sviluppato che il Mezzogiorno.
Come mostrano le ricerche dell’Invalsi, l’ente che si occupa di valutare e misurare i sistemi formativi e di istruzione, l’Italia è caratterizzata da:
a) una spesa per istruzione scolastica e formativa più bassa della media europea;
b) una spesa per l’istruzione universitaria e la ricerca notevolmente più bassa della media europea;
c) una forte differenza di spesa e di qualità degli interventi tra le regioni italiane.
Questi tagli alla spesa sono figli delle politiche attuate dai governi italiani per stabilizzare il debito pubblico. Se l’obiettivo era corretto, la strada scelta è però non è stata delle più felici, se non sciagurata: l’Italia ha diminuito il debito durante la crisi attraverso tagli lineari alla spesa in conto capitale, tra cui principalmente la spesa per investimenti. Insomma, per rispondere ai dettami della Commissione europea e per limitare lo spread, l’Italia ha deciso di tagliare le proprie radici, più che potare i rami inutili. Se consideriamo la spesa in conto capitale per studente, il quadro diventa ancora più disastroso: questa, tra il 2008 e il 2014, ha continuato a diminuire, fino a determinare un taglio complessivo di quasi il 15%, arrivando al 30% se consideriamo il periodo dal 2004 al 2014. Se poi valutiamo l’area del paese che avrebbe avuto bisogno piuttosto di maggiori investimenti in istruzione e formazione, il Mezzogiorno, il taglio in questo senso, nel decennio, è stato addirittura del 47%, che diventa il 20% se si considera il periodo della crisi.
La scelta politica cha ha caratterizzato i peggiori anni della vita sociale ed economica della recente storia italiana è chiara: disinvestire nel capitale umano. Un indirizzo netto che ha prodotto un’altra grave conseguenza: il forte dislivello tra i giovani italiani quanto a conoscenza e alfabetizzazione. I risultati dei test Invalsi realizzati negli scorsi anni mostrano un quadro davvero impietoso da questo punto di vista e rispetto alla situazione degli altri paesi europei. Nel confronto con Germania e olanda l’Italia registra nelle competenze linguistiche e matematiche dei giovani un grave ritardo (misurato con una distanza di 15 punti dalla Germania e 25 dall’Olanda). Si tratta tuttavia di un dato medio, che, come tutti i dati medi relativi allo sviluppo umano, non dà conto delle differenziazioni che esistono all’interno di un paese. Se consideriamo infatti i giovani del Nord Italia, la distanza con i loro coetanei non è enorme, e, se è maggiore rispetto ai francesi, è comunque sullo stesso livello degli inglesi. Sul dato medio italiano negativo, rispetto alle competenze misurate da Invalsi, non c’è dubbio che incidano i risultati registrati nelle regioni del Mezzogiorno. Il Centro-nord è di tre punti sopra la media, mentre il Centro-sud è sotto la media di quattro punti. Davvero imbarazzante la situazione in Sicilia: nella regione italiana meno competitiva e tra le peggiori in Europa quanto a sviluppo umano, la competenza dei suoi giovani è di ben sette punti sotto la media, diminuita anch’essa con la crisi. Questa differenza si può misurare, naturalmente generalizzando, anche tenendo conto delle classi: un ragazzo lombardo che frequenti la terza classe di un istituto scolastico superiore (di secondo grado) ha competenze simili a quelle di un suo coetaneo francese in terza classe, ma entrambi hanno le stesse competenze di un coetaneo olandese o tedesco che frequenti la seconda classe dello stesso istituto. Invece, un ragazzo siciliano che frequenti la quarta classe delle superiori in media ha le stesse competenze di un lombardo che frequenti la terza classe o di un tedesco che frequenti la seconda.
Il divario nella conoscenza è alla base di quella piramide che poi produce divari in ter...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. I. La regola dei cerchi concentrici
  7. II. Il fattore umano: capaci d’agire
  8. III. Il sistema tedesco durante la crisi: i cieli del paradiso
  9. IV. Il sistema italiano durante la crisi: i gironi dell’inferno
  10. V. Il confronto
  11. VI. All’origine del male
  12. VII. Qualità contro quantità
  13. VIII. Le riforme e la strada della qualità e dello sviluppo umano
  14. IX. Cosa manca e cosa va ancora fatto
  15. X. Per una politica dello sviluppo umano in Italia
  16. Conclusioni
  17. Riferimenti bibliografici