Le implacabili
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Violenze al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento

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Violenze al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento

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Pochi temi sono terreno di silenzi e tabù come la violenza femminile. Che le donne possano essere attori della violenza e non solo vittime è sembrato a lungo un ossimoro: parte integrante dei sistemi permanenti e impliciti del pensiero, la rappresentazione del femminile è ancorata a un'immagine di dolcezza e di rifiuto del male che trova espressione nel classico cliché della donna-angelo o nell'icona della madre. A questa ritrosia si aggiunge il timore che trattare della violenza agita o immaginata da madri, sorelle e figlie possa far sviare l'attenzione dal drammatico problema della violenza subita, dagli abusi domestici agli stupri di guerra. Eppure, storia e letteratura sono popolate di donne capaci di opporsi al dominio maschile con il ricorso alla forza e persino di rivestire ruoli di rilievo nell'ambito virile per eccellenza, quello della guerra. Non ovunque, nei contesti nazionali, queste (anti)icone di genere hanno trovato la stessa visibilità. Se si esamina il campo letterario in lingua inglese, e particolarmente quello statunitense, ci si imbatte in scrittori e scrittrici che hanno tematizzato personaggi forti, bellezze letali, eroine sadiche e implacabili che non si esauriscono nello stereotipo misogino della femme fatale, ma diventano lo specchio letterario di istanze di emancipazione che portano le donne a confrontarsi progressivamente con lo spazio della violenza attiva e a raccontare (talvolta vivendoli in prima linea) i conflitti del loro tempo. In un viaggio che prende le mosse dalla straordinaria vicenda di Margaret Fuller, cronista dell'assedio di Roma del 1848, e giunge fino ai campi di battaglia della Grande guerra, narrati da una generazione di scrittrici messe in ombra (e spesso ridicolizzate) dai più celebri colleghi maschi (Hemingway per primo), questo volume attacca una visione naturalizzata del genere e rivela le sfumature e le ambiguità del rapporto tra i volti della violenza agita e le donne come agenti della storia.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435745
Argomento
History
Categoria
World History

II. Nathaniel Hawthorne e i delitti femminili.
The Blithedale Romance (1852) e The Marble Faun (1860)

1. Femmes fatales e questione femminile.

L’immaginazione hawthorniana ha una consuetudine di lunga data con la figura della femme fatale. La ritroviamo nel racconto germinale Rappaccini’s Daughter (1844), così come nei romanzi The Scarlet Letter (1850), The Blithedale Romance (1852) e The Marble Faun (1860): nel velenoso magnetismo di Beatrice Rappaccini, nella silenziosa ribellione faustiana di Hester Prynne, nell’aggressiva sicurezza dell’emancipata Zenobia, nella bellezza della pittrice di sangue ebraico Miriam, avvolta in un inquietante mistero. Aderenti ciascuna a modo proprio al modello della femminilità fatale, le protagoniste di queste opere sono donne fiere, seducenti e passionali, segnate dal peccato o da un oscuro segreto, dotate del potere di sopraffare le figure maschili a cui si associano, anche se poi, come nel caso di Beatrice e Zenobia, finiscono per soccombere.
A partire da Love and Death in the American Novel (1960) di Leslie Fiedler, la critica ha visto agire nelle dark ladies di Nathaniel Hawthorne (1804-1864) i fermenti del proto-femminismo statunitense e i primi timidi mutamenti nella condizione delle donne vittoriane, un processo a cui lo scrittore assiste ammirato ma che allo stesso tempo teme1. La natura della sua visione dell’emancipazione femminile, e delle donne in generale, è una delle questioni più dibattute, al punto da generare punti di vista polarizzati che da un lato rivendicano l’atteggiamento radicale, dall’altro il conservatorismo di Hawthorne. Se è la seconda tesi a risultare prevalente, trovando sostegno nelle aspre prese di posizione extraletterarie in cui Hawthorne stigmatizza il successo a buon mercato delle scrittrici sue rivali o l’eccezionale parabola di Margaret Fuller, le pioneristiche riflessioni di Nina Baym sul «femminismo» dello scrittore hanno condizionato in modo decisivo i termini del dibattito. Sottolineando l’interiorizzazione delle istanze femministe da parte di Hawthorne e la complessa dialettica tra la componente maschile e femminile della sua stessa personalità, Baym ha contribuito ad aprire la via a interpretazioni che riconoscono come centrali all’esperienza biografica e all’opera hawthorniana ambivalenze e tensioni di genere, identificazioni femminili, spinte omosociali e omoerotiche2.
Un aspetto su cui si è appuntata l’attenzione critica è l’influenza esercitata sui personaggi delle femmes fatales da Margaret Fuller. Insieme alla moglie Sophia Peabody, negli anni di Boston Hawthorne strinse un’intensa amicizia personale con Fuller, e fu solo quando lei si trasferì prima a New York e più tardi in Italia che se ne allontanò. Nel 1858, a otto anni dalla sua morte, compose nel diario un cruciale, spietato ricordo che rivela un intrico di sentimenti contrastanti. Vi si ritrova disprezzo per le sue scelte di vita, incomprensione per le sue sfide alle convenzioni e desiderio di svilirle, ma anche un’attrazione sotterranea per la dimensione della sua sessualità:
Era una persona ansiosa di provare ogni cosa, e di saturare la sua esperienza in tutte le direzioni; aveva una natura forte e rozza, che aveva cercato in tutti i modi di rendere più raffinata, con immane fatica; ma naturalmente poteva modificarla solo in modo superficiale. La soluzione dell’enigma va cercata in questa direzione […] Margaret non ha lasciato nei cuori e nelle menti di coloro che la conobbero nessuna profonda testimonianza della sua integrità e purezza. Era una grande frode; naturalmente con molto talento, e molta sostanza morale, altrimenti non avrebbe potuto essere una frode così grande. Ma si era riempita di qualità prese in prestito, di cui aveva scelto di dotarsi, ma che non si erano radicate in lei3.
Agli occhi dell’Hawthorne dell’ultima fase, l’ex amica non è che una volgare, ancorché talentuosa, ciarlatana. Ma proprio la drammatica vicenda di Fuller e il fascino della sua personalità costituirono per lo scrittore, come ha argomentato Thomas Mitchell in Hawthorne’s Fuller Mystery, una potente matrice su cui modellare le sue eroine tragiche, nel tentativo di penetrare l’enigma di un’esistenza dominata dall’anticonformismo e dalla trasgressione delle norme di genere4.
È significativo che il crudele cameo di Fuller abbia preso forma durante il soggiorno romano di Hawthorne, ovvero nel luogo in cui non solo si era svolta l’ultima turbolenta fase dell’avventura fulleriana, ma in cui viene scritto e ambientato l’ultimo romanzo compiuto dello scrittore. Attraverso il filtro delle strutture allegoriche e del tema delle belle arti, che svuotano il racconto di agganci diretti con la storia e la politica, The Marble Faun presenta una serie di allusioni alla Repubblica Romana e alle azioni compiute da Fuller in quel contesto. Lo spettro di Margaret rivivrebbe nel personaggio dell’artista Miriam, nella sua esotica sensualità, intelligenza e indipendenza, così come nella sua ribellione al dispotismo patriarcale e cattolico rappresentato dal misterioso Modellofrate che la perseguita, e di cui riesce obliquamente a disfarsi5. In sintonia con questa tipologia di lettura «a chiave», altre interpretazioni hanno puntato a riannodare i fili, abilmente occultati, del rapporto tra il romanzo e il sostrato storico-biografico. John Carlos Rowe, ad esempio, ha resuscitato la presenza del nutrito circolo di artiste, scrittrici e scultrici frequentate da Hawthorne negli anni romani. Percependole come una minaccia per gli equilibri di genere e l’autorità maschile, suggerisce Rowe, ad alcune di esse lo scrittore riconosce il potere di incarnare una sorta di incontrollabile terrore erotico di origine pagana6.
Fa parte di questa famiglia di approcci una brillante lettura in chiave lacaniana di Nancy Proctor. Leggendo il romanzo come un racconto poliziesco, sulla scorta del seminario sulla Lettera rubata di Lacan, Proctor si concentra sulla macroscopica cancellazione della figura della scultrice dalla scena del delitto. Nell’ordine simbolico fallico come descritto da Lacan, nel quale la donna «è» e non «ha» il fallo, la soggettività femminile è antitetica alla creatività artistica: la scultrice risulta così una figura impossibile da concettualizzare. Invece di rappresentare l’artista realmente esistita Harriet Hosmer, Hawthorne, che riproduce il discorso fallico, trasferisce le caratteristiche della creazione di quest’ultima – una scultura della regina siriana Zenobia – su un’opera scultorea ridenominata Cleopatra e attribuita allo scultore fittizio Kenyon (ispirato allo scultore reale William Wetmore Story, autore di una Cleopatra). L’immagine centrale dell’artista donna risulta dunque assente, o evocata solo per contiguità metonimica: né Harriet Hosmer né la sua scultura sono vere presenze, poiché costituiscono ciò che Hawthorne non può dire né raffigurare, il limite impossibile della sua immaginazione romanzesca7. Ma è questo l’unico tabù evocato dal testo? Ammesso che Hawthorne interroghi la «questione femminile», agitando al contempo uno spettro fallico, la scultrice appare solo come una delle possibili declinazioni di una figura ancora più problematica da rappresentare: la donna come attrice di violenza.
La violenza femminile è uno dei grandi temi sommersi di The Marble Faun, strettamente intrecciato alla concezione della artista e alle oggettivazioni della sua arte, associato all’immaginario stesso della donna emancipata, ma anche implicito nel sovvertimento dell’ordine politico e sociale provocato dalle rivoluzioni nazionali, sul punto di scatenarsi nuovamente nella guerra civile americana. Complice il paradossale rilievo, nell’economia del romanzo, del delitto di cui Miriam è mandante, la critica si è raramente soffermata sulla pervasività di una problematica non solo centrale all’immaginazione di Hawthorne, ma importante per le politiche sessuali e di genere nell’America ottocentesca. The Marble Faun non è infatti un archivio isolato di immagini, modelli e frammenti relativi a uno dei più radicati tabù della cultura, il cui riaffiorare ha affiancato il progressivo ingresso delle donne nella sfera pubblica. Nell’evoluzione di questo motivo The Blithedale Romance – ugualmente ispirato alla figura di Margaret Fuller – segna una tappa importante. Lo suggerisce, tra le altre cose, il risalto che nel suo terzo romanzo Hawthorne dà a un’emozione tanto sfuggente quanto sovversiva, la rabbia, rielaborando in modo personale una presenza tematica che attraversa sia una serie di modelli letterari e biografici contemporanei, sia l’immaginario teatrale.

2. La rabbia di Zenobia in The Blithedale Romance.

La prima attestazione dell’interesse di Hawthorne per il femminile violento è con ogni probabilità il racconto The Duston Family (1836), nel quale viene illustrato (e moralmente condannato) il delitto di Hannah Duston, la madre puritana che nel 1697, a seguito di un raid durante il quale le fu uccisa la figlia neonata, trucidò la famiglia di nativi americani presso cui era stata fatta prigioniera8. Passando per la diabolica esplosione di rabbia di una moglie poco rassicurante in Mrs. Bullfrog (1837) e per il letale mantello indossato dall’omonima protagonista di Lady Eleanore’s Mantle (1838), il tema della criminalità femminile è di nuovo adombrato in Rappacini’s Daughter, dove però Beatrice Rappaccini è una vittima eterodiretta del proprio potere mortifero. Viene quindi posto al centro di The Scarlet Letter, nel quale il reato di adulterio di cui si macchia Hester Prynne determina la sua transizione dall’universo privato a quello della visibilità pubblica, regolata dalla legge puritana: un passaggio che si carica di cruciali valenze nel contesto ottocentesco del neonato movimento per i diritti femminili, volto a fare acquisire alle donne americane uno status giuridico e politico autonomo (la Seneca Falls Convention, N.Y., che secondo molti segna la nascita ufficiale del movimento, precede di due anni la pubblicazione del romanzo). È tuttavia con la Zenobia di The Blithedale Romance che l’autore comincia a tematizzare esplicitamente la trasgressione femminile sotto forma di aggressività, facendo balenare in lei il fantasma dell’omicida.
Per certi aspetti la comunità di Blithedale è una sorta di ibrido tra mondo pubblico e privato, trattandosi di un’utopia agraria basata su principî di uguaglianza e condivisione, una micro-società in cui i quattro protagonisti – Hollingsworth, Zenobia, Priscilla e il narratore interno Coverdale – agiscono in base a complicate dinamiche di attrazione, dominanza e sottomissione. Sin dal principio Zenobia appare come il doppio simmetrico di Priscilla, la fair lady infantile, affettuosa e delicata, fisicamente così fragile da non reggersi neppure saldamente sui propri piedi. Bruna, vigorosa, dal passo regale e dalle mani troppo grandi per una donna di proporzioni ordinarie, carica di una sensualità matura che seduce e insieme disgusta Coverdale, Zenobia è una femme fatale moderna, una rappresentante delle idee più avanzate sull’emancipazione femminile. In linea con il principale interesse del romanzo, ovvero mostrare il naufragio dell’ideologia nel tentativo di erigerla a sistema, gli ideali proto-femministi e le scelte di vita eccentriche di Zenobia non reggono la prova dell’esperienza. Il suo innamoramento per uomini sbagliati, e in particolare per l’egocentrico e calcolatore capo-comunità Hollingsworth, gioca infatti un ruolo decisivo nel condurla al suicidio.
La critica si è divisa sul significato da dare alla capitolazione del personaggio. Da alcuni è stata letta come la conseguenza della sua natura inautentica e convenzionale, ma anche come espressione del desiderio di punizione da parte di Hawthorne, identificatosi con il poeta Coverdale e come lui turbato da una sessualità e da una capacità di autodeterminazione percepite come troppo radicali. Altri hanno rimarcato la dialettica interna dei punti di vista dell’opera e l’inaffidabilità della voce narrante, intenzionata a svalutare la statura di un personaggio che mantiene sino in fondo la sua grandezza, scegliendo la morte come suggello dell’impossibilità di cambiare il destino delle donne9. Simili valutazioni trascurano però un aspetto importante, vale a dire la caratterizzazione di Zenobia come incline alla violenza verbale e fisica. Nell’economia fisico-emozionale che governa i personaggi e i loro reciproci rapporti, Zenobia non è semplicemente qualificata come maestosa, traboccante di salute, passionale e insieme altera. È anche particolarmente propensa a inalberarsi, carica di vis polemica e di una rabbia pronta a deflagrare: «Quello non era amore ma rabbia, mescolata a un copioso disprezzo», commenta il narratore nel capitolo XII, sorprendendo Zenobia in compagnia dell’ex amante (o ex marito) Westervelt; nel capitolo XIV, una settimana più tardi, la donna «declamava con una serietà e passione che rasentavano la rabbia, contro l’ingiustizia che il mondo infliggeva alla donna»; nel capitolo XIX, Coverdale intuisce nel suo sorriso «un bel po’ di rabbia sdegnosa», e gli esempi potrebbero continuare10.
Tali caratteristiche situano Zenobia in una zona di genere borderline, pericolosamente vicina a comportamenti di norma accettati (benché a loro volta stigmatizzati) solo nel sesso maschile. Gli storici delle emozioni sottolineano come la rabbia sia sempre stata fortemente connotata in senso di genere, con notevoli ambivalenze. A lungo si è ritenuto che le donne ne fossero più facili prede, a causa della loro fragilità emotiva e minore volontà, e forse non a caso nel mondo greco e medievale l’irascibilità aveva un volto femminile (dalle Erinni a Ira). Ma l’iracondia era vista al contempo come una sfida all’autorità dell’uomo, un rifiuto della propria posizione subalterna; così, sin dall’antichità, la rabbia femminile era di rado, per non dire mai, considerata legittima o meritevole di approvazione sociale11. Se fino alla prima età moderna rabbia e collera erano associate alle donne, a partire dal tardo Settecento la gestione di queste emozioni divenne una faccenda prettamente maschile: al gentiluomo ideale venne chiesto di controllare le passioni sfrenate, come segno della sua distinzione. In età vittoriana il contenimento degli impulsi aggressivi divenne un requisito chiave della rispettabilità sociale, di cui le donne, ancor prima degli uomini, erano ritenute depositarie12. È dunque al modello di docilità dell’Angelo del focolare – a cui nel romanzo si avvicina Priscilla – che Zenobia oppone una strenua resistenza.
Ma vediamo più nel dettaglio tale caratterizzazione. Nello studio delle personalità dei tre amici al centro del capitolo IX, Coverdale contrappon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Quando l’eroe è donna. Guerra e violenza in Margaret Fuller
  7. II. Nathaniel Hawthorne e i delitti femminili: The Blithedale Romance (1852) e The Marble Faun (1860)
  8. III. «A Woman’s Anger»: Louisa May Alcott tra guerra civile, romanzi e sensation fiction
  9. IV. Ritratto di assassina. Potere, desiderio e violenza femminile in Henry James
  10. V. Nella zona proibita. Willa Cather, Edith Wharton, Mary Borden e la scrittura femminile della Grande guerra
  11. Conclusioni