Parte seconda
Maestri
I. Eric J. Hobsbawm e le tradizioni inventate
L’attività più recente di Eric Hobsbawm – in particolare il suo libro Il secolo breve – ha senza dubbio contribuito a orientare le commemorazioni successive alla sua scomparsa verso letture interessate alla sua ispirazione marxista e alle sue riflessioni sulla storia a noi più vicina. In particolare negli interventi giornalistici è stato quasi del tutto dimenticato il suo impegno – vivo soprattutto negli anni settanta e ottanta del Novecento – nel dotto smascheramento di certi abusi della storia e in particolare dell’invenzione di tradizioni che, nell’età moderna, avevano legittimato costruzioni politiche e avevano procurato ‘bandiere’ a sentimenti popolari che attingevano (e attingono) al passato eroi immaginari e simboli atemporali: per produrre nei fatti una memoria deformata utile alla convergenza fra progetti politici e sentire comune.
Questo è senza dubbio il contributo di Hobsbawm che più interessa agli storici non contemporaneisti che vedono travisati gli oggetti dei loro studi: e nella seconda metà del Novecento si è creata una significativa sintonia – non sempre con conoscenza reciproca – fra le ricerche medievistiche più avanzate e questo filone degli interessi del grande storico inglese.
Il 1961 è una data importante per gli studi sul medioevo, che ricevono una svolta da un libro in cui Reinhard Wenskus dimostra l’opportunità di superare il concetto di etnia per sostituirvi quello di tradizione1. Negli stessi anni possiamo osservare l’attività di Hobsbawm, fondatore e componente la direzione della rivista «Past and Present». Se la pubblicazione di un articolo di Édouard Perroy sulla mobilità della nobiltà francese dimostra la capacità di far proprie le scale di valore degli specialisti di medioevo (Perroy, pur poco noto all’esterno, è uno dei migliori medievisti del periodo)2, è soprattutto una nota del 1963 dello stesso Hobsbawm a testimoniare lo sviluppo di un suo orientamento critico verso le deformazioni nazionalistiche della storiografia: il saggio elogiato è di František Graus, polemico contro gli storici tedeschi che celebrano i regni germanici post-romani come superamento della tirannia e dell’arbitrio dell’impero3.
Nel 1969, sempre in «Past and Present», è pubblicato un articolo del genetista Cyril Dean Darlington sugli aspetti genetici della società4. Vi si nega una definibilità statica dei caratteri etnici, si riconosce un’evoluzione interna di tali caratteri, ma si continua a individuare una sorta di «confinabilità» esterna fra etnia ed etnia: ciò che differenzia questo contributo dalle conclusioni, successive e ben più radicali, dei genetisti italiani Luca Cavalli-Sforza e Alberto Piazza5.
Sono anni decisivi per la messa in stato d’accusa delle strumentalizzazioni nazionalistiche del passato: vi si impegna con successo il grande antichista Moses Finley, prima con una rassegna di innovazioni e dibattiti, poi con il suo notissimo Uso e abuso della storia6. «Past and Present» e Hobsbawm affrontano il tema del passato coniugato al presente in particolare nel 1972: a un articolo di Philip Abrams sul senso del passato e le origini della sociologia7, si accompagna un contributo fondante dello storico inglese sulla «funzione sociale» del passato8.
Sul finire degli stessi anni settanta una monumentale storia dei Goti9 di Herwig Wolfram suggeriva l’abbandono definitivo della nozione di etnia e avviava l’intensa operosità della scuola di Vienna10, impegnata a negare le identità etniche più specifiche ma anche a ridimensionare il rilievo storico-sociale delle grandi aree linguistiche. Uno scolaro di Wolfram, Walter Pohl, è tuttora uno dei più espliciti ed efficaci nell’indurci a diffidare di ingannevoli etnonimi come «Romani»11 e nel sottoporre a critica nozioni consolidate, come quella stessa di «Germani»12.
Era stato un medievista americano in intenso rapporto con la scuola di Vienna, Patrick Geary, ad avviare all’inizio degli anni ottanta la riflessione più corrosiva della nozione di Germani13, ritenuta in sostanza – con riferimento a Tacito – un’invenzione di successo della cultura romana. Nel frattempo, che i procedimenti ‘inventivi’ fossero propri non solo delle grandi culture nazionali ma anche delle costruzioni identitarie delle minoranze, era stato suggerito nel 1981 anche da un sociologo di vasta cultura come Alain Touraine a proposito di Occitani14.
Ambienti scientifici diversi, solo sporadicamente in contatto fra loro, percorrevano il terreno della storia ‘usata’, e i tempi erano maturi per l’applicazione sistematica di nuovi metodi a diversi periodi storici, con un orientamento di cui Hobsbawm è stato indiscusso protagonista. Un convegno organizzato dall’attivissimo periodico «Past and Present» è all’origine del volume che nel 1983 ha definitivamente portato alla conoscenza di un pubblico vasto il tema dell’«invenzione della tradizione», curato da Hobsbawm insieme con Terence Ranger15. Da questo momento si verificano due diverse direzioni di scambio interdisciplinare, con una sostanziale asimmetria. L’opera inglese influenza e fa da quadro teorico per i medievisti: non è un caso che uno dei saggi di Ranger sia sull’invenzione della tradizione nell’Africa coloniale e che, in un secondo tempo, Geary dedichi un capitolo importante – a cui dà valore esemplificativo – alla tradizione Zulu inventata da missionari europei fra Otto e Novecento16. Gli aggiornamenti antietnici dei medievisti non risultano invece presenti nelle riflessioni di Hobsbawm. Ciò mentre in campo medievistico, a partire dagli anni ottanta, si facevano strada posizioni decostruzioniste ben più radicali rispetto alla scuola di Vienna: per Walter Goffart il passato non esiste se non come passato ricostruito e quindi, sul piano etnico-identitario, afferma che sono già i contemporanei o i primi cronisti successivi agli eventi a costruirlo17.
Se diamo uno sguardo ad altri campi disciplinari constatiamo che nel 1992 un grande egittologo attento alle scienze sociali, Jan Assmann, distingue le «strutture etniche di base» dalle «forme di incremento» e, quando erano in azione queste ultime, dovevano essere adottate Kohärenzfiktionen (finzioni di coerenza): elementi costitutivi di queste finzioni sono, secondo Assmann, le «figure di memoria fondamentali»18, che si possono far corrispondere alla Tradition di Reinhard Wenskus.
A una variegata ma sostanzialmente convergente tendenza degli storici precontemporanei corrispondono invece, nelle scienze sociali, contrapposizioni nette. Alla Invenzione dell’etnia dell’antropologo Jean-Loup Amselle, del 198519, in cui gran parte degli storici aggiornati possono riconoscersi, fa da contraltare Le origini etniche delle nazioni del sociologo Anthony Smith20, che mette al servizio delle sue argomentazioni – in cui l’etnia non solo è difesa ma ha il ruolo di motore di vari processi della transizione passato-presente – una bibliografia storica spesso obsoleta e sempre tradizionale. Occorre osservare che negli anni successivi gli orientamenti di Amselle sono ripresi e sviluppati dai migliori antropologi, come Francesco Remotti e Marco Aime21; ma anche che lo stesso Smith di un libro del 2008, Le origini culturali delle nazioni, modera di molto la sua posizione filoetnica, dando spazio a dinamiche culturali giustamente considerate in progressivo adattamento22.
Torniamo a Hobsbawm. Nell’articolo The Social Function of the Past, del 1972, l’autore mostra di conoscere le riflessioni di Finley e sviluppa la distinzione fra il passato cronologico e quello non-cronologico. Questo secondo è nebuloso e indistinto, e il senso del passato «moderno» non può che essere cronologico, perché proprio l’anacronismo può essere un campanello d’allarme, un indicatore di strumentalizzazione del passato. I miti della creazione e dello sviluppo, propri di tutte le società, implicano una «successione temporale» che, se da un lato serve ad attingere a un passato mitico costruendo «radici», dall’altro si presta a verifica da parte degli esperti23.
Si tratta pressoché sempre di un passato così lontano che è poco più che un linguaggio. Aggiungiamo che è un passato meno controllabile, se non dagli storici professionisti: infatti Patrick Geary dimostra che si ricorre molto al medioevo perché è un passato oscuro e poco conosciuto, su cui ci si muove, consciamente o inconsciamente, per non essere smentiti24.
L’impostazione del ragionamento è resa più complessa da Hobsbawm nel saggio introduttivo dell’Invenzione della tradizione. Non solo le tradizioni hanno «un’origine piuttosto recente» ma «talvolta sono inventate di sana pianta»25. Il tema rilevante non è la longevità delle tradizioni, quanto la loro comparsa e la loro capacità di affermarsi. «Non occorre che il passato sia troppo lontano»26 (ecco una differenza da Geary), e l’operazione intellettuale (per lo più socialmente condivisa), se non è invenzione è selezione.
Il passato è una componente inevitabile delle istituzioni, dei valori e dei modelli della società umana. Compito degli storici è analizzare questo «senso del passato», verificare in che cosa consista la selezione e constatare quanto peso abbia la dimensione del «come si è sempre fatto»27. Il «passato sociale formalizzato» è quello che si presta in maggior misura come modello per il presente, anche se ha ovviamente una sua flessibilità. Le innovazioni ci sono, ma sono difficili da legittimare. Una strada per riuscirci è quella di cercare negli interstizi, e giustificare l’innovazione con frammenti di storia mitologizzata. Le società tradizionali non sono statiche, questo è un pensiero vulgar, definiamolo «rozzo»: qui Hobsbawm sta pensando alla transizione fra Otto e Novecento, infatti individua la massima intensità di invenzione della tradizione fra il 1870 e il 191428.
Dall’Invenzione della tradizione risulta che anche gli studiosi hanno operato con materiale di lavoro discutibile: quando hanno cercato nei movimenti contadini la rivendicazione di un «diritto comune», o quando hanno sottolineato, del movimento operaio, il richiamo alla «perpetuità» delle sue conquiste29.
La «storia fabbricata» deve essere comunque in qualche modo familiare alla società a cui ci si rivolge30. Chi sono i promotori e i protagonisti di queste operazioni? Secondo Hobsbawm i più facili da individuare sono i nazionalisti. Coloro che si richiamano al «senso di comunità» sono collocati al secondo posto. Seguono i ricchi borghesi e la piccola nobiltà, impegnati a inventare antenati e a costruire ardite genealogie31.
Sono molto interessanti le parti in cui lo storico inglese attribuisce alle procedure inventive la funzione di garantire la «coesione interna di un mandarinato di rango»32: ciò che riguarda massoneria, associazionismo elitario, scuole e college. Lo sforzo di definire una nuova élite alto-borghese spiega la passione per la genealogia da parte dei borghesi, soprattutto negli Stati Uniti e, come surrogato di antenati nobilitanti, l’appartenenza d’élite alle scuole di istruzione secondaria e alla loro tradizione33.
In un’accezione sociale più complessiva campeggia l’«innovazione» come «correzione» o «rettifica» dello sviluppo, con la natura che deve prevalere sull’innaturale: il richiamo al passato serve come modifica di direzione. Si sa che quello fra il nuovo e l’antico è un rapporto contrastato, e che spesso il primo, per collocarsi in alto in una scala di valori, deve richiamarsi al secondo: è tema che i medievisti hanno affrontato in modo analitico34.
Una rivoluzione può presentarsi come restaurazione, ad esempio come ritorno legittimante a civiltà contadine e pastorali primitive, ricche di valori «buoni». La procedura è quella di una «restaurazione selettiva»35. Ovviamente il luddismo è nostalgico, ma dobbiamo interrogarci: nostalgico di che cosa? di qualcosa che esisteva davvero? Per inciso notiamo che si inscrive in questa problematica un recente libro di Ugo Mattei sui beni comuni36: cerca la rottura nella rivoluzione industriale, che avrebbe infranto le abitudini comunitarie di un medioevo in...