II. L’Italia della ricostruzione (1945-1958)
La fine del conflitto segna una cesura con il passato e un nuovo inizio.
L’Italia è tutta da ricostruire: si devono ricostruire le case; le relazioni sociali; le istituzioni; le campagne e le fabbriche; le scuole; i rapporti e gli equilibri politici. Il paese si risveglia da una guerra che aveva «sospeso» per cinque anni la vita della nazione con conseguenze rilevanti su economia, demografia e società. Al di là degli entusiasmi e degli eroismi, al di là della qualità dei nuovi leader politici, il Ventennio e la guerra hanno lasciato l’Italia senza una classe dirigente, senza una tecnostruttura di grand commis e di amministratori pubblici alternativi a quelli ereditati dal fascismo (e spesso compromessi). L’abitudine stessa alla pratica quotidiana della democrazia deve essere creata ex novo. A cominciare dall’esercizio del voto.
In Italia, il suffragio universale (quasi universale, come si vedrà) era stato introdotto alla vigilia della prima guerra mondiale1: il sistema elettorale del 1913 determina una crescita del corpo elettorale da 3,3 a 8,4 milioni di cittadini (2,5 milioni gli analfabeti), consentendo l’esercizio del voto a circa il 94% degli italiani maschi con 21 anni compiuti; le donne ne restano escluse.
Il superamento di questo filtro, e dunque l’introduzione del suffragio universale maschile in senso proprio, interviene con la legge n. 1985 del 16 dicembre 1918, che estende l’elettorato attivo a tutti i cittadini maschi che abbiano compiuto il ventunesimo anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che abbiano prestato servizio durante la guerra.
La proposta di estendere l’elettorato attivo alle donne ha un destino più accidentato.
Nel 1919, il voto alle donne entra davvero sulla scena politica: […] esso viene allora indicato come obiettivo nel punto 10 del programma del Partito popolare italiano, provocando una condanna da parte della «Civiltà cattolica». È approvato inoltre l’ordine del giorno Sichel che impegna il governo ad ammettere le donne al voto politico e amministrativo e infine viene votata a grande maggioranza la proposta di legge Martini e Gasparotto che realizza questo principio (malgrado il dissenso tra socialisti e popolari sul voto alle prostitute, che alla fine viene escluso). […] Sembra che ormai i diritti civili e politici delle donne stiano vincendo insieme. La chiusura anticipata della legislatura impedisce il passaggio della legge Martini-Gasparotto al Senato, ma ancora nel 1920 vengono presentati tre disegni di legge sul voto delle donne, ed è approvato l’emendamento Sandrini sull’elettorato amministrativo (tra gli interventi a favore, vi è anche quello di Salvemini), mentre un progetto Modigliani del 1922 estende alle donne «tutte le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo» (Rossi-Doria 1996, p. 84).
Con l’avvento della dittatura tutto decade.
Caduto il fascismo, il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945 – in un’Italia divisa e occupata dai tedeschi nelle sue regioni settentrionali – estende finalmente il diritto di voto alle donne che abbiano compiuto il ventunesimo anno di età (e che non siano prostitute schedate). Il provvedimento era stato discusso e approvato nel Consiglio dei ministri del 30 gennaio, con l’opposizione di liberali, azionisti e repubblicani. Il decreto estende alle donne l’elettorato attivo, ma non quello passivo: le donne possono votare ma non essere elette.
Per questo è necessario attendere ancora un anno il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, che conferisce l’elettorato passivo a tutte le cittadine e i cittadini italiani che, il giorno delle elezioni, abbiano compiuto il venticinquesimo anno di età, eccettuati i casi di esclusione esplicitamente previsti.
Le prime donne sono elette nelle elezioni amministrative del marzo 1946. Il 2 giugno si svolgono le prime elezioni politiche, per il Referendum istituzionale monarchia/repubblica e per l’elezione dei deputati dell’Assemblea costituente. Le donne elette sono 21 su 556 (il 3,8%): 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista italiano, 2 del Partito socialista italiano di unità proletaria e 1 del movimento dell’Uomo qualunque.
Finita la guerra, la popolazione sperimenta una fase di rinascita di cui sono protagonisti i nati tra i due conflitti mondiali, la «generazione della ricostruzione». La prima reazione si manifesta nei comportamenti demografici. Il conflitto aveva avuto un impatto negativo anche sulla nuzialità: se negli anni trenta si erano celebrati in media 307 000 matrimoni all’anno (nell’ordine dei 7,2 per 1000 residenti), durante la guerra si scende a circa 215 000 all’anno (con un tasso di nuzialità del 4,7‰).
Dopo la guerra, i giovani e i meno giovani (coloro che erano stati costretti dagli eventi bellici a rinviare il matrimonio) danno corpo, sposandosi, ai progetti di vita legati alla formazione di una nuova famiglia. Già dalla seconda metà del 1945, i matrimoni riprendono slancio: sono quasi 309 000 nel 1945, 416 000 nel 1946, 438 000 nel 1947. Scendono poi a 385 000 nel 1948, ma si mantengono comunque al di sopra dei 350 000 all’anno fino al 1950, l’anno in cui anche Maria si sposa.
I nuovi comportamenti nuziali si riflettono anche nella propensione a sposarsi: nel 1926 contraevano il matrimonio2 835 donne nubili su 1000, nel 1950 il valore era salito a 862. L’incremento è in parte dovuto a un recupero delle nozze non celebrate a causa della guerra, come suggerisce anche l’età media elevata dei coniugi.
Figura 6. Matrimoni, separazioni, divorzi, 1926-2009 (valori assoluti).
Fonte: Istat 2011b.
Gli sposi sono infatti meno giovani di quanto non fossero quelli di 25 anni prima, quando si erano sposati i genitori di Maria: anche se in entrambi gli anni quasi il 37% delle spose ha un’età compresa tra i 21 e i 24 anni, diminuiscono dal 28 al 22% quelle che non hanno ancora compiuto i 21 anni, e che dunque non sono maggiorenni. Aumentano grosso modo nella stessa misura (sei punti percentuali, dal 21 al 27%) le spose della classe d’età 25-29. Le spose che hanno compiuto i 30 anni erano nel 1926 e restano nel 1950 una minoranza (il 15%).
Quanto agli sposi, permane la consuetudine che vede il marito in genere più anziano della moglie (la classe d’età più frequente è, in entrambi i periodi considerati, quella 21-24 anni per le spose e 25-29 per gli sposi), ma per entrambi i sessi si assiste alla stessa traslazione in avanti dell’età alle nozze. Gli sposi minorenni sono una quota minima sia nel 1925 sia nel 1950 (intorno al 4%), ma diminuiscono drasticamente quelli di età compresa tra i 21 e i 24 anni (dal 32 al 22%) a vantaggio di quelli di 25-29 anni (dal 36 al 41%) e di quelli di 30-39 anni (dal 20 al 26%). In entrambi gli anni, infine, l’8% degli sposi ha compiuto i 40 anni alla data del matrimonio.
Maria si sposa in chiesa, e ci piace immaginarla con il tradizionale abito bianco. Il marito è Anselmo: suo padre è un coltivatore diretto, proprietario di un terreno e una stalla, dove lavora insieme ai suoi tre figli. Maria, dopo il matrimonio, si trasferisce nella casa del suocero. Da quando, nel 1929, sono in vigore i Patti lateranensi, la quasi totalità dei matrimoni avviene secondo il rito concordatario, grazie al quale il matrimonio religioso dispiega anche gli effetti civili. Anzi, i matrimoni civili sono andati diminuendo per tutti gli anni trenta, dal primo anno d’applicazione del Concordato, quando erano ancora poco più del 3% del totale, a un minimo dello 0,3% nel 1942. Nel dopoguerra, l’incidenza dei matrimoni celebrati con rito civile resta minoritaria: occorrerà aspettare il 1971 perché oltrepassi nuovamente la soglia del 3%. Oggi, e ormai da un decennio, come si vedrà, i matrimoni civili hanno superato un terzo del totale.
Con la fine del conflitto aumentano anche le separazioni legali, che da 3,3 per 100 000 abitanti nel 1926 toccano un picco nel 1947 (16,2 per 100 000 abitanti, probabilmente per effetto della regolarizzazione di situazioni di fatto verificatesi durante la guerra) per poi attestarsi a 10,9 nel 1952. Sono i primi segnali di un diverso atteggiamento nei confronti dello scioglimento delle unioni, anche se per il divorzio si dovranno attendere ancora quasi vent’anni.
Gli sposi sono anche più colti di quanto non avvenisse in passato. Le percentuali di coloro che non sono stati in grado di firmare l’atto di matrimonio sono decisamente diminuite (meno del 3% per gli uomini e poco più del 4 per le donne, rispetto ai corrispondenti valori del 10 e del 17% di 25 anni prima). Sono gli effetti del progressivo innalzamento del livello di scolarizzazione (conseguenza della Riforma Gentile in vigore dal 1923), particolarmente visibile nel caso delle donne, anche se l’obbligo scolastico protratto a 14 anni era stato prima della guerra largamente evaso, soprattutto presso le famiglie meno abbienti e nelle campagne.
In Italia – ma il fenomeno è diffuso all’intera Europa rurale – si entra nel mondo del lavoro intorno ai tredici anni, dopo avere soddisfatto (o, più spesso ancora, non aver soddisfatto) l’obbligo scolastico. Nel 1951, soltanto un ragazzo su nove continua gli studi oltre quell’età (Judt 2005, p. 227).
L’analfabetismo resta un fenomeno ampiamente diffuso, soprattutto nel Mezzogiorno. Ad esempio, nel 1931 (alla data del Censimento), risultava analfabeta quasi la metà dei residenti in Calabria di 6 anni e più. Vent’anni dopo il tasso di analfabetismo, pur essendosi fortemente ridotto, si attestava ancora al 31,8%, quando a livello nazionale era sceso al 12,9%. Agli analfabeti in senso stretto vanno poi aggiunti coloro che non hanno conseguito alcun titolo di studio (fenomeno in gran parte connesso con quello dell’evasione dell’obbligo scolastico), che nel 1951 erano il 17,9% delle persone di 6 anni e più.
Oltre che nel Mezzogiorno, l’analfabetismo è particolarmente diffuso tra le donne. Al Censimento del 1951 è analfabeta il 10,5% degli uomini con almeno 6 anni d’età e il 15,2% delle donne. Combinando i due «fattori di rischio» dell’analfabetismo, si rileva che alla stessa data tra le donne del Mezzogiorno continentale il tasso di analfabetismo sfiora il 30%.
Anche in tema di fecondità le differenze tra Centro-nord e Mezzogiorno restano notevoli. Quando, a partire dal 1949, la fecondità inizia a declinare, la contrazione è diffusa all’intero paese. Ma nel 1952 a fronte di una media nazionale di 2,3 figli per donna, ogni donna ha in media 1,7 figli nel Nord-ovest e 3,2 nel Mezzogiorno peninsulare. Dodici anni dopo, quando nel 1964 – in pieno baby boom – il tasso di fecondità totale3 tocca il suo massimo di 2,7 figli per donna, le distanze appaiono ridotte ma sempre consistenti (si va dal 2,3 del Nord-ovest al 3,8 del Mezzogiorno continentale).
I cambiamenti che investono i comportamenti riproduttivi accompagnano, e in parte anzi determinano, le profonde trasformazioni che intervengono nelle strutture familiari, che variano sul territorio e per ceto sociale.
Le famiglie più numerose, quelle con sei e più componenti, hanno avuto un ruolo molto importante, come è del resto «naturale» in una società fondamentalmente agricola e rurale, in cui la prole che raggiunge l’età adulta rappresenta a un tempo l’unica risorsa per la crescita e l’unica forma di protezione sociale. Ancora al Censimento della popolazione del 1911, alla vigilia della prima guerra mondiale, una famiglia su tre ha sei componenti o più. Soltanto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale la quota di queste famiglie numerose scende intorno al 20%. Si tratta comunque della seconda classe di famiglia in ordine di frequenza, dopo quelle con tre componenti. Bisognerà attendere il 1961 – negli anni del miracolo economico e alla vigilia del boom demografico – per vedere scendere al 14,4% la quota delle famiglie numerose.
Anche questi cambiamenti, però, investono le diverse aree del paese in misura e con ritmi differenti, a conferma del fatto che sotto quelli che appaiono essere meri comportamenti demografici si celano mutamenti economici e sociali ben più profondi, legati a un pervasivo processo di modernizzazione. Le famiglie con sei componenti o più non sono diffuse uniformemente sul territorio: nel 1951 sono l’11,4% delle famiglie dell’Italia nord-occidentale e il 27,3% di quelle del Mezzogiorno. Con gli anni si assiste a una convergenza dei modelli familiari, ma nel Mezzogiorno l’incidenza delle famiglie numerose scende sotto il 10% soltanto nel 1981, quando ormai nell’Italia nord-occidentale la quota non raggiunge il 3%.
Ancora nel 1952, 7 spose su 10 non lavorano al momento del matrimonio. D’altronde, i bassi tassi di attività femminile (31,6% nel 1926 e 26,0 nel 1952) testimoniano delle disparità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro. Si consideri ad esempio che, sebbene l’eguaglianza tra i sessi sia sancita nella Costituzione, fino agli anni sessanta è precluso alle donne l’accesso alle cariche nei pubblici uffici e in magistratura (Istat 2016b, p. 57).
Anche sul versante delle nascite la reazione al «vuoto» provocato dagli eventi bellici è immediata. D’altronde, tra nuzialità e fecondità sussiste una correlazione positiva, tanto forte da consentire di associare con notevole precisione la stagionalità dei matrimoni a quella delle nascite. Tra 1946 e 1948 i nati superano il milione all’anno. In particolare, nel 1946 si registra il più alto numero di nascite dal 1940 a oggi. È un picco isolato, però: le nascite tornano subito a ridursi, nel solco del processo di transizione demografica. Quando nel 1952 nasce Anna, la prima figlia di Maria, i nati sono già scesi a 864 000.
Nonostante l’aumento della nuzialità, la fecondità diminuisce, dai 3,5 figli per donna nel 1926 ai 2,3 nel 1952. La diminuzione si spiega in larga misura con la «rarefazione» delle nascite dei figli dopo il secondo: nel 1926 rappresentavano il 58% dei parti, nel 1950 sono circa il 40%. Anche il numero medio di componenti delle famiglie inizia a diminuire, anche se lentamente (dai 4,4 membri al Censimento del 1921, ai 4,2 in quello del 1931, ai 4,0 in quello del 1951).
In questo contesto la prima transizione demografica si consolida. Si osserva infatti un incremento particolarmente sostenuto della sopravvivenza: come si è visto, nel 1926 la speranza di vita alla nascita era pari a 52 anni per le donne e a 49 per gli uomini; nel 1952, quando nasce Anna, i valori dell’indicatore sono rispettivamente 68 e 64 anni. Questi straordinari guadagni sono da ascrivere principalmente alla fortissima riduzione della mortalità infantile, che si dimezza scendendo da 126,5 morti nel primo anno di vita per 1000 nati vivi del 1926 a 63,5‰ nel 1952.
Come la quasi totalità dei matrimoni si celebra con il rito concordatario, così la quasi totalità delle nascite avviene all’interno del matrimonio: quelle al di fuori sono il 3,4%. Il diritto di famiglia vigente all’epoca – parte del primo libro Delle perso...