Porta d'Oriente
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Storia della Turchia dal Settecento a oggi

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Storia della Turchia dal Settecento a oggi

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Nella storia del mondo contemporaneo, la Turchia occupa un posto particolare. La sua collocazione geopolitica, nel ganglio decisivo del passaggio tra Oriente e Occidente; il suo passato di cuore pulsante di due grandi imperi (quello romano d'Oriente prima, quello ottomano poi); la compresenza, sul suo territorio, di differenti etnie: tutto fa sì che la storia turca rappresenti uno snodo ineludibile nei fragili equilibri che attraversano lo scacchiere strategico in cui è posta al centro. Con un'analisi radicalmente diversa rispetto alla lettura tradizionale e alla storiografia turca ufficiale, Zürcher ricostruisce la storia del paese a partire dalla fine del Settecento, con la crisi dell'impero ottomano, ripercorrendone tutte le principali tappe, dalla rivoluzione dei Giovani turchi e la nascita della Repubblica ai colpi di Stato, passando per i cambiamenti sociali ed economici nel contesto di una società in rapida evoluzione, fino ad arrivare ai tormentati sviluppi della storia più recente: il conflitto con i curdi, l'ascesa dell'Islam politico, le ambigue relazioni tra la Turchia e l'Europa. Una trattazione completamente nuova è dedicata alle trasformazioni che il paese ha affrontato tra il 2002 e il 2014, negli anni di governo del partito di Erdo?an. Questo grande libro – un classico unanimemente considerato il più autorevole riferimento per la storia della Turchia moderna, pubblicato in ben undici lingue – viene ora riproposto dal suo autore in una versione completamente rinnovata e aggiornata, con l'aggiunta di due cruciali capitoli e di una prefazione all'edizione italiana che riguardano l'ultimo decennio e che aiutano a comprendere le radici dell'attuale situazione turca e le contraddizioni di un paese in bilico tra apertura alle spinte modernizzatrici, rischi di involuzione democratica e tentazioni liberticide, in un inquietante e persistente scenario di sanguinose guerre regionali.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868435974
Argomento
History
Categoria
World History

Parte terza

Una democrazia tormentata

XIII. Il governo del Partito democratico, 1950-60

1. Il nuovo Parlamento e il nuovo governo.

Tra gli storici esiste ampio consenso sul fatto che il trionfo elettorale del Partito democratico nel maggio del 1950 rappresenta uno spartiacque nella storia politica della Turchia contemporanea. La natura del nuovo governo e del nuovo Parlamento, nel quale il DP aveva una maggioranza schiacciante (408 seggi contro i 69 del Chp), era molto diversa dal passato.
Quando si guarda alle caratteristiche sociali dei deputati del DP, si resta colpiti dalle differenze con quelle del periodo kemalista. I deputati del DP erano in media più giovani, avevano radici nei loro collegi, era meno probabile che avessero un’istruzione universitaria ed era più facile che avessero esperienze in campo commerciale o giuridico. La differenza più sorprendente con il Chp era la sostanziale assenza di deputati provenienti dalla burocrazia o dall’esercito. Era chiaro che era arrivato al potere un gruppo notevolmente diverso dell’élite turca1.
Uno dei primi atti del Parlamento fu l’elezione Celâl Bayar a presidente della Repubblica. Sulla sua candidatura si discusse pochissimo: era il fondatore del nuovo partito, aveva un passato da statista che risaliva ai tempi di Atatürk ed era considerato da tutti un moderato. Maggiore fu la competizione per la carica di primo ministro, che alla fine fu assegnata a Adnan Menderes, il quale era appoggiato da Bayar per via della sua popolarità. Menderes divenne non soltanto primo ministro, ma anche segretario del Partito, una carica che nel governo del Chp era sempre stata assegnata al presidente.
Sotto il governo del Chp, l’apparato statale e l’organizzazione del partito erano stati unificati (anche a livello ufficiale), tanto che si potrebbe dire che il partito era solo uno degli strumenti con cui lo Stato controllava e governava la società. Quando il DP arrivò al potere, quel legame venne spezzato. I democratici diffidavano della burocrazia e dell’esercito ereditati dal vecchio regime, e profusero enormi sforzi per riportarli sotto il loro controllo. Di conseguenza, nel corso degli anni Stato e partito ebbero la tendenza a fondersi di nuovo, soprattutto ai livelli più alti, ma a differenza del periodo kemalista era il partito a dominare la burocrazia, e non il contrario.

2. I rapporti fra i partiti.

Fin dall’inizio, i rapporti fra i due partiti furono tesi. Entrambi trovavano difficile adattarsi ai nuovi ruoli, dopo essere stati uno ventisette anni al potere e l’altro quattro anni all’opposizione.
Il DP si considerava il rappresentante della volontà nazionale (millî irade, un’espressione usata continuamente dai suoi dirigenti), con la missione di trasformare il paese e, come il Chp in precedenza, si aspettava che in questo processo l’opposizione svolgesse un ruolo subordinato. Mentre il Chp, in particolare dopo il 1946, sospettava di non avere più un vasto consenso nel paese, il DP sentiva di rappresentare la maggioranza, e pertanto, nella sua visione della democrazia, di godere di un potere e di una legittimazione assoluti per fare qualunque cosa ritenesse necessaria. La costituzione del 1924 non prevedeva organismi come una seconda Camera o una Corte costituzionale che controbilanciassero il potere del Parlamento, e soprattutto dopo il 1954 il governo sfruttò la situazione per rendere la vita difficile all’opposizione.
D’altro canto, il Chp era pieno marasma. Nei primi anni successivi alla sconfitta, durante i quali vi fu una forte espansione economica e sembrò che i democratici stessero mantenendo tutte le loro promesse, il Chp non ebbe alternative politiche da offrire. Nei congressi del 1951 e del 1953 il Chp decise di superare la confusione ideologica e di riguadagnare prestigio presso i suoi sostenitori tradizionali ponendo l’accento sui classici principî kemalisti. Ridefinì le «Sei frecce» dando maggiore rilievo alle politiche sociali, ma rimase sulla difensiva, poiché per la maggior parte degli elettori il programma non aveva attrattive.
Incapace di presentare un’alternativa credibile, il Chp sottopose il governo a un fuoco di fila di critiche su qualsiasi questione, spesso cambiando posizione in maniera strumentale. Il governo era sempre più irritato da quello che considerava un rifiuto del Chp di accettare la legittimità del regime del DP. Ma c’era qualcosa di più della semplice irritazione: il timore profondo che İnönü, la cui posizione alla guida del Partito non era stata messa in discussione nonostante la sconfitta elettorale, in realtà non avesse accettato la situazione e avesse ancora dalla sua la burocrazia e l’esercito. Questa ossessione per İsmet Paşa (il Paşa faktörü o «fattore Paşa» a cui fanno spesso riferimento i giornali dell’epoca) rese i dirigenti democratici insicuri malgrado i successi elettorali2.
Il DP aumentò i propri elettori nelle consultazioni comunali e provinciali del 1950, e ottenne il controllo dell’amministrazione ad ogni livello. Ciò nonostante, il governo, sempre più irritato, sentì il bisogno di replicare all’opposizione ricorrendo all’intimidazione ed escludendo il Chp dai processi decisionali in Parlamento. Il tour nel paese di İnönü nel settembre del 1952 fu accompagnato da violente manifestazioni dei sostenitori del DP, e venne cancellato all’improvviso dallo stesso İnönü quando il governatore di Balıkesir gli rifiutò l’autorizzazione a parlare nella sua città.
Il Chp poteva aver perso la presa sull’elettorato, ma grazie al suo lungo monopolio di potere e al modo con cui la sua attività si era intrecciata a quella del governo, si era trasformato negli anni in un’organizzazione ricca e potente. Tra i suoi beni c’era l’eredità materiale di Atatürk, che consisteva in terre, denaro e in un’ampia quota di minoranza nella Banca d’affari della Turchia. Il governo decise di colpire proprio questo elemento basilare dell’organizzazione del partito. Nel dicembre del 1953 il Parlamento dominato dal DP requisì tutti i beni del Chp e li destinò all’erario. Le Halk Evleri (Case del popolo) e le Halk Odaları (Stanze del popolo), legate a doppio filo al Chp, erano già state chiuse nel 1951, e anche i loro beni erano stati assegnati all’erario.

3. Le elezioni del 1954: aumenta la maggioranza del Partito democratico.

Nel 1953 l’insicurezza di fondo del DP si manifestò anche con l’adozione di vari emendamenti che accrescevano il controllo del partito sulla stampa e sulle università (vietando l’attività politica ai professori). Due mesi prima delle elezioni programmate per il maggio del 1954, la legge sulla stampa fu inasprita ulteriormente.
A conti fatti, la preoccupazione era del tutto immotivata. I successi economici ottenuti assicuravano al DP il sostegno della massa della popolazione, soprattutto nelle aree rurali, e i temi ricorrenti della campagna elettorale del Chp – la mancanza di libertà e le tendenze autoritarie del governo – erano privi di credibilità, in quanto venivano da un partito che era identificato con il passato regime autoritario. Il 2 maggio 1954 il DP aumentò i suoi consensi (dal 53,6% al 58,4%, la percentuale più alta mai ottenuta da un partito in Turchia in elezioni libere), mentre il Chp scese dal 39,9% al 35,1%. In Parlamento ciò significava 503 seggi per il DP e soltanto 31 per il Chp. Ancora una volta, le uniche aree in cui il consenso per l’opposizione era maggioritario erano quelle dell’est sottosviluppato, dove i proprietari terrieri e i capi tribali erano ancora in grado di controllare una grande quantità di voti.
Il terzo partito, il reazionario Millet Partisi (Partito nazionale), che aveva ottenuto un seggio nel 1950, non aveva nessuna rilevanza, ma in ogni caso fu messo fuori legge nel luglio del 1953 per uso politico della religione. Tuttavia, venne subito ricostituito come Cumhuriyetçi Millet Partisi (Partito repubblicano della nazione). Nel 1954 ebbe un certo successo: il 4,8% dei voti e cinque deputati, tutti della provincia di Kırşehir, da dove proveniva il suo capo Osman Bölükbaşı (l’unico deputato del Partito della nazione dal 1950 al 1954).
Oggi possiamo dire che le elezioni del 1954 rappresentarono il punto più alto della vicenda politica del DP. La sua posizione cominciò a deteriorarsi negli anni seguenti per due fattori principali: la crescente crisi economica e il malcontento di alcuni settori dell’élite dominante, soprattutto gli intellettuali e l’esercito.

4. Sviluppi economici.

Per quanto riguarda il passaggio da un’economia statalista, controllata e autarchica a un’economia di libero mercato, il punto di svolta non fu l’arrivo al potere del DP nel 1950, ma le decisioni adottate dal governo İnönü nel 1947 (i primi trattori del Piano Marshall arrivarono nel 1949). È vero comunque che a partire dal 1946 i democratici sono stati i sostenitori più accesi dell’economia di libero mercato e che, una volta al potere, misero in atto con decisione politiche liberalizzatrici. Più del Chp, si resero conto che in un paese come la Turchia qualsiasi vera spinta modernizzatrice sarebbe dovuta partire dall’agricoltura (un punto sottolineato in diverse relazioni americane)3. Sotto la guida di Menderes, per la prima volta nella storia turca, i democratici fecero gli interessi dei coltivatori, e continuarono così fino alla fine. Gli strumenti fondamentali di tale politica consistevano nella concessione di crediti agevolati agli agricoltori e nel sostenere i prezzi dei prodotti agricoli attraverso la Toprak Mahsulleri Ofisi (Tmo, Commissione dei prodotti agricoli), un organismo che acquistava merci per conto del governo.
Sostenuto dall’aiuto massiccio degli americani, in questi primi anni il progresso fu impressionante. I crediti venivano utilizzati per comprare macchinari d’importazione. Fra il 1948 e il 1952, ad esempio, il numero totale dei trattori salì da 1750 a più di 30 000. Ciò consentì di ampliare in maniera considerevole la superficie coltivata, passando da 14,5 milioni di ettari nel 1948 a 22,5 milioni nel 1956 – un aumento che superava di gran lunga la crescita demografica. Grazie anche al clima eccellente che coincise con i primi tre anni di governo dei democratici, si ebbero raccolti abbondanti e un notevole incremento di reddito per i coltivatori. Anche se in questo periodo le ragioni di scambio fra prodotti agricoli e prodotti industriali calarono, l’aumentato volume della produzione agricola compensò la flessione. Guidata dall’affermazione del settore agricolo, nel complesso l’economia crebbe velocemente, a un tasso compreso tra l’11% e il 13%. Anche nelle città i redditi aumentarono, sebbene i profitti crescessero in maniera molto più rapida dei salari.
I principî economici dei democratici erano piuttosto semplici. Essi confidavano nella forza trainante del mercato, una volta che gli fosse stata assicurata una libertà totale. Sotto la forte influenza americana, nel 1951 il governo introdusse una legge per incentivare gli investimenti stranieri. Ci si aspettava che la borghesia turca cominciasse a investire i profitti accumulati negli anni quaranta e che i capitalisti stranieri si mettessero in fila per puntare sull’economia turca. L’apporto delle due categorie fu però deludente. Con poche eccezioni, gli industriali turchi conducevano ancora semplici imprese familiari di cui avevano il pieno controllo, ed esitavano a investire nella misura sperata dai democratici. Nonostante gli incentivi, anche gli investimenti stranieri rimasero molto limitati. Durante il decennio democratico non più di 30 aziende investirono in Turchia, e la loro quota non superò mai l’1% degli investimenti privati totali. La conseguenza fu che, nonostante tutta la retorica liberale, tra il 40 e il 50% degli investimenti proveniva dallo Stato. Tra il 1950 e il 1954 gli investimenti totali aumentarono del 256%. I settori più importanti nei quali si concentrarono gli investimenti furono la rete stradale, l’industria edilizia e il comparto agroindustriale4.
Per la prima volta nuove strade collegarono il paese e consentirono l’accesso ai villaggi. Nel 1950 la Turchia aveva soltanto 1600 chilometri di strade asfaltate. Con l’assistenza tecnica e finanziaria degli americani, nei dieci anni successivi vennero costruiti altri 5400 chilometri di strade di grande comunicazione a due corsie. Insieme a miglioramenti significativi delle strade dissestate, le nuove strade e il crescente numero di automobili (importate) e camion (da 53 000 a 137 000) consentirono un mercato e una distribuzione più efficienti. Per contro, la costruzione di ferrovie, che aveva rappresentato una parte importante nel programma di modernizzazione kemalista, si interruppe quasi del tutto. Il passaggio al trasporto su gomma significò anche il passaggio dal trasporto pubblico a quello privato, dal momento che la maggior parte dei camion e degli autobus era in mano ai privati, mentre le ferrovie erano state tutte costruite o rilevate dallo Stato. La riluttanza dei privati a investire e la scarsità di capitali che avevano a disposizione fecero inoltre sì che la privatizzazione delle grandi aziende di Stato richiesta con forza dai democratici all’opposizione rimanesse quasi del tutto lettera morta. Una buona parte degli investimenti del governo riguardò il settore industriale dello Stato.
L’efficacia dei massicci investimenti di questi anni fu attenuata per tre ragioni. In primo luogo, dato che i democratici puntavano a far decollare l’economia e volevano risultati veloci e tangibili (l’obiettivo dichiarato era raggiungere il livello dell’Europa occidentale nel giro di cinquant’anni), l’uso dei sussidi, del credito agevolato e degli investimenti era spesso incauto, mirato a un elevato livello di crescita piuttosto che a miglioramenti a lungo termine della capacità produttiva del paese. Si è detto a volte che i democratici confusero lo sviluppo con la crescita, ma le loro politiche erano dettate in larga misura dalle idee semplici degli abitanti delle campagne che formavano la base elettorale del DP. In secondo luogo, la dirigenza del partito, in particolare il primo ministro Menderes, era allergica a qualsiasi cosa assomigliasse a un’economia pianificata, che veniva associata ai danni dello statalismo. Menderes arrivò a considerare la pianificazione un sinonimo di comunismo. Almeno fino al 1958, gli investimenti furono pertanto privi di coordinamento. In terzo luogo, le decisioni sugli investimenti erano spesso ispirate da considerazioni politiche, il che portò alla costruzione di fabbriche in luoghi tutt’altro che propizi dal punto di vista economico e in settori sbagliati. Il risultato fu, ad esempio, una disastrosa sovrapproduzione di zucchero, che fu svenduto sottocosto sul mercato mondiale.

5. Distribuzione del reddito e politiche sociali.

Durante il governo dei democratici, la maggior parte delle persone migliorò la propria condizione economica, anche se in misura diversa. È arduo rintracciare dati precisi, ma le entrate dell’agricoltura aumentarono rapidamente, e di ciò si avvantaggiarono soprattutto i grandi coltivatori. I profitti crebbero più velocemente dei salari in città, con maggiori benefici per commercianti e industriali. A partire dal 1955 l’aumento dell’inflazione cominciò a colpire i lavoratori dipendenti. Tuttavia, probabilmente è corretto affermare che alla fine del decennio anche i loro redditi reali erano cresciuti in modo considerevole in confronto agli anni del dopoguerra.
Malgrado il denaro investito in maniera diretta e indiretta nel settore agricolo, che consentiva anche ad aziende poco competitive di avere la possibilità di sopravvivere e a molte persone di lavorare la terra nonostante il loro apporto non fosse essenziale per il mantenimento della produzione agricola, gli anni cinquanta videro l’inizio dell’emigrazione di massa dalle campagne verso le città. Oltre un milione di persone lasciarono la terra, e alla fine del decennio le città più grandi crescevano a un ritmo del 10% annuo. L’emigrazione per motivi di lavoro non era un fenomeno inedito, ma le dinamiche si modificarono: mentre prima gli emigranti in sostanza avevano come base il loro villaggio e per qualche mese l’anno lavoravano, ad esempio, nelle miniere di Ereğli, ora si spostavano sempre più per stabilirsi nelle città, e ritornavano nelle fattorie, quando ciò accadeva, soltanto per il lavoro stagionale. Arrivavano in cerca di un impiego nelle nuove industrie in via di sviluppo, ma negli anni cinquanta la capacità di queste ultime di assorbire una manodopera in crescita, ma poco qualificata, era limitata, e di conseguenza soltanto una piccola parte degli emigranti trovò un lavoro stabile nell’industria, mentre molti finirono per diventare lavoratori occasionali o venditori ambulanti. Le città non erano attrezzate per ricevere un numero così elevato di nuovi abitanti, cosicché la maggior parte dei nuovi arrivati fu costretta a provvedere da sé, costruendosi un’abitazione su terreni inutilizzati in periferia. Spuntarono intere città satelliti, formate dai cosiddetti gecekondu (quartieri costruiti di notte) che non avevano infrastrutture: niente acqua, elettricità, strade o fognature. Nel corso degli anni, i gecekondu vennero poco a poco incorporati nelle città. Poiché questo fenomeno diventò un tratto cruciale della vita pubblica negli anni sessanta e settanta, caratterizzati da un esplosivo tasso di urbanizzazione, ne tratteremo più estesamente nel prossimo capitolo.

6. La crescita demografica.

Il fenomeno dell’urbanizzazione non può essere separato dal generale aumento demografico. Il cambiamento più spettacolare e di vasta portata che la Turchia conobbe dagli anni cinquanta in poi fu l’impetuosa crescita della popolazione. I motivi di questo fenomeno possono essere ricondotti al lungo periodo di pace di cui il paese aveva goduto ma anche al miglioramento delle comunicazioni (prima nel settore ferroviario, poi in quello stradale), che rese possibile controbilanciare le carenze di generi alimentari con il surplus proveniente da altre zone. Lo sviluppo più importante registrato a partire dagli anni cinquanta fu il calo della mortalità infantile, conseguente al miglioramento dell’igiene, all’introduzione dell’assistenza medica di base nelle campagne e dell’istruzione elementare per le bambine (che a sua volta innalzò il livello di assistenza all’infanzia). Ciò fece della Turchia un classico esempio di transizione demografica. Negli anni cinquanta ogni donna turca adulta partoriva in media sei figli (due dei quali morivano). Con la diminuzione del tasso di mortalità infantile, alla fine si ridusse anche quello di fertilità. Si dovettero attendere gli anni settanta e ottanta prima che la popolazione si adeguasse alla nuova realtà, ma a quel punto il numero medio di figli per donna cominciò a diminuire nettamente, scendendo a 5 nel periodo 1970-75, a 4 nel periodo 1980-85 per arrivare a 2 nel 2010. Fu proprio la combinazione tra elevata fertilità di partenza e riduzione della mortalità in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione all’edizione 2016
  6. Parte prima. Capitalismo, imperialismo e affermazione dello Stato moderno
  7. Parte seconda. L’epoca dei Giovani turchi nella storia della Turchia (1908-50)
  8. Parte terza. Una democrazia tormentata
  9. Rassegna bibliografica
  10. Note biografiche