Democrazia insicura
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Democrazia insicura

Violenze, repressioni e Stato di diritto nella storia della Repubblica (1945-1995)

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Democrazia insicura

Violenze, repressioni e Stato di diritto nella storia della Repubblica (1945-1995)

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Com'è possibile combattere la violenza rispettando lo Stato di diritto? Come può uno Stato fronteggiare gruppi che avversano radicalmente la democrazia, approfittando delle libertà di espressione, di informazione, di circolazione di cui godono i cittadini? Come conciliare le esigenze di «sicurezza» della popolazione e della cosiddetta «opinione pubblica» con il rispetto della democrazia? Esiste un uso ragionato della forza rispettoso dei diritti fondamentali? Si tratta di interrogativi molto attuali, eppure sono stati spesso posti nell'Italia repubblicana, che nel corso della sua storia ha dovuto confrontarsi con forme cruente, e qualche volta concomitanti, di violenza di natura sociale, politica e criminale. Nuove leggi sono state emanate per accrescere i poteri delle forze dell'ordine, facilitare le inchieste e le procedure giudiziarie. Per far fronte ai diversi tipi di violenza, si è così accumulato un «patrimonio di saperi e di metodi», per poter passare da un contesto a un altro. Questo libro propone una riflessione a più voci su come la relazione tra violenza e repressione abbia determinato un particolare modo di fare politica e di concepire la democrazia in Italia. Attraverso l'analisi di vicende che hanno segnato profondamente la storia della Repubblica (dal sequestro Moro e gli anni di piombo alle stragi della mafia), emerge dai saggi che compongono il volume l'immagine di una «democrazia insicura» della propria capacità di proteggere lo Stato e le istituzioni di fronte alla violenza. Una democrazia «insicura» altresì nel difficile compito di garantire i diritti fondamentali dei suoi cittadini. Ma la storia dell'Italia repubblicana può anche insegnare qualcosa sul modo di arginare tensioni sociali, eversione politica e crimine organizzato in un periodo in cui le principali democrazie del mondo si stanno confrontando con l'emergenza terrorismo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868436407

Parte quarta

Interpretazioni, contrapposizioni

XV. Il Psi e la lotta al terrorismo fra tradizione garantista e responsabilità di governo

di Chiara Zampieri

Scopo del contributo è illustrare la posizione del Partito socialista italiano nei confronti del terrorismo e delle iniziative che vennero intraprese al fine di contrastare il fenomeno eversivo alla fine degli anni settanta. In particolare, si vuole comprendere come si inserisce la lotta al terrorismo nella vicenda politica del Psi craxiano che, dopo una fase di marginalizzazione dal confronto fra Pci e Dc nell’ambito della solidarietà nazionale, riacquisì un ruolo centrale nella vita politica del paese. Si analizzeranno infine quali furono le ricadute del dibattito sul terrorismo sui rapporti fra Pci e Psi, tenendo presente il «duello» che dagli anni sessanta si stava consumando a sinistra.
Nel tentativo di ricostruire un quadro sintetico ma complessivo del tema che ci si propone di affrontare, si esamineranno schematicamente alcune vicende particolarmente significative, che esemplificano la specificità della linea socialista nella lotta al terrorismo rispetto a quella elaborata dalle altre forze politiche.

1. Il Psi e il terrorismo nella fase della solidarietà nazionale.

La prima vicenda che si intende analizzare è il sequestro Moro1. Come è noto, inizialmente, il Psi si allineò allo schieramento della fermezza, sostenuto dal governo e dai partiti della solidarietà nazionale (in primis dal Pci), contrari a qualunque forma di trattativa con le Br per la liberazione del presidente democristiano. Tuttavia, a partire dalla seconda metà di aprile del 1978, il Psi assunse una posizione peculiare, definita dell’«autonoma iniziativa dello Stato». Alla Direzione del 21 aprile Bettino Craxi chiarì che, indipendentemente dalle richieste delle Br, non si doveva lasciare nulla di intentato per liberare Moro2. Non si proponeva, dunque, una trattativa alla pari fra Stato e terroristi, ma si chiedeva che lo Stato compisse un gesto autonomo di clemenza – ad esempio, concedendo la grazia a qualche terrorista detenuto che non si era macchiato di delitti di sangue – in modo da far prevalere quella parte delle Br che era contraria all’omicidio di Moro.
Nel quadro delle iniziative prese dal Partito socialista per attuare la sua linea, si collocano gli incontri di Craxi, del vicesegretario Claudio Signorile e del senatore Antonio Landolfi con gli autonomi Lanfranco Pace e Franco Piperno3. All’epoca dei fatti i colloqui rimasero ignoti alla magistratura; essi emersero solo un anno dopo, quasi per caso. Per questa ragione nell’opinione pubblica si consolidò l’idea che i socialisti avessero tentato di condurre una vera e propria trattativa segreta attraverso uno degli anelli di collegamento con le Brigate rosse, l’Autonomia operaia. Nel 1979, infatti, quando si venne a sapere dei colloqui, l’Autonomia era accusata di essere un’associazione sovversiva che, in raccordo con le Br, mirava al sovvertimento delle istituzioni4. La notizia degli incontri rinfocolò le critiche (soprattutto del Pci) contro i socialisti, accusati di aver minato la credibilità dello Stato con la posizione trattativista, ma anche per la leggerezza e la doppiezza con cui avevano intrattenuto rapporti con persone la cui avversione all’ordinamento democratico era nota.
La linea socialista nel caso Moro è stata interpretata da molti studiosi non solo come espressione della tradizione umanitaria del partito – come del resto la dipingeva il Psi stesso –, ma anche come strategia politica, basata sul calcolo dei vantaggi che potevano derivare dall’assumere una posizione autonoma5 – staccandosi dal fronte della fermezza monopolizzato dal Pci e dalla Dc6 – finalizzata a catturare un consenso in certi ambienti che non vedevano nel Pci un interlocutore politico.
In sostanza, il caso Moro rappresentò uno dei primi momenti di ambivalenza di un partito che, da una parte, era schierato con il governo di solidarietà nazionale, ma d’altro canto assunse una posizione autonoma e strategicamente orientata a occupare uno spazio politico lasciato vuoto dal Pci, così come dagli altri partiti della solidarietà nazionale.
La seconda vicenda riguarda il dibattito sulla prima legge antiterrorismo introdotta in Italia, il «decreto Moro»7. La legge, così chiamata perché approvata nel corso del sequestro, introdusse per la prima volta il concetto di terrorismo nel codice penale italiano. Negli anni precedenti, infatti, i governi avevano reagito alla minaccia terroristica attraverso misure operative, come la costituzione di unità speciali delle forze dell’ordine, l’istituzione delle carceri di massima sicurezza, la riforma dei servizi segreti8. Dal punto di vista legislativo, invece, si erano introdotte solo alcune generiche misure di ordine pubblico – come la legge Reale del 19759 – non mirate alla lotta al terrorismo10.
I socialisti affrontavano il dibattito sulla risposta al terrorismo con un programma elaborato negli anni precedenti, incentrato sul netto rifiuto di leggi speciali sull’ordine pubblico che ampliassero i poteri della polizia a danno delle libertà dei cittadini e a dispetto delle tendenze liberali che si erano manifestate nel diritto penale nella prima metà degli anni settanta. Il Psi, quindi, proponeva la riforma della polizia con la smilitarizzazione e il coordinamento dei corpi, la riforma dell’ordinamento giudiziario per razionalizzarlo e renderlo più garantista, e la riforma degli agenti di custodia per rendere efficace il nuovo ordinamento penitenziario. Inoltre, dal momento che i socialisti ritenevano che il terrorismo – oltre a essere riconducibile alla strategia della tensione – fosse frutto dello stato di crisi economica e sociale che colpiva soprattutto i giovani, proponevano una serie di riforme di contenuto «sociale» per risolvere i problemi della disoccupazione e dell’emarginazione giovanile e ricreare la fiducia nei confronti delle istituzioni11.
Il «decreto Moro», dunque, non fu accolto positivamente dal Psi. Senza entrare nel merito della legge, essa infatti era una misura mirata alla lotta all’eversione, che ampliava i poteri della polizia, inaspriva la risposta penale al terrorismo, irrigidiva alcuni istituti processuali12. In sostanza, non si inseriva nella direzione delle proposte del Psi che, da sempre, rifiutava l’introduzione di misure «speciali». Ciononostante, il Partito votò a favore del decreto a causa del vincolo di responsabilità imposto dalla solidarietà nazionale, ma anche per l’esigenza di dare risposte a un’opinione pubblica dalla quale saliva una crescente domanda di sicurezza. Il voto favorevole, tuttavia, costò accesi malumori interni al Partito ben espressi nel dibattito al 41° Congresso che si tenne fra la fine di marzo e i primi di aprile, durante il quale dirigenti di correnti diverse – da Fabrizio Cicchitto a Giacomo Mancini, da Vincenzo Balzamo ad Aldo Aniasi – criticarono le misure per essere al limite della costituzionalità13. La minoranza achilliana del partito, inoltre, disertò il voto sul decreto e pubblicò un comunicato sull’«Avanti!» in segno di protesta14.
In questo caso, dunque, si rileva una situazione di contrasto interno sulla difesa dei valori tradizionali del Partito di cui si fecero paladini non solo dirigenti anticraxiani, ma figure delle diverse «anime» dell’organizzazione. L’asse fra Craxi e Signorile, la cui vittoria fu sancita proprio dal 41° Congresso, probabilmente contribuì a evitare che il voto, oltre che dalla minoranza di Achilli, fosse disertato anche da altri membri del Psi. Ad ogni modo, nonostante i tentativi di mediazione, il segretario non riuscì a far convergere tutto il Partito sul voto favorevole alla legge.
Scontri simili e la stessa ambivalenza si riproposero anche in occasione del referendum sulla legge Reale che si tenne nel giugno successivo. Nel 1975 i socialisti avevano votato a favore della legge per evitare una crisi politica, ma l’avevano aspramente criticata per l’ampliamento dei poteri di polizia che essa introduceva. Nel 1977, infatti, alcuni dirigenti del Psi contribuirono alla raccolta di firme promossa dai radicali per il referendum abrogativo. L’anno dopo, però, i tentativi delle forze politiche di introdurre le modifiche alla legge necessarie a evitare la consultazione popolare erano falliti, anche a causa dell’ostruzionismo dei radicali stessi e del Msi. Craxi pertanto prese l’impegno con le altre forze della solidarietà nazionale di promuovere il voto contrario all’abrogazione del provvedimento per evitare un vuoto legislativo15. Tuttavia, a fronte delle proteste interne al Partito, il segretario di fatto accordò libertà di voto agli iscritti, con questo non riuscendo comunque a sedare il conflitto interno, ben testimoniato dall’ordine del giorno della «Nuova sinistra» di Achilli che chiedeva di votare a favore dell’abrogazione della legge16. Anche in quest’occasione, pertanto, il Psi fu accusato di contraddizione, doppiezza e di scarso senso di responsabilità istituzionale.
Nei casi finora analizzati appare evidente che le responsabilità del governo di solidarietà nazionale e l’obiettivo di Craxi di restituire al Psi l’immagine di partito di governo condizionarono le scelte del segretario. D’altra parte, la tradizione garantista continuò a essere rivendicata da diversi dirigenti – non solo della minoranza – che chiedevano il rispetto dei valori del Partito. Fu dunque inevitabile che istanze così diverse causassero, in una realtà così composita, ambivalenze e scontri interni, che continuarono a manifestarsi anche nel corso del 1979, quando l’esperienza della solidarietà nazionale si esaurì definitivamente e il Psi si avviò ad assumere un nuovo incarico di governo con la Dc.

2. Il Psi e il terrorismo dopo la solidarietà nazionale.

Il dibattitto sull’inchiesta «7 aprile» offre un esempio della vivacità del dibattito interno al Psi. A differenza del Pci, che si schierò subito a favore dell’impostazione accusatoria dell’inchiesta e a difesa della magistratura padovana17, il Psi – almeno fino al gennaio del 1980, quando Craxi si fece più possibilista verso le responsabilità degli autonomi18 – assunse una posizione prudente e attendista. Il segretario, infatti, plaudì all’iniziativa della magistratura, ma d’altro canto fece appello al rispetto della correttezza delle procedure, dei diritti degli imputati e alla divulgazione delle prove che ancora non si conoscevano, mettendo così in discussione il lavoro della Procura19. Una posizione mediana, dunque, che forse andava incontro ai contrasti emersi nel Partito, ben testimoniati dall’aspro dibattito svoltosi in quei mesi sulle pagine dell’«Avanti!» e di «Mondoperaio», dove giuristi, dirigenti e intellettuali si fronteggiarono sull’argomento con opinioni anche diametralmente opposte fra loro20.
Ambivalenze e scontri simili si riproposero anche in merito alla discussione sul cosiddetto «decreto Cossiga», introdotto nel dicembre del 1979 per far fronte alla nuova escalation di attentati. La legge, che introdusse per la prima volta i reati di attentato e di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, innescò un acceso dibattito politico e pubblico sul rispetto dello Stato di diritto e sulla militarizzazione della risposta dello Stato al terrorismo. Senza entrare nel merito del provvedimento, si può affermare che esso inaspriva significativamente le pene per i reati di terrorismo, ampliava notevolmente i poteri della poliz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Patrizia Dogliani e Marie-Anne Matard-Bonucci
  6. Parte prima. Ristabilire la democrazia e lo Stato di diritto
  7. Parte seconda. Tra emergenza e difesa della democrazia
  8. Parte terza. Negoziare o combattere?
  9. Parte quarta. Interpretazioni, contrapposizioni
  10. Suggerimenti bibliografici
  11. Gli autori