Capitolo primo
Una gioventù bulgara
Some men like me ’cause I’m happy.
Billy Holiday
Samuel Dock. Frutto di scarsa curiosità o di xenofobia, l’interesse limitato che vi è in Francia nei confronti della sua gioventù bulgara mi ha sorpreso, perché lei è figlia della guerra.
Julia Kristeva. Da piccola, ho ascoltato spesso questa canzone in russo:
Dvadcat’ vtorogo ijunja
Rovno v četyre časa,
Kiev bombili, nam ob’javili,
Čto načalasja vojna.
(Il 22 giugno
alle quattro in punto
bombardarono Kiev, ci annunciarono
che era iniziata la guerra).
Sono nata due giorni dopo l’inizio della guerra. Solo verso i quattro-cinque anni ho preso coscienza del fatto che il mio compleanno veniva associato al ritmo maestoso di un conflitto mondiale e, in definitiva, all’impressione di essere risucchiati da una esplosione: non c’era spazio per «me», io ero solo una scheggia in un mondo in preda alla distruzione. In seguito avremmo assistito al crollo della Bulgaria nel blocco comunista, alla ricostruzione e alla miseria, a forme di oppressione e promesse, e poi alla guerra fredda. All’epoca vivevamo a Sliven, una città nel Sud-est della Bulgaria, ed è qui che sono nata. Nei pressi dei Balcani. Piccolissima, percepivo che eravamo in guerra. Scendevamo regolarmente in cantina e ascoltavamo la BBC. Restavamo in attesa del jingle tamburellato di Radio Londra; vedevo gli adulti ascoltare messaggi enigmatici con il volto teso, la loro paura era contagiosa. La mia famiglia alloggiava presso degli insegnanti comunisti partigiani che vivevano nella clandestinità. L’uniforme di un ufficiale tedesco che cammina in cortile a notte fonda mentre corriamo in strada a cercare riparo, il razzo che squarcia il cielo per avvertirci dei bombardamenti: sono tutti ricordi veri di una bambina di tre anni? Oppure sono una costruzione mentale sulla base di ciò che mi è stato raccontato in seguito? Se evoco questi flash, con il distacco mi sembra che la solidità del legame familiare si sia costruita attorno a questi ricordi e in opposizione ad essi.
S. D. – Di solito, lei pone l’accento sul profumo della valle delle Rose, i piaceri del Mar Nero, il suo paese appare come una culla sublime cui allude con sensualità. Questi ricordi, di tono più cupo, sono nuovi. Mi pare che sia la prima volta che lei li evochi.
J. K. – Senza ombra di dubbio, visto che ormai mi sento più a mio agio con le ombre e segmentazioni… proprio come Nivi, che mi rappresenta meglio di qualsiasi altro personaggio, nel mio ultimo romanzo L’Horloge enchantée.
S. D. – Tale frammentazione deriva da questi primi traumi e si sviluppa in seguito ad altri eventi di cui avremo modo di riparlare. Al contempo, in questa primissima infanzia, scossa dalla storia, convivono anche rassicuranti elementi di coesione sui quali mi piacerebbe soffermarmi.
J. K. – Grazie ai miei genitori, quello è stato, nonostante tutto, un periodo abbastanza protetto. Due fotografie fanno da sfondo ai ricordi, ma risvegliano anche sensazioni che vi si innestano, ed ecco che affluisce l’infanzia.
Nella prima: una carrozzina da cui mi hanno sollevata; me ne sto dritta accanto ad essa con delle scarpette nere sopra un asciugamano bianco. I miei genitori hanno voluto immortalare l’istante in cui mi tengo in piedi per la prima volta! Mia madre, Christine, è dietro di me. Il suo profumo mi accompagnerà sempre, una nuvola di seta ed essenza di rosa, la carezza blu marino del suo vestito. Non la vedo, mi addosso alla sua presenza e lei mi avvolge come un seno cosmico, il femminile materno è disponibile. Mia madre aveva intrapreso studi di biologia, poi ha scelto di non insegnare per dedicarsi alle sue figlie, apparentemente senza rimpianto. Certo, non ho dimenticato il silenzio soffocato nel suo sorriso, un po’ disincantato e definitivamente placato, credo, quando si faceva cenno ai suoi anni universitari. Qualcuno potrebbe vedervi l’impronta di una spiritualità, la discrezione del sacro. Di fatto, mia madre mi ha semplicemente trasmesso che la femminilità ingloba la reliance materna senza frustrazione o senso di colpa. Non ho mai capito come possono le donne considerarsi il «secondo» sesso. Dal mio punto di vista, la femminilità esprime l’innegabile, l’irrefragabile della vita. Senza alcuno sforzo, in maniera assolutamente spontanea. Come faceva mia madre.
Nella seconda foto, di poco successiva, sono nel mondo e di fronte ad esso, vale a dire di fronte al fotografo. Insieme a mio padre, Stoyan, siamo andati a fare compere. Io porto un melone, lui due angurie. È piegato su di me e io mi avvinghio a quel rifugio maschile con una fiducia strabiliata che cancella ogni ombra di solitudine. Non mi abbandono all’altro, siamo due entità indivisibili, ma sorrido del sorriso di mio padre. Questa incorporazione del maschile paterno, tanto giocosa quanto semplice e incondizionata, è anch’essa una certezza che mi ha resa ciò che sono, al di là dell’esilio e dei traumi.
S. D. – Ha spesso definito se stessa attraverso il viaggio, il movimento, l’essere straniero. Non sarà proprio questa fiducia genitoriale che le ha permesso di avventurarsi oltre le frontiere, geografiche o psichiche, e di liberare il suo pensiero?
J. K. – È lo psicoanalista che è in lei a parlare! Le conclusioni che trae dalle mie parole sono corrette, ma preferisco attenermi al racconto, là dove i fatti non confermano né smentiscono la fragilità o la resistenza, tutt’al più punteggiano un momento sospeso… Raccontare la propria analisi per impedire a se stessi di farla, no grazie, ormai tento di continuarla dall’altra parte del lettino, è vitale.
S. D. – Come preferisce! In Pulsions du temps racconta con molta tenerezza la festa dell’alfabeto in Bulgaria alla quale partecipava da piccola. Nella sfilata lei era e incarnava una lettera, il suo interesse precoce per il linguaggio deriva forse da lì?
J. K. – Nella nostra famiglia, la cultura occupava un posto centrale. I libri, il pianoforte, il canto, il teatro, l’opera… e anche lo sport. Mio padre era un appassionato di «cultura fisica». Eravamo un’eccezione? Affatto. Questo approccio – una forma di evasione? di resistenza? – mi sembrava diffuso in quella parte d’Europa che è un crocevia di influenze, dissidi e guerre. La Bulgaria resta un paese al bivio, misconosciuto nonostante il suo ingresso nell’Unione europea. Ancora oggi, i Balcani sono sinonimo di «polveriera», pensiamo a Sarajevo. Al tempo stesso, e forse a maggior ragione, il culto delle lettere, dell’alfabeto, ha sostenuto le popolazioni, in particolar modo i bulgari, nel corso della loro storia. Ha contribuito anche la prossimità con il «miracolo greco»: una sorta di esempio… da superare? La Bulgaria, che io sappia, è il solo paese del mondo a celebrare l’alfabeto. Il 24 maggio, giorno in cui si festeggiano i fratelli Cirillo e Metodio, è diventato una «festa della Cultura».
S. D. – Ci parli un po’ di questi due santi della Chiesa ortodossa.
J. K. – Le ricerche recenti divergono sulla loro origine (erano slavi o greci?), ma noi bulgari diciamo che sono nati da una madre slava e da un padre alto funzionario bizantino. I due fratelli hanno ricevuto un’educazione fuori dal comune e, una volta diventati religiosi, papa Adriano li ha mandati a evangelizzare i popoli slavi della Moravia. Per portare a termine questa missione, si sono inventati un alfabeto per tradurre le Sacre Scritture in slavone, l’antica lingua slava. In Pulsions du temps racconto in dettaglio la loro storia1: le difficoltà con il Vaticano (siamo nel IX secolo, prima del grande scisma del 1054); Cirillo muore e viene seppellito proprio in Vaticano, mentre Metodio, con i suoi discepoli, torna in terra bulgara; l’alfabetizzazione prende piede in Bulgaria prima ancora di diffondersi in Russia ecc. Oggi l’Università di Sofia porta il nome di Clemente di Ocrida, il più famoso tra questi missionari della scrittura.
Dai sette ai ventiquattro anni, ho partecipato a questa bizzarra festa con l’intero «popolo della cultura»: gli scolari, i genitori che li applaudivano (in file compatte sui marciapiedi), ma anche gli insegnanti, gli studenti e i loro professori, gli scrittori, i giornalisti, gli editori, i bibliotecari, gli artisti e i pittori…
Ognuno sfoggiava una lettera dell’alfabeto, tra bandiere e mazzi di fiori, nelle strade ornate di luci, invase da musica, fragranze e parole. A volte le lettere fluttuavano insieme ai corpi in movimento, a volte si componevano tra loro formando slogan, versi, nomi di grandi scrittori della memoria culturale.
S. D. – Qual era il suo slogan?
J. K. – Cambiava tutti gli anni. Questi ricordi continuano a essere presenti dentro di me. So che dall’esterno è difficile capire come l’intera vita familiare possa essere radicata in questo alfabeto sacro che, pur essendo di origine religiosa, è diventato totalmente laico – il nucleo del patto sociale e politico. La festa stessa mostra un’evidenza, una certezza assoluta: per essere, occorre assolutamente far parte dell’alfabeto avendo successo a scuola, all’università ecc. Ma al tempo stesso, siamo chiamati, da quello stesso strumento, a suonare i suoi tasti, a dire «io» appropriandoci delle lettere e scrivendo.
S. D. – Dopo la fine della seconda guerra mondiale, suo padre, che non condivideva affatto gli ideali del regime comunista, la indirizza allo studio delle lingue straniere con una sorta di filosofia cosmopolita.
J. K. – Diceva che il suo scopo nella vita era «far uscire le sue figlie dal ventre dell’inferno», sinistra metafora del nostro paese. «Non vi è altro modo se non imparare le lingue. È chiaro, occorre che voi parliate delle lingue straniere. E che siate indipendenti economicamente, certo». Papà diceva che questo detto era scritto nel Vangelo, ma io l’ho trovato soltanto in Dante, nell’ultimo canto dell’Inferno, nel nono cerchio: la burella, l’intestino disseminato sulla terra, è l’immagine del «cuore spezzato». Era questa la sua ossessione, il suo più intimo «romanzo familiare»? Per lui il patronimico Kristev, letteralmente «della croce», «non è un’invenzione, deriva dai crociati che portavano una croce cucita sulle vesti ed è provato che sono passati per la Tracia (la regione del suo villaggio natale) sin dall’XI secolo!». La mia aria incredula lo «mandava su tutte le furie»: «non ho bisogno di archivi per saperlo! Del resto, dopo tutti questi secoli, saranno scomparsi, lo so e basta». Ai miei occhi questa credenza senza prove storiche aggravava la sua posizione, ma al contempo l’ipotetica etimologia mi ha colpita molto, al punto che l’ho ripresa in Meurtre à Byzance!
S. D. – Il contesto culturale della Bulgaria era lo sfondo, e la festa dell’alfabeto era uno sprone istituzionale a leggere e a scrivere. Detto ciò, mi pare che la sua famiglia abbia giocato un ruolo importante nel suo orientamento intellettuale. Daniel Sibony scrive che «un bambino legge se lega con qualcuno che ama leggere». I suoi genitori le leggevano delle storie? Come le hanno trasmesso l’amore per le lettere – sua ragion d’essere?
J. K. – Attraverso la lettura, chiaramente. Leggere era fondamentale. Ci leggevano e ci facevano leggere delle storie, dei classici bulgari, i grandi testi della letteratura russa. A tavola parlavamo di quello che facevamo a scuola, dei corsi di russo e di francese. Mio padre aveva studiato teologia e poi medicina; era appassionato di letteratura. Nell’immediato dopoguerra, il governo comunista spediva tutti i giovani medici nelle campagne. Stoyan ha preferito abbandonare la medicina e restare a Sofia perché le figlie potessero fare dei buoni studi. Essendo molto credente, è entrato nell’amministrazione della Chiesa che garantiva il minimo indispensabile alla sua famiglia e intanto, per arrotondare, faceva lavori di riscrittura, di editing e traduzioni dal russo, senza smettere di cantare a messa e in diversi cori religiosi e laici. Era lui l’orecchio musicale e mia sorella Ivanka lo ha ereditato in modo meraviglioso. La spiritualità che faceva regnare sul clan familiare entrava in conflitto con la razionalità laica e scientifica di mia madre che, forte dei suoi studi in biologia, difendeva le idee di Darwin durante i nostri «dibattiti culturali» a tavola. Tuttavia era inconcepibile che una donna con la sua educazione arrivasse al punto di discutere con il marito.
Ero io a portare il fuoco della contestazione! Al mio caro papà davo del dinosauro, del parruccone, del fossile. Lui la prendeva malissimo e scoppiava la rissa. (Risate). Mia sorella si accontentava di approvare le mie critiche e si mostrava meno veemente di me. E le ramanzine le prendevo soltanto io! All’angolo, in ginocchio! Colpevole e fiera di esserlo, facevo la parte del «maschiaccio» che si ribella all’«oscurantismo paterno». Niente di meno! Mia madre disapprovava i miei eccessi, ma in fondo non le dispiaceva affatto che sua figlia osasse farle da portavoce. Tempo dopo, pur soffrendo di solitudine – entrambe le sue figlie avrebbero lasciato il paese –, mi ha incoraggiata nella scelta di una vita come donna emancipata a Parigi. Pensava che io fossi partita per gli scatti d’ira di mio padre e perché lui puniva la ragazzina che «rispondeva». Non immaginava neanche che io e mio padre ci amassimo da morire!
S. D. – Chi non si ribella è morto psichicamente.
J. K. – Esatto. Non riuscivo a stare tranquilla, avevo bisogno di oppormi. A casa c’era un’atmosfera culturale ma mai convenzionale, piuttosto formava uno spirito critico. Mio padre stava al gioco e dava importanza alle mie follie di adolescente testarda, al punto tale che con la sua reazione passionale non otteneva di farmi tacere, e così lo scontro si inaspriva! Dovevo capire, inconsciamente, che questa forzata attenzione paterna accreditava in qualche modo la mia opposizione che, di conseguenza, andava in crescendo.
S. D. – Nei suoi scritti, di contro, lei è più discreta in merito a sua sorella.
J. K. – Ivanka è nata quando avevo tre anni e mezzo. Lei porta, al femminile, il nome del nostro nonno materno, Ivan. Nel 1945 il paese era comunista e noi abbiamo lasciato Sliven. Prima di arrivare a Sofia, siamo passati per Yambol, la città natale di mia madre, dove vivevano i miei nonni materni. Mio padre, orfano di entrambi i genitori, era stato adottato da Jordana, una vedova amica di famiglia che è stata anche la mia balia. Il mio nome, Julia, sarebbe, secondo i miei genitori, la modernizzazione del nome di questa nonna adottiva, Jordana, la cui etimologia risale al nome del fiume biblico, il Giordano.
S. D. – In un certo qual modo lei avrebbe «perso» sua madre?
J. K. – Non sa quanto ha ragione! Mia madre stava per partorire, a casa, e io sono stata mandata a giocare dalla mia amichetta Anna, una vicina. Detestavo sua madre, elegante e fredda, istitutrice credo, che faceva la civetta mentre la pancia di mia madre si ingrossava. Rivedo ancora la scena: ho molta sete e ho voglia di un gran bicchiere d’acqua, ma quella «strega» mi dà da bere con un cucchiaino. Quasi goccia a goccia. Strano, no? La mania di una madre esageratamente premurosa che mi ha ripugnato proprio quel giorno? È un ricordo? O una fantasticheria che maschera la frustrazione provocata dall’arrivo di mia sorella? Riportata allo stato neonatale, mi arrabbio, respingo violentemente sia il cucchiaio sia la signora, la quale si lamenta con mio padre. Vergogna! Severe punizioni a casa, quanto meno però sono riuscita a far dimenticare per qualche istante LA neonata. E per due giorni mi sono rifiutata di bere. Fiera della mia rabbia e di dominare la mia sete. Avevo sì o no, dall’alto dei miei tre anni e mezzo, sfidato la «strega» e rigettato il suo cucchiaino? Mamma mi aveva messa da parte per «dare il seno» a un’intrusa. Non scatenavo la mia furia contro di lei, assolutamente, me la prendevo con me stessa. Ma mi vendicavo… sulla vicina.
Un’altra scena dello stesso tenore. Siamo a Sofia, e passeggiamo per i vi...