Lettera a Matteo Renzi
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«Caro Renzi, tenga duro. Ma si ricordi anche che le qualità di un leader non sono soltanto la volontà e la determinazione. Contano anche le doti dell'attenzione, della valutazione prudente dei passi da compiere, della capacità di ascoltare, prima di scegliere e di prendere le proprie decisioni. Il governo degli uomini è cosa assai più complessa dell'indicare loro la direzione di marcia, che pure è la funzione del leader».L'esperienza politica e di governo che ha avuto per protagonista Matteo Renzi può essere descritta come una parabola segnata da un'ascesa repentina e da una serie iniziale di successi, sfociata poi in una sonora sconfitta. Ma – è questa la domanda che tiene il campo – si tratta di una sconfitta irrimediabile? O può essere concepito un rilancio del riformismo italiano che veda ancora Matteo Renzi protagonista? Massimo Salvadori, storico prestigioso e intellettuale autorevole, gene razionalmente alieno dalle smanie nuoviste del «rottamatore», decide inaspettatamente di prendere la penna per rivolgere a Renzi, in prima persona, una sorta di lettera pubblica, che interpella le prospettive del prossimo futuro. Alla lettera fa seguito un denso saggio che ricostruisce le premesse di scenario su cui l'esperienza del renzismo si è innestata, e ne ripercorre le tappe politiche, fino ad arrivare alla «madre» di tutte le riforme: la revisione del sistema costituzionale, approvata dal Parlamento, ma bocciata dal referendum. In queste pagine, scritte con il piglio sicuro di chi sa maneggiare la «storia del presente», un'attenzione particolare viene riservata alla personalità di Renzi («il capo di governo più giovane di tutta la storia dell'Italia unita»), alle caratteristiche della sua leadership, ai suoi punti di forza e di debolezza, al fine di chiarire le ragioni per cui, dopo il successo trionfale alle elezioni europee del 2014, egli non sia riuscito a raccogliere intorno a sé il necessario consenso popolare. Un esito, questo, che ha suscitato l'esultanza non solo degli avversari esterni di Renzi, ma anche di quelli interni al suo stesso partito, che fin dall'inizio lo avevano considerato un «intruso». È un'analisi lucida e severa, quella con dotta da Salvadori, che pure non esita a schierarsi tra i sostenitori di Renzi. Se il leader, nella sua esperienza di governo, ha compiuto una serie di errori politici, anche gravi, le impostazioni sostenute dai suoi avversari, esterni e interni al partito, sono apparse prive di consistenza al fine del difficile rilancio di un cammino riformista per il nostro paese. La vicenda, insomma, è del tutto aperta. E molto dipenderà dal modo in cui Matteo Renzi sceglierà di stare in campo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868436636
Riflessioni
sull’esperienza di governo di Matteo Renzi

1. L’eredità: da Tangentopoli all’età di Berlusconi

Quando il 22 febbraio 2014 il governo guidato da Matteo Renzi entrò in carica, l’Italia aveva visto arricchirsi di nuovi capitoli, in un quadro di palese debolezza e inefficienza delle istituzioni, la seconda crisi del sistema politico e partitico della storia della Repubblica. La prima si era consumata tra gli ultimi anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, quando gli effetti congiunti della fine della guerra fredda, del crollo dell’impero sovietico e dell’esplodere di Tangentopoli avevano provocato la scomparsa dei partiti che avevano dominato la scena nazionale a partire dal dopoguerra, caratterizzata da un «blocco di potere» perpetuatosi – dopo che nel maggio 1947 De Gasperi aveva posto fine ai governi di unità antifascista, eredità della Resistenza – per oltre quarant’anni. Anni durante i quali la Democrazia cristiana e i suoi alleati (i piccoli partiti laici, cui nel 1962 si era aggiunto il Partito socialista) avevano dato vita a un oligopolio di potere volto a escludere dal governo del paese prima il controblocco socialcomunista e poi, dall’avvento del centro-sinistra in avanti, il Partito comunista e le frange della sinistra socialista antiriformista. Data l’interdizione nei confronti della sinistra filosovietica, ne era conseguita l’impossibilità di qualsiasi alternativa di governo. Questa la sostanza del sistema bloccato. È bensì vero che tra il 1973, l’anno in cui il leader del Pci Enrico Berlinguer lanciò la linea del «compromesso storico», e il 1978, l’anno dell’assassinio del leader della Dc Aldo Moro, era andata progressivamente delineandosi, pur attraverso una strada complicata e tortuosa, la possibilità dell’accesso del Pci all’area di governo; sennonché esso non prevedeva un’alternativa al blocco di potere guidato dalla Dc, ma la partecipazione del Pci a una «grande coalizione» democristiano-socialista-comunista diretta ad affrontare gli assai gravi problemi creati sia dalle difficoltà economiche sia dalla lotta alle organizzazioni eversive voltesi al terrorismo di estrema destra e di estrema sinistra, le quali, pur nelle divergenti finalità, convergevano nell’attacco allo Stato e alle sue istituzioni. Come si sa, la grande coalizione naufragò in seguito alla morte di Moro. Seguirono una serie di fallimenti che coinvolsero tutti i maggiori partiti. La Dc, guidata dalla sua ala moderata, chiuse le porte al Pci e rinsaldò l’alleanza con il Psi, ma, pur restando il perno inamovibile di ogni maggioranza parlamentare e al tempo stesso non potendo fare a meno dei socialisti, dovette – dopo avere già consentito alla formazione di un governo guidato tra il 1981 e il 1982 dal repubblicano Giovanni Spadolini – cedere tra il 1983 e il 1987 le redini a Bettino Craxi deciso a far valere il peso della sua «rendita di posizione», secondo la quale un partito minoritario della coalizione era in grado di ottenere all’interno dell’esecutivo un potere non avente alcuna corrispondenza con il consenso elettorale.
Il Psi ebbe così l’accesso alla guida del governo che nessun esponente della sinistra italiana aveva avuto prima nella storia dello Stato unitario e Craxi diede personalmente prova di notevoli qualità di leader e di statista, ma andò incontro a clamorosi insuccessi nel perseguire i tre maggiori scopi che si era prefisso: mutare in misura significativa i rapporti di forza con la Dc da un lato e il Pci dall’altro; riorganizzare l’intera sinistra su una linea riformista, facendo leva sulla crisi epocale sempre più palese del Pci e del mondo comunista; promuovere una «grande riforma» delle istituzioni dello Stato, che però rimase allo stadio di agitazione propagandistica. Dal canto suo il Pci, costretto all’isolamento, ridottasi a slogan inefficace la parola d’ordine dell’alternativa democratica al potere della Dc lanciata dopo il fallimento della linea del «compromesso storico», non aveva alcuna strategia da proporre al paese e, rimasto privo di una leadership adeguata dopo la morte prematura di Berlinguer nel 1984, si avvitò nel malessere dei contrasti tra le sue correnti, rimanendo comunque fermo nel respingere lo sbocco del «riformismo socialista» e della «socialdemocratizzazione»: sbocco reso indigeribile dal fatto che questi si presentassero in Italia nelle vesti dell’avversato «craxismo». Ma, quali che fossero le sue difficoltà, il Pci poté comunque continuare a beneficiare di una importante risorsa: quella alimentata dal consenso elettorale e sociale che veniva da ampie masse tradizionalmente ostili allo Stato borghese. Si trattava di una opposizione politicamente sterile, ma alimentata da una classe dirigente di scarso prestigio, un Psi fattosi puntello della Dc e delle forze moderate, dal loro riformismo inadeguato e incoerente e dal dilagante sistema della corruzione di cui democristiani e socialisti erano i maggiori architetti e profittatori. Sicché, a cavallo tra gli ultimi anni ottanta e i primi anni novanta, il sistema politico italiano era insieme segnato dalla presenza di una coalizione di governo Dc-Psi-partiti di centro minori resa turbolenta da rivalità e continue tensioni, di un Pci in preda ad una acuta crisi di identità nel contesto dello sbandamento ormai organico del comunismo internazionale e impegnato in una conflittualità senza tregua con il Psi, dalla corruzione diffusa nel corpo dei partiti, dell’economia e di vasti strati della società civile, che in effetti presentava molti tratti di una società incivile. A ciò si aggiungano gli effetti perversi di un debito pubblico in costante espansione – gravato dal peso del sostegno dato alla rete delle clientele e delle corporazioni –, di una evasione fiscale enorme, della presenza pervasiva delle organizzazioni criminali dotate di una vera potenza economica e capacità di influenza sull’elettorato, ed erettesi ad «anti-Stato».
Quello che letteralmente naufragò nei primi anni novanta fu quindi un sistema politico esausto e tarlato, letteralmente sconquassato dal drastico mutamento del quadro internazionale e dallo scoperchiamento ad opera della magistratura dei legami della corruzione che intrecciavano imprenditori e soprattutto i partiti al governo del paese, anche se non solo questi. Quei legami erano in realtà ben noti all’universo mondo da molti anni, ma non nella loro profondità e diffusione. In questo senso l’ondata moralistica che animò la vera e propria rivolta di tanta parte della società civile, che in vero nel sistema della corruzione era a sua volta coinvolta per molteplici fili, ebbe largamente il carattere di una vera e propria «sceneggiata napoletana», in cui intervenne con forza come attore primario una magistratura che, dopo essere stata (con luminose eccezioni beninteso) per molto tempo se non muta e sorda quantomeno assai sonnecchiante, una volta viste crollare le mura di Gerico che proteggevano il potere dominante, intervenne con insolita energia contro i corrotti attribuendosi anche la missione politica di rigenerare la vita nazionale. Fu allora che il sostituto procuratore di Milano Antonio Di Pietro, protagonista dell’operazione «Mani pulite», assurse a eroe popolare in un paese nel quale soffiava fortissimo il vento cui si chiedeva a gran voce di spazzare via l’aria inquinata. Non a caso si prese a parlare della «rivoluzione dei giudici». Non si trattò naturalmente di alcuna rivoluzione. Il processo tumultuoso degli eventi e l’ansia di rigenerazione – nell’imprevedibilità di cui la storia ha dato e continua a dare ripetute prove – trovarono uno sbocco che nessuno aveva potuto neppure intravedere negli anni del crollo del primo sistema partitico dell’Italia repubblicana: l’avvento del «berlusconismo», che, con alti e bassi, portò ad una sia pur relativa stabilizzazione politica.
Occorre notare che, nella breve transizione tra il crollo di sistema e quell’avvento, si profilò nel 1993 un elemento destinato a ripetersi in momenti cruciali della storia successiva del paese: una iniziativa incisiva e determinante del capo dello Stato, che non aveva precedenti. Dopo la caduta nell’aprile di quell’anno del governo Amato, ultima espressione dell’alleanza tra la Dc e il Psi craxiano, di fronte al discredito e alla debolezza dei «vecchi partiti» e in un quadro in cui andavano faticosamente e disordinatamente delineandosi nuovi soggetti e nuove alleanze, il presidente Oscar Luigi Scalfaro fece una mossa a sorpresa. Diede l’incarico di formare un «governo tecnico» ad una personalità di alto profilo estranea ai partiti, il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, in attesa del necessario chiarimento che sarebbe venuto dalle elezioni politiche da tenersi con una legge, il Mattarellum (dal nome del suo promotore Sergio Mattarella), la quale prevedeva un meccanismo per il 75 per cento maggioritario e il 25 per cento proporzionale, finalizzato a favorire uno schieramento sostanzialmente bipolare e quindi la possibilità di un’alternanza al governo. Il governo Ciampi costituì il primo esempio di quelli che con buona ragione furono definiti «governi del presidente», in quanto assegnarono a quest’ultimo un ruolo di diretto intervento politico inedito rispetto al passato, quando gli esecutivi erano sempre stati espressione dell’iniziativa delle maggioranze delineatesi in Parlamento.
L’era Berlusconi durò dal 1994, anno in cui questi ascese alla guida del paese, al 2011. Interrotta due volte da governi di centro-sinistra tra il 1996-2001 e il 2006-2008, fu complessivamente più lunga dell’era Giolitti e poco meno di quella Mussolini. Fu lui, il Cavaliere del lavoro – il plutocrate milanese ex sodale di Craxi all’ombra del quale aveva gettato le basi del suo impero economico, l’imprenditore spregiudicato che in Italia aveva in mano metà dei mezzi di informazione con cui era in grado di esercitare una grande influenza sul voto di un elettorato venuto a mancare pressoché da un giorno all’altro dei partiti suoi tradizionali punti di riferimento – a trarre profitto, tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994, dal sentimento popolare che invocava anzitutto una profonda svolta moralizzatrice della vita pubblica. Anche i critici più intransigenti devono ammettere che, quando si presentò agli elettori disorientati e resi ondivaghi dal terremoto che aveva colpito tutti i partiti che avevano dominato la scena politica italiana tra il 1945 e il 1994, Berlusconi compì un capolavoro, dimostrando autentiche qualità di leadership ovvero la capacità di mobilitare e orientare grandi masse e di cementare le forze politiche necessarie per poter accedere al governo. Le previsioni – che poi vengono sovente nettamente smentite – inducevano allora a pensare che il Partito democratico della sinistra, nato dalle ceneri del Pci, uscito quasi indenne da Tangentopoli, potesse capitalizzare a favore proprio e delle forze ad esso collegate l’aspirazione alla rinascita morale, prima ancora che politica, del paese. Berlusconi diede scacco matto allo schieramento che si qualificava come progressista, mettendo in atto, per battere in primo luogo gli ex comunisti, l’operazione vincente di legare al suo carro quelli che apparivano nemici giurati: la Lega di Bossi, che smaniava per la separazione della Padania e non faceva che sparare quotidianamente contro il Mezzogiorno parassita, e Alleanza nazionale, che, erede del neofascista Movimento sociale e supernazionalista, aveva profonde radici nel Sud di cui si presentava come il difensore. Berlusconi, Bossi e Fini, dando insieme una lezione di Realpolitik e una testimonianza di quanto fosse malato il nuovo sistema politico che nasceva dalle ceneri del vecchio, strinsero l’alleanza che alle elezioni del 1994 vinse la partita, ottenendo una clamorosa vittoria che faceva ricordare quella della Dc nel 1948. Il Cavaliere fondò Forza Italia, un partito che già dal nome lanciava a un paese largamente disorientato un messaggio di ottimismo; diffuse in tutti gli angoli – facendo un uso martellante in primo luogo delle televisioni da lui controllate e dando la prima prova dell’efficacia della «video-politica» – la promessa che con lui sarebbe andata al potere una élite di governanti competenti, capaci di ripetere il miracolo economico di cui egli, uomo fattosi dal nulla, aveva dato una dimostrazione con il successo suo e delle proprie imprese. Mentre, con vera impudenza, si presentava come ammiratore dell’opera purificatrice svolta dai magistrati di Tangentopoli e in particolare da Di Pietro, raccolse al tempo stesso in Forza Italia numerosi orfani della Dc e del Psi, i quali non facevano mistero di considerare Tangentopoli un colpo di Stato e Di Pietro un killer politico. Così vinse in maniera sorprendente e imprevista le elezioni del 1994 e inaugurò il suo lungo potere, dando la propria impronta all’Italia post-Tangentopoli.
Gli inizi di Berlusconi presidente del Consiglio non furono però felici, poiché pochi mesi dopo l’avvento al potere, piantato in asso dalla Lega per disaccordi sulla riforma del sistema televisivo, dovette dimettersi, lasciando il posto ad un secondo governo tecnico guidato da Lamberto Dini, già ministro del Tesoro con il Cavaliere. Intanto i partiti, alla ricerca chi in un modo e chi nell’altro di nuove identità e di nuove forme organizzative, largamente fluttuavano. Le elezioni del 1996 posero fine al governo Dini. Quest’ultimo, offrendo un bell’esempio di trasformismo, non si fece scrupolo a candidarsi nello schieramento di centro-sinistra, guidato da Romano Prodi, il quale aveva riunito nell’Ulivo pidiessini, popolari (ex democristiani di sinistra) e diversi altri soggetti, in vista della riscossa contro Berlusconi, il quale schierava dalla sua parte, nel seno del Polo per le libertà, Forza Italia, Alleanza nazionale, centristi ex democristiani e anche i seguaci di Pannella. La Lega stette sulle sue e questo creò le condizioni per la vittoria dell’Ulivo. Da quanto sopra, si poteva ricavare quanto segue: 1) che la débâcle del sistema dei maggiori partiti aveva favorito una tendenza alla frammentazione che non si sarebbe più fermata; 2) che l’avvicendarsi al governo di schieramenti alternativi, dato il loro carattere troppo composito, non era in grado di assicurare stabilità alle maggioranze e agli esecutivi, in quanto le coalizioni erano intimamente fragili e poste sotto la persistente minaccia, ventilata o messa in atto, che una o più componenti determinanti delle maggioranze parlamentari abbandonassero prematuramente il campo; 3) che era aperta la strada ai trasformismi di singoli soggetti e formazioni; 4) che i partiti di massa organizzati cedevano ai «partiti liquidi» (l’unico partito a mantenere certi tratti dei primi era ancora il Partito democratico della sinistra; ma si trattava di un aspetto residuale in progressivo cedimento); 5) che la posizione autonoma assunta dalla Lega indicava che il sistema dei partiti andava assumendo le caratteristiche di un sistema tripolare. Bisogna inoltre aggiungere che mancava agli schieramenti in competizione la reciproca «legittimazione»: poiché Berlusconi prese da subito a presentarsi come il «difensore della democrazia» e dei principî liberali minacciati dai sedicenti «progressisti» che in realtà non sarebbero stati altro se non la longa manus dei «comunisti» illiberali e statalisti e dei giudici postisi al loro servizio con finalità politiche; i progressisti dal canto loro denunciarono il pericolo rappresentato dal Cavaliere che, gravato da un enorme conflitto di interessi tra il suo ruolo politico e la tutela delle proprie aziende, creava nel paese una pericolosa «emergenza democratica». Una vicenda destinata a trascinarsi negli anni seguenti.
La lezione venuta dal governo di centro-sinistra presieduto da Prodi fu per aspetti sostanziali analoga a quella impartita dal primo governo Berlusconi. Come questi era stato «tradito» dalla Lega, così Prodi lo fu da Rifondazione comunista (il piccolo partito nato da quanti nel 1991 avevano avversato lo scioglimento del Pci), che era uscito dalla maggioranza che sosteneva il governo. La caduta di Prodi portò nell’ottobre 1998 alla formazione di un esecutivo guidato dal segretario del Pds Massimo D’Alema; da cui venne un’altra «lezione». Prodi, e insieme con lui i pidiessini Walter Veltroni e D’Alema, aveva in precedenza solennemente affermato a nome del comune schieramento – si trattava di un patto d’onore inteso a moralizzare la vita pubblica – che, in omaggio alla volontà sovrana del popolo, non avrebbe mai accettato di guidare nel corso della legislatura governi che non avessero ricevuto la loro legittimazione formale da parte degli elettori e che non sarebbe quindi cambiata la maggioranza parlamentare. Dimentico del patto d’onore e alla ricerca di una maggioranza, D’Alema accettò il sostegno di due pattuglie dai colori opposti formate rispettivamente dai seguaci dell’ex presidente democristiano Francesco Cossiga e di Clemente Mastella, eletti nelle file del centro-destra, e da quelli di Armando Cossutta, che, operata una scissione da Rifondazione, avevano costituito il partitino dei Comunisti italiani. Esempi plurimi, destinati in futuro a replicarsi nei diversi schieramenti, sia di trasformismo sia del male dello scissionismo dei partiti sia della conseguente instabilità delle coalizioni che inquinava e indeboliva strutturalmente Parlamento e governi. La sconfitta subita dal centro-sinistra alle elezioni regionali del 2000 indusse D’Alema, che aveva previsto una clamorosa vittoria, a rassegnare le dimissioni; cui fece seguito un governo Amato, al quale pose fine la vittoria di Berlusconi alle elezioni del maggio 2001. Ultimo atto significativo di questo governo fu l’approvazione di una affrettata legge costituzionale che, per strappare consensi alla Lega, modificava il Titolo V della Costituzione, introduceva elementi di federalismo attribuendo agli enti locali nuovi e più ampi poteri in materia legislativa e fiscale, col risultato di indebolire in maniera significativa i poteri centrali ...

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  1. Copertina
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  4. Indice
  5. Lettera a Matteo Renzi
  6. Riflessioni sull’esperienza di governo di Matteo Renzi