Parte seconda
Fattori psichici, sociali e politici
III. Uomini inquieti al centro del dramma
1. «Era un soldato esaurito perché di lui si era fatto un vero strazio».
La complessità delle dinamiche politico-militari dello sfondamento dell’ottobre 1917 e degli uomini che vi presero parte rende impossibile spiegare Caporetto in modo semplicistico; non consente cioè di ridurre la portata di un evento così importante alle responsabilità di due o tre generali o all’esito di una singola battaglia. Caporetto fu il frutto di una congerie di eventi, alcuni dei quali certamente prevedibili e quindi prevenibili, altri di difficile se non impossibile controllo. Codardia, inesperienza, pioggia e foschia, equipaggiamenti non adatti, strategie discutibili, morale depresso, distacco degli uomini dalle ragioni della guerra e dei governanti dalle loro esigenze. Fattori numerosi e vasti i cui contorni sono ancora oggi difficili da individuare con chiarezza, che convissero con altri opposti, come l’eroismo di alcuni reparti e col semplice ma non scontato senso del dovere di quella maggioranza di soldati e ufficiali che si ritirarono perché gli era stato ordinato e che si dimostrarono pronti a riprendere le armi appena definita la linea di difesa. Uomini, questi ultimi, che se non furono eroi in quelle giornate, lo furono nei giorni e nei mesi successivi proprio come lo erano stati nei mesi precedenti.
Certo il loro morale, quell’ottobre, dopo due anni e mezzo di guerra, non poteva essere alto. Cadorna aveva notato uno scadimento dello spirito combattivo, che spiegava con la delusione di soldati e ufficiali per gli scarsi risultati ottenuti in alcune operazioni preparate come se fossero risolutive: l’insuccesso dell’azione sull’Ortigara, ad esempio, e con essa le due di settembre in Val Sugana, tese ad aprire un varco sul fronte austriaco con la connivenza di un comandante di un battaglione nemico. Ma anche quella sul San Marco, nella quale, nonostante il gran fuoco delle artiglierie amiche, le fanterie non riuscirono a ottenere che pochissimi metri di terreno1.
Da più parti però continuavano ad arrivare conferme sul morale saldo di truppa e ufficiali. Non solo si esprimevano in tal senso gli ufficiali di complemento dei vari corpi d’armata ma anche l’Ufficio situazione, che nella sua ultima relazione sul morale dei soldati aveva concesso particolare attenzione proprio alla II armata, ottenendo per bocca dei colonnelli Calcagno e Testa ottimi riscontri2.
Fu proprio su queste basi che Cadorna e Porro poterono dichiarare alla Commissione che nell’imminenza dell’offensiva austriaca (20-23 ottobre 1917) i comandanti del XXVII, IV e VII corpo di armata avevano dichiarato agli ufficiali di collegamento loro inviati dal Comando supremo che lo spirito delle truppe era buono, che non necessitavano di nulla e che attendevano con fiducia l’offensiva. Informazioni, queste, che furono poi confermate di persona a Cadorna da Badoglio, Cavaciocchi e Bongiovanni il 23 ottobre3.
Difficile capire quanto in queste rassicurazioni giocasse la volontà di compiacere il capo, descrivendo scenari e umori distanti dalla realtà oppure se, come ebbe a dire il ministro Alfieri, alcuni comandanti abbiano confuso la fiducia con la fede, le certezze materiali con le emozioni4; di sicuro i soldati erano stanchi, provati dalle marce, dai lavori, dai turni in prima linea e dalla carenza di cibo5.
Testimonianze in tal senso ci giungono anche lontano dai reticolati, in special modo dal mondo politico, da quello dell’informazione e dagli ambiti assistenziali: Giulio Alessio, vicepresidente della Camera dei deputati, raccontò alla Commissione di aver ricevuto tantissime lettere di soldati stanchi del perdurare del conflitto e di averle inviate al ministero dell’Interno affinché si tenesse conto di questo diffuso sentimento6. Olindo Malagodi, in una visita al fronte nel gennaio del 1917, aveva riscontrato un «preoccupante malcontento», più fisico che morale7. Angelo Bartolomasi, vescovo di campo e della curia castrense, parlò in modo perentorio di «soverchia stanchezza»8.
Erano numerosissimi i fattori che spiegavano lo stato d’animo dei soldati nelle giornate di ottobre, non molto diversi tutto sommato da quelli che spiegavano le tante diserzioni che colpirono gli altri eserciti in guerra (l’esercito francese, sappiamo, conobbe tale fenomeno in larghissima misura nel corso del 1917).
Sul morale, ad esempio, agì lo stridente contrasto tra gli enormi sforzi profusi in battaglia e gli scarsi risultati ottenuti, con vantaggi territoriali, specialmente sul Carso, assai deprimenti se commisurati al numero di vite umane rimaste sul campo; per non parlare dei tempi lunghi, troppo lunghi in trincea, con ritardi nelle rotazioni spesso inspiegabili, che avrebbero provato chiunque.
Diffuso il malumore anche tra gli ufficiali, sottoposti a un controllo «stile spionaggio» da parte dei «giovinetti» (gli ufficiali di complemento) e presi nel fuoco incrociato di inaccettabili avanzamenti e immotivate retrocessioni9.
C’erano poi, per gli uni e per gli altri, le preoccupazioni connesse alle carenze sanitarie: i ricoveri erano mal strutturati e mal forniti e non consentivano al personale medico di intervenire con prontezza ed efficienza contro le diffusissime febbri reumatiche o, per soffermarci all’immediato pre-Caporetto, per affrontare in modo adeguato l’epidemia diarroica che si diffuse nell’estate del 1917 e che consegnò ai ricoveri migliaia di soldati10.
Allargando lo sguardo a livello europeo, l’individuazione dei tratti comuni della vita di trincea si fa più complessa, viste le forti attenuazioni date dalle molte diversità delle zone di guerra. Si pensi, ad esempio, come il terreno carsico, aspro e roccioso, con una superficie dura e difficile da modellare, non abbia consentito all’esercito italiano la costruzione di trincee sul modello di quelle tedesche, profonde in alcuni casi anche 8 o 9 metri, ben fortificate, dotate di elettricità, alcune con riscaldamento e depositi rifornimenti e munizioni. Camminando ancora oggi sui sentieri delle montagne che ospitarono la guerra italo-austriaca, nonostante il fascino dato dalla percezione della spaventevole fatica sofferta dai soldati nel costruire e proteggere quei ripari, si intuisce quanto fossero precari. Erano fondamentalmente delle caverne, nel migliore dei casi delle grotte naturali, più spesso delle buche artificiali di scarsa profondità che non consentivano ai soldati una normale postura e li costringevano ad aggiungere alle sofferenze di guerra la precarietà dei rifugi.
Nonostante queste specificità, però, la vita del soldato fu vita di trincea su tutto lo scacchiere europeo e alcuni importanti tratti comuni sono facilmente rinvenibili, ben documentati dai diari e dalle memorie dei protagonisti oltre che dagli studi scientifici.
In tutte le trincee, ad esempio, nelle lunghe pause tra un combattimento e un altro, si assisteva a una guerra nella guerra, ove il nemico assumeva di volta in volta l’aspetto della polvere e del fango, del freddo e dell’umidità; e poi pulci, pidocchi, topi, pioggia, malattie e fame. Senza contare che spesso i soldati erano costretti a vivere per giorni vicino ai cadaveri in putrefazione dei propri compagni, che per ragioni di sicurezza non avevano potuto spostare e che per le medesime ragioni ogni tanto usavano per proteggersi dai colpi di fucile del nemico.
Trincee; luridi cunicoli, budella che erano sporche di sterco e di fango e che puzzavano di fradicio o di cloruro di calcio vuotato dai soldati dell’infermeria sopra i cumuli dei cadaveri […] intanto che si aspettava di morire si rosicchiava la galletta raccolta nelle tasche dei feriti; si beveva acqua putrida che scolava dalle alture ruscellando attraverso i morti in decomposizione11.
Neanche le seconde linee offrivano un riparo più sicuro visto che se le prime erano sottoposte al tiro ininterrotto dei fucili, le seconde erano martoriate dal tiro delle artiglierie.
In queste condizioni molti di quelli che riuscirono a salvarsi finirono col perdere la testa e andarono a ingrossare le file degli sbandati. Le stime, probabilmente sottodimensionate, parlano di circa 40 000 soldati che a causa di esplosioni, spari, lampi e vessazioni di ogni sorta vennero colti da depressione, stati d’ansia e di paura che li portarono a vagare nei boschi e a piangere e ridere senza alcuna ragione12.
Il tenente Bonaselli, della 83a batteria da montagna, raccontò alla Commissione di aver incrociato il 20 giugno del 1917 un battaglione della brigata Piacenza che andava verso le linee del fuoco in pessime condizioni morali, al punto che ad ogni scoppio di granata verso il Monte Zebio i soldati si buttavano tutti a terra e gli ufficiali erano costretti all’uso del calcio del fucile per farli rialzare e camminare. Ciò si spiegava, forse, sostenne il Bonaselli, con quanto successo alla brigata Sassari, sempre sul Monte Zebio, pochi giorni prima. Ammassati a 15-20 metri sotto il ciglio del monte, i soldati della Sassari furono erroneamente bombardati dalle artiglierie amiche13.
Naturale, pertanto, che in trincea si siano diffusi fenomeni di fraternizzazione che il più delle volte sfociavano nel «non farsi male». Del resto, in alcuni casi, i reticolati che delimitavano la «terra di nessuno» erano particolarmente vicini. Sul Cocuzzolo Camperi, ad esempio, la distanza tra trincee si era progressivamente ridotta fino a soli otto metri. In quelle condizioni era inevitabile si giungesse a volte, magari solo per poche ore, a un modus vivendi apparentemente inaccettabile in una guerra, fatto di taciti accordi e accomodamenti che tenessero in vita tutti14. Era la riprova che l’abbrutimento della vita di trincea non aveva spento...