Giornalismi nella rete
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Informazioni sul libro

Un libro scritto nel web per un giornalismo che è sempre più web. Costruito per mesi sul sito giornalisminellarete.donzelli.it con la collaborazione di decine di operatori dell'informazione e giovani studenti di Comunicazione, il nuovo libro di Michele Mezza acrobaticamente si cimenta in uno spericolato surfing fra le tempestose onde del mare giornalismo. Sarà Facebook l'edicola del mondo? Google automatizzerà le notizie? Il libro, integrando l'approccio radicale dell'autore con l'esperienza di un testimonial del sistema giornalistico italiano come Giulio Anselmi, già grande direttore di giornali e attualmente presidente del l'Ansa, propone elementi per orientarsi nel labirinto digitale azzardando risposte di fondo e proponendo approcci analitici per il nuovo che verrà. L'innovazione viene raccontata con il linguaggio dell'innovazione: filmati, link, testimonianze, visibili sulla carta con i QR code. Il ragionamento procede mostrando le esperienze concrete di grandi giornali, come la ristrutturazione del «Washington Post» o la digitalizzazione del «Guardian», e confrontandole con le strategie di alcuni dei più prestigiosi testimoni della professione – da Claudio Giua, direttore dello sviluppo e dell'innovazione del Gruppo L'Espresso, a Roberto Napoletano, direttore de «Il Sole 24 Ore» – e le dinamiche di realtà emergenti, come i nuovi portali di giornalismo investigativo, o i siti news gestiti da software. Il quadro finale è quello di un mestiere che, invece di raggrinzirsi, dilata le sue potenzialità fuori dai perimetri redazionali tradizionali, permeando gli aspetti più diversi dell'attività civile, amministrativa, culturale. Per questo il libro si conclude con il grido liberatorio: il giornalismo è morto, viva il giornalismo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868436926
Categoria
Sociology

II. Social First

La rivolta dei direttori, la rivoluzione dei lettori

«Dal 1° agosto 2014 i reports finanziari dell’agenzia Associated Press saranno elaborati da un robot» (http://giornalisminellarete.donzelli.it/qrcode-2-01).
La notizia che riportiamo in testa al capitolo rende meno scontatamente applicabile al giornalismo la distinzione indicata da Manuel Castells, nel suo notissimo libro Comunicazione e potere1, dove sostiene che la divisione fondamentale nella società in rete è tra forza lavoro autoprogrammabile e forza lavoro generica. Fino ad oggi le diverse funzioni giornalistiche erano tutte naturalmente rintracciabili nel primo campo. Infatti la produzione di informazione era la quintessenza di un’attività autoprogrammabile, in quanto era ineludibilmente realizzabile solo da un’applicazione irregolare e imprevedibile della discrezionalità professionale.
Castells spiega dettagliatamente, nello stesso passo citato, che
la forza lavoro autoprogrammabile ha la capacità autonoma di concentrarsi sull’obbiettivo assegnato nel processo di produzione, di reperire le relative informazioni, di ricombinarle in conoscenza, usando lo stock di conoscenza disponibile, e di applicarla nella forma di compiti orientati agli obbiettivi del processo.
Una descrizione efficace per distinguere le funzioni automatizzabili da quelle invece ancora nel dominio esclusivo dell’uomo. Una sorta di Teorema di Turing del giornalismo.
Sennonché, a rendere più complesso e accidentato il percorso è la progressione della potenza di calcolo, che rende oggi possibile, come abbiamo visto nella notizia riferita all’Associated Press, la riproduzione di attività sofisticate dell’uomo in un ambiente software.
Si estende così il paradigma di Lev Manovich, che nel suo saggio Software Culture ci dice: «Il software è il motore delle società contemporanee»2. Infatti ogni nostro pensiero, o atto comunicativo, è ormai inesorabilmente mediato, filtrato, configurato e alfabetizzato da un algoritmo. Da quest’imbuto bisogna passare per essere intellegibili. E con questa nuova potenza bisogna trattare per essere autonomi. Ancora Manovich ci ammonisce: «[Oggi] tutto – fabbriche, aeroplani, transazioni finanziarie o processi culturali – è stato progressivamente, e in varia misura automatizzato. Tuttavia l’automazione algoritmica è arrivata sul web così rapidamente che nessuno l’ha ancora discussa teoricamente».
Ma, come abbiamo visto, siamo già oltre: è il software che oggi viene in qualche modo interfacciato dall’uomo per renderlo un prodotto completo. E dunque bisogna adattare l’intera gamma delle attività umane al protagonismo tecnologico. Esattamente come all’inizio del Novecento l’intera cultura sociale venne riorganizzata a partire dal trionfo del macchinismo nella produzione industriale.
In questo quadro allora il tema che il nostro progetto formativo affronta è come ricostruire una catena del valore del lavoro giornalistico dove la funzione professionale del giornalista ritorni centrale nella sua discrezionalità.
In sostanza si deve ritrovare una relazione uomo-macchina per cui la potenza operativa sviluppata dai nuovi sistemi di intelligenza artificiale – di questo stiamo ormai parlando in redazione – sia continuamente formattata e assettata da un controllo professionale che rimetta l’imprevedibilità umana alla guida del sistema. La relazione fra il professionista e l’apparato che lo affianca è oggi discriminante per valorizzare il proprio lavoro. Ma non basta.
Accanto alla capacità di addomesticare e non essere addomesticati dai dispositivi tecnologici cresce un’altra facoltà essenziale per rendere prezioso il proprio lavoro redazionale: la relazione con gli utenti. È proprio la nuova domanda sociale che esprime questo nuovo protagonista che sta cambiando noi giornalisti.
Ogni anno, con l’approssimarsi degli ultimi giorni di dicembre, il prestigioso magazine «Times» pubblica in copertina l’effigie del personaggio destinato a segnare i dodici mesi che stanno per iniziare. È una tradizione che accende grandi attese e impone anche grande rigore alla redazione nella scelta del personaggio, perché si gioca il suo prestigio nella capacità di individuare realmente il testimonial del prossimo anno. Alla fine del 2006 per la prima volta in copertina non comparve una fotografia di un volto noto, ma tre lettere: YOU. Con la didascalia: Sì, proprio tu. Tu controlli l’Età dell’Informazione. Benvenuto nel tuo mondo (http://giornalisminellarete.donzelli.it/qrcode-2-14).
C’è poco da aggiungere. Gli anni successivi si sono incaricati di avvalorare ed esaltare la scelta di «Times».
Il nuovo protagonista del mercato della comunicazione è indiscutibilmente quella sterminata platea di utenti, lettori, telespettatori, esseri viventi. A seconda della capacità di integrare nel proprio processo produttivo la potenza di iniziativa di quel soggetto il prodotto giornalistico acquisisce valore e diffusione.
Una sintesi di questi due nuovi parametri professionali – tecnologia e società – ci viene proposta da un esempio di giornalismo che ancora campeggia all’orizzonte dell’attualità: il caso Snowden3 (http://giornalisminellarete.donzelli.it/qrcode-2-11).
Mi riferisco alla clamorosa denuncia dello spionaggio globale realizzato dall’agenzia americana National Security Agency (NSA), denunciato da Edward Snowden con la collaborazione di alcuni grandi quotidiani come il «Guardian» o il «New York Times», e la complicità di un giornalista come Glenn Greenwald. Nel libro pubblicato da Greenwald sul caso, No Place to Hide4, si ricostruisce dettagliatamente l’intero affaire. Appare evidente come nel divenire del clamoroso caso si siano mutate radicalmente funzioni e ruoli nella tradizionale catena del valore dell’informazione. Infatti nel caso Snowden il giornalista – Greenwald – è solo un consulente, un partner delle fonti. Il vero protagonista, non solo come testimone ma anche come organizzatore e gestore dei linguaggi, è proprio il giovane informatico che decide di rendere pubblico quanto ha appreso sulle strategie di controllo globale della NSA. I giornali, stiamo parlando delle principali testate del pianeta, come ad esempio, oltre le due citate, «El País» o «Le Monde», si limitano ad amplificare le notizie, senza alcuna possibilità di controllo né di organizzazione del flusso di informazioni che pubblicano.
Centrale in questo processo è proprio il controllo diretto della tecnologia da parte dei giornalisti. Infatti, spiega Greenwald nel suo libro, Snowden, dopo aver contrattato sotto falso nome, si decide a rivelargli le sue informazioni solo dopo che si è accertato che Greenwald ha imparato a organizzare e a riprogrammare i software di decifrazione che sono alla base dei database utilizzati. «Se non sei autonomo nell’utilizzarli – gli dice Snowden – allora non sei autonomo nemmeno nel pensare l’informazione e dunque non posso fidarmi di te».
In questo contesto noi abbiamo individuato questi nuovi skills che informeranno l’identità del nuovo giornalista digitale.
Web system master: elabora e profila le risorse digitali per rendere il sistema editoriale sempre più aderente alla filosofia della redazione. Rende affidabili gli automatismi degli algoritmi nel lavoro giornalistico. Negozia l’algoritmo con i tecnici.
Geofeed desk manager: programma e gestisce la georeferenziazione delle notizie sia in entrata che in uscita, supportando la redazione nell’adozione dei dispositivi di mapping e di monitoraggio del territorio tramite le risorse satellitari, e ottimizza l’uso di soluzioni di ripresa di eventi con i nuovi dispositivi sensoristici volanti come i droni.
Social media and data mining reporter: verifica e controlla i dati degli input che affiorano nei social network, approfondendone il contenuto tramite il setacciamento nella geografia dei database accessibili.
Video news and message designer manager: arreda pagine e siti con gallerie video e fotografiche, orientando e riformulando titoli e richiami a una gerarchia digitale dei contenuti, con l’obiettivo di bilanciare contenuti, fruibilità e funzioni delle pagine web su cui interviene.
Crowdsourcer and viral manager: incentiva e sollecita lettori e utenti a lavorare per il giornale producendo contenuti e documentazione, e promuovendo le attività della testata sui principali social network.
Su questi nuovi profili si articolerà la nuova redazione. E in base a queste competenze si valuteranno i nuovi giornalisti. Ogni profilo corrisponde sul sito a una pagina specifica che aggiorna i dati sulla domanda professionale e le nuove esigenze del mercato.
La scelta di queste figure in una varietà pressoché infinita di combinazioni e soluzioni risponde all’esigenza che abbiamo posto all’inizio: riconfigurare una nuova forma di redazione in cui la progressione dei sistemi tecnologici trovi sempre un controllo e una capacità di progettazione che sia interna alla redazione e non venga delegata all’apparato tecnologico, né tanto meno ai fornitori della stessa tecnologia. Infatti il filo conduttore che lega le figure che abbiamo abbozzato è quello che vede il professionista dei linguaggi e dei contenuti, persino a prescindere dalle sue approfondite competenze tecniche, riuscire a orientare le caratteristiche dei sistemi artificiali, modificandone, mediante la continua azione di modellizzazione, le logiche di funzionamento.
Il processo è esattamente quello che viene seguito nella realizzazione dei sistemi digitali: reperire le informazioni, ricombinarle, usando stock di saperi e competenze disponibili. Sono questi i passaggi che stanno già connotando la nuova fabbrica delle news.
In questo processo si inseriscono però nuove competenze e soprattutto inedite ibridazioni di saperi e pratiche che riconfigurano completamente lo skill del giornalista, dopo due secoli di tradizione.
Ma al di là delle dettagliate definizioni delle singole funzioni, il dato che attraversa e caratterizza le proposte che avanziamo nel nostro sistema formativo riguarda un processo di fondo che segna l’intera evoluzione del sapere, prima ancora che dell’informazione: la relazione fra il dato scientifico e il suo significato. All’ombra di questa distinzione per secoli si è discusso della dialettica fra tecnica e letteratura, fra umanesimo e scienza. Più concretamente, per venire al nostro tema del giornalismo, la distinzione fra dato e significato è la base che identifica il nostro mestiere. Raccogliamo dati, ma vendiamo significati.
Oggi i due elementi si identificano, e diventa impossibile dedurre i secondi se non siamo in grado di individuare i primi. «Il problema della comunicazione è riprodurre in un punto un messaggio generato in un altro punto. Spesso i messaggi hanno un significato». Così scriveva nel 1948 Claude Shannon, a margine del suo saggio del 1948 A Mathematical Theory of Communication in cui elaborò il concetto di bit come unità di misura dell’informazione.
Oggi dal bit siamo al flusso inesauribile, e con il flusso alla velocità, e con essa alla necessità di supportare le possibilità umane di fronteggiare la domanda sempre più frenetica di bit con sistemi automatici intelligenti. In questa giostra decide chi riesce a ridurre la sua dipendenza da altri nella capacità di raccogliere e identificare i dati.
La conferma e la pratica di questa logica ci vengono, come è ormai consuetudine da tempo, dall’evoluzione continua di BBC che, nell’aprile del 2015, annuncia di aver deciso di avviare la sua evoluzione da media company, che sembrava la nuova frontiera dei sistemi televisivi, a Internet-centric broadcaster (http://giornalisminellarete.donzelli.it/qrcode-2-12). Ma forse a contrassegnare i nuovi tempi è proprio la provvisorietà e l’instabilità delle forme e degli assetti del sistema, che cambiano in maniera sempre più frenetica.
Come spiegava anni or sono Paul Virilio, stravolgendo la stessa previsione di McLuhan, «è la velocità il messaggio». Proprio la capacità di cogliere il divenire oggi contraddistingue le aziende di successo dagli eterni inseguitori.
È questo che si propone Matthew Postgate, chief technology officer della BBC. Il suo compito è quello di posizionare il servizio pubblico di sua maestà britannica al livello dei grandi challenger della rete, come Netflix, Google, ma anche Amazon, ha aggiunto significativamente Postgate.
Proprio l’indicazione del grande service provider che vende e consegna nel mondo ci fa intendere cosa significhi l’espressione Internet-centric broadcaster. Non certo quello che va per la maggiore nei piani alti di viale Mazzini, ossia infilare internet in ogni fotogramma in modo da dire siamo sintonizzati con il mondo. Essere un soggetto della rete significa – spiega pacatamente il nuovo stratega di BBC – pensare per internet; i gruppi dei media, insiste Postgate, «devono apprendere dai cambiamenti di mercato se vogliono mettersi nella posizione per competere con le aziende nate nell’era digitale». In questa competizione viene ritrovata la mission nazionale di BBC, ossia assicurare al paese autonomia e sovranità nei linguaggi e nelle soluzioni con cui i suoi cittadini si ritrovano a relazionarsi in rete. In questa strategia i contenuti sono uno degli elementi, e neanche i principali. La memoria, la capacità di ricerca, le filosofie espressive in rete, la struttura degli algoritmi, il modo di dialogare con i server sono elementi altrettanto essenziali per far sì che un gruppo audiovisivo diventi indispensabile al proprio paese nella transizione digitale.

Calvino, Pasolini e la sesta W del giornalismo

Postgate non è poi così distante da un epico duello culturale che anticipò profeticamente il nodo attorno a cui ancora oggi ci si arrovella nella transizione al digitale. Mi riferisco al confronto fra Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino che animò le pagine dei giornali italiani nella seconda metà degli anni sessanta. Il tema era antico e modernissimo: le evoluzioni del linguaggio nell’equilibrio fra i sapori tradizionali e le contorsioni moderniste.
Rispondendo dalle pagine del «Giorno», il 3 febbraio del 1965 Pasolini aveva lanciato il sasso in piccionaia, criticando duramente l’inquinamento dell’italiano ad opera di tecnicismi ibridi. Dopo aver negato a lungo l’esistenza dell’italiano come lingua d’uso, in un intervento del 26 dicembre 1964 sul periodico del Pci «Rinascita», il poeta friulano aveva posto la questione del «nuovo italiano tecnologico», cioè di una «lingua della produzione e del consumo» nata nelle grandi aziende e nei centri di comando dell’industria capitalistica, capace di «omologa[re] tutti i tipi di linguaggio della koinè italiana»: le classi popolari avrebbero dunque rischiato di essere condannate al silenzio o alla massificazione linguistico-culturale, con la perdita delle capacità comunicative ed espressive precedentemente assicurate dai dialetti (http://giornalisminellarete.donzelli.it/qrcode-2-02).
A Pasolini che dice «l’italiano finalmente è nato […] ma io non lo amo perché è “tecnologico”» Calvino risponde che l’italiano rischia invece di morire, soffocato da una tradizione retorica deteriore e dalla tendenza all’antilingua. Ma l’italiano può sopravvivere – aggiunge Calvino – se riesce a trasformarsi in «lingua […] moderna», una «lingua agile, ricca, liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia gamma di ritmi della frase». In molte redazioni o uffici pubblici siamo ancora inchiodati a quel dilemma.
Questa rimane la frontiera dei nuovi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Un mestiere ancora umano. Introduzione di Giulio Anselmi
  6. Giornalismi nella rete
  7. I. Il Ghepardo, il fotografo e la literacy dell’informazione
  8. II. Social First
  9. III. Una finestra sul cortile
  10. IV. La gatta di Montaigne
  11. V. Il content management system. Il caso della resurrezione di «Newsweek»
  12. VI. Dalla geopolitica al geogiornalismo: l’impero di Borges
  13. VII. Fans e clienti in redazione
  14. VIII. Open First, but social media checking is better
  15. IX. Il personal brand journalism
  16. X. Il giornalismo è morto, viva il giornalismo
  17. Mappe
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