Carlo Rosselli, socialista e liberale
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Carlo Rosselli, socialista e liberale

Bilancio critico di un grande italiano

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Carlo Rosselli, socialista e liberale

Bilancio critico di un grande italiano

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«Non è più tempo né di anatemi né di apologie». Così scriveva Norberto Bobbio nella sua introduzione a Socialismo liberale, l'opera più nota di Carlo Rosselli (1899-1937). Gaetano Pecora ha raccolto questo monito e, senza preconcette avversioni (ma anche senza monumentalità celebrative), ha voluto fare le giuste parti sul conto di Rosselli, di cui proprio nel 2017 cade l'ottantesimo della morte, avvenuta in Francia per mano di sicari fascisti. E così, con il piglio di una conversazione diretta, immediata – leale, si potrebbe dire – ne ha registrato gli attivi ma non ne ha dimenticato i passivi. Dove per «attivi» s'intende anzitutto l'idea – carissima alla sensibilità di Rosselli – secondo cui o il socialismo è la prosecuzione del liberalismo, o non è (e si riduce allora a malinconico sogno di burocrati). E per «passivi», invece, vanno intesi tutti gli scompensi e tutte le ombre che Rosselli fece cadere proprio sul guizzo di questa sua felice intuizione. Con la conseguenza che, talvolta, il lettore è costretto a bilanciarsi su pagine che non fanno centro tra loro e che qualche volta si sciupano l'una sull'altra. Il tutto però accompagnato dalla convinzione che Rosselli poté toccare il segno o mancarlo. Ma che anche quando lo mancò e lasciava una mezz'ombra ambigua dietro di sé, anche allora egli saliva sempre in un'atmosfera superiore dove respirava un'aria più pura e meglio ossigenata. Fosse solo per questo, il suo nome non deve cadere dalla nostra memoria. Il libro di Pecora aiuta a mantenercelo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868436995
Categoria
Sociologia

II. Il liberale

1. Il liberalismo: tra metodo e sistema.

Che direste di un maratoneta tonico, ben allenato, pronto a tutti i sacrifici di una lunga marcia, che direste se proprio quel maratoneta qualcuno o qualcosa costringesse sistematicamente al giro di pista e sempre, proprio sempre, lo arrestasse sulla corda dei quattrocento metri? Direste che lui è fatto per altre distanze e che a forza di trattenerlo in una misura tanto angusta gli si spegnerebbe dentro il demone della corsa, per cui o lui abbatte quella costrizione o quella costrizione abbatterà lui.
Direste cioè quel che Rosselli diceva del liberalismo conservatore che pur accendendosi di entusiasmo per la storia concepita come una grande e fascinosa cavalcata dove nulla c’era che gli uomini non potessero tentare sotto la spinta della loro iniziativa, di fatto poi non negava i mutamenti; ma erano mutamenti epidermici, leggere increspature quelle che i conservatori del liberalismo si compiacevano di registrare (e magari di promuovere); un po’ come avviene per uno specchio d’acqua, agitato e scomposto alla superficie ma quieto, troppo quieto, e tranquillamente immobile alla profondità. Sicché a chi come Rosselli capitava di sondarne i fondali, si rivelava un mondo quasi senza tempo, indurito dalla ripetizione dell’identico dove non avanza voglia per le novità del giorno di poi perché il giorno di poi è eguale, desolatamente eguale, al giorno di prima con uomini che stanno sempre lì, tali e quali, vivi ma come paralizzati nel loro sviluppo. Questa, per Rosselli, la drammatica contraddizione nella quale si aggirava l’idea liberal-conservatrice e che la consumava dall’interno con i suoi stessi acidi: «vedere cioè nella storia un perpetuo divenire, una serie di equilibri successivi, una perpetua negazione dell’ieri e del domani, per poi isterilirsi in una dogmatica affermazione della perpetuità della realtà attuale»1. Se veramente i liberali non volevano ridursi a pizzicare il chitarrino del sentimento con parole senza sostanza e senza suono, se veramente quelle parole dovevano significare qualcosa, allora – proclamandosi essi storicisti – non potevano a fil di logica «racchiudere tutte le infinite possibilità di un domani anche lontano in una sorta di muraglia della Cina teoretica»2.
Storicista il liberalismo? Ottimo. Magnificamente detto. Tanto più che lo aveva detto Croce, i cui insegnamenti – conosciuti benissimo da Rosselli3 – facevano scattare molte molle della sua sensibilità. Tra queste, senza mai allentarsi, elastiche fino alla fine, la sollecitudine per un futuro indefinito e indefinibile che nessuno poteva costringere a priori nelle angustie di leggi economiche e di istituti giuridici così e così determinati. Nessuno, s’intende, tra liberali che liberali avessero voluto essere, e che perciò avrebbero tradito se stessi se si fossero acconciati alla stasi, all’idea di un presente immobile, mai veramente superabile e tutto chiuso nel circolo serrato dell’organizzazione liberal-capitalistica. Quale malinconico mancamento di sé a se stessi, quale saporosa capitolazione quando essi imprigionavano «lo spirito dinamico del liberalismo entro lo schema transeunte di un sistema sociale»!4
Ecco: il sistema e, quale contrappunto polemico al sistema, lo spirito dinamico, che in più occasioni Rosselli battezza anche come «metodo». Eccoli qui dunque, il sistema e il metodo, eccoli qui i poli dialettici che accendevano la macchina dei suoi pensieri e che lo facevano andare avanti e indietro, dal metodo al sistema, e poi indietro e avanti dal sistema al metodo, come su una specie di spola che tesseva così le fila dei suoi ragionamenti. I quali ragionamenti volgevano al brutto via via che Rosselli si faceva sotto al sistema capitalistico-borghese il cui difetto più grave, per lui, era la ripetizione, quella certa monotonia che faceva sembrare ferma ogni cosa, quasi senza dialettica di sviluppi, e sicuramente senza slanci di progresso. «Questo sistema – scriveva nel 1924 – pur non essendo del tutto rigido, è racchiuso entro limiti angusti»5.
Quando invece Rosselli virava dall’altra parte e si accostava al metodo, allora erano le sue feste perché lì egli trovava le porte aperte, lì l’aria entrava e le esperienze scorrevano. Tanto l’uno – il sistema – restringeva, tanto l’altro – il metodo – allargava; e dove il primo fissava e limitava, il secondo fluidificava e spaziava. Così tanto spaziava, così variati e mobili erano i lineamenti del metodo che quasi si stentava a vederne la vera faccia. E per Rosselli proprio questa scivolosa inafferrabilità che lo sottraeva ai vincoli di una disciplina troppo sistematica, proprio questo gioco di riflessi sfuggenti rivelava il vero volto del liberalismo che perciò o era mobile, danzante, addirittura snodato nelle sue giunture o non era affatto. Per cui sulle ali di questa concezione non trattenuta da regole fisse, non frenata da istituzioni così e così definite, sulle ali di questa concezione aerea, volatile vorremmo dire, volatile come solo volatile sa essere lo spirito, sulla base di questa volatilizzazione spirituale del liberalismo, Rosselli prendeva quota e ammoniva che no, che non stava «il liberalismo in un assieme statico di principi e di norme. Esso è da considerarsi invece in continuo divenire, in via di perpetuo rinnovamento e di perenne superamento delle posizioni già acquisite». Poi, breve, scorciato all’essenziale, troncava così: «Il contenuto concreto del liberalismo, muta nel tempo; quel che è fondamentale è lo spirito»6.

2. «Smaterializzare» il liberalismo: si può?

Convince? Non convince questa smaterializzazione del liberalismo? Piace? Spiace l’alleggerimento che ne fa Rosselli? Sondi chi vuole questi problemi. Noi, l’abbiamo già detto, miriamo ad altro fine che non è quello di battere dall’esterno sulla sua costruzione e dall’esterno, secondo le valutazioni nostre, stabilire se dietro c’è la pietra viva, il gesso o lo stucco. È dall’interno, invece, non con i nostri assunti ma con le acquisizioni stesse di Rosselli, è dall’interno, dunque, che vogliamo provarne la consistenza delle mura e collaudarne la disposizione degli ambienti; non da fuori, ma da dentro e non con i nostri ma con gli attrezzi forniti dallo stesso Rosselli che saggeremo la bontà di questo liberalismo fattosi completamente spirito, e perciò così leggero e aeriforme nei suoi sviluppi.
Ora, picchiandoci con le nocche sopra questa coerenza interna, un punto scopriamo che suona a vuoto, come di buca, di cavità che insidia l’equilibrio di Rosselli il quale, manco a farlo apposta, ci finisce dentro storcendo così l’articolazione del proprio metodo liberale. Ed è quando, immediatamente dopo aver stabilito che nel liberalismo, tutto scorre e nulla sedimenta, che tutto è provvisorio e nulla è perentorio, immediatamente dopo Rosselli, il sempre un po’ dimentico Rosselli, scrive così: «Il metodo viene inteso come un complesso di norme che stanno a base della vita dei popoli a civiltà europea, come un complesso di regole del giuoco che tutte le parti in lotta si impegnano di rispettare in quanto servono ad assicurare in modo definitivo la pacifica convivenza dei cittadini»7. Definitivo? Come definitivo? Ma allora, verrebbe da replicare, non è vero che tutto si scioglie e corre via come l’acqua su una china senza intoppi. Qualcosa c’è che si ferma, rallenta e trattiene. E perché poi non dovrebbe esserci? Se tutto cambia, se tutto si modifica, allora una cosa che non cambia e resta immodificata c’è, deve esserci per forza: ed è appunto la regola che consente quel cambiamento e promuove quella modificazione.
La quale modificazione, nei sistemi civili (di questi si occupa Rosselli e su questi ci stiamo trattenendo), si produce quando viene riconosciuta una verità che solleva l’anima e davvero la fa grande e generosa; la verità cioè per cui il sale della terra sono sempre loro, le minoranze, il piccolo drappello, gli eretici, tutti coloro insomma che dicono no, non ci sto con gli stili di vita dominanti; no, non ci sto con le opinioni e i gusti della maggioranza e rivendico il diritto di seguire la strada mia, che per essere mia è anche la migliore. Quando si organizzano così le cose, in modo da assicurare non la verità della maggioranza contro l’errore delle minoranze, ma il diritto di tutti (maggioranza e minoranze) a perseguire ognuno la sua verità, quando così si organizzano le cose, allora tutto cambia (e cambia anche con rapidità vertiginosa). Tutto. Tutto tranne una regola che deve di necessità rimanere ferma, definita e definitiva: la regola, appunto, delle minoranze, il diritto del loro dissenso. Che, badiamo bene, non è una delle regole del liberalismo, una fra le tante. È invece la regola prima, la regola delle regole, quella senza della quale noi non ci spiegheremmo il perché e il per come di tutte le altre libertà che, piaccia o meno, vengono sempre e soltanto da lì, dal diritto al dissenso appunto; è il dissenso che le fa nascere l’una dall’altra e che le cuce insieme con un filo che è sempre il filo di un medesimo tessuto e di uno stesso colore. Quale dissenso, infatti, può mai aversi quando non vengono garantite le libertà di voto e di associazione? Il dissenso, dunque, postula le libertà politiche. Ma alle libertà politiche si associa di necessità il diritto di rappresentanza delle opposizioni. E invero, cosa ne sarà mai delle libertà politiche qualora ad esse non si associ la facoltà di sostituire chi viene criticato? L’esercizio del diritto di voto, di associazione ecc., fa lievitare il malcontento, ma un malcontento che non ha la possibilità di organizzarsi in opposizione finisce presto o tardi per alimentare la violenza di un’esplosione rivoluzionaria. E la formazione di un movimento di opposizione non si soffoca forse con una giurisdizione onnipervasiva, sospettosa, occhiuta, tale da sottomettere a controllo capillare la vita privata di chi si pensa possa colludere con gli oppositori? Come stroncare l’opposizione se non violando, per esempio, il domicilio, la segretezza della corrispondenza e tutte le altre garanzie che circoscrivono la privacy individuale?
Il dissenso, come si vede, presuppone le libertà politiche. Le libertà politiche, di rimando, implicano il diritto di rappresentanza delle opposizioni, e il diritto delle opposizioni, proprio come in una catena, rende sicure le stesse libertà individuali. Ecco perché si dice che le libertà sono solidali fra loro: simul stabunt aut simul cadent. Quindi, istituti rappresentativi, libertà politiche e diritti personali principiano dal libero dissenso; il libero dissenso, a sua volta, è il precipitato giuridico di quell’ansito al cambiamento che tumultua nel metodo liberale. Giusto quel metodo sul quale Rosselli si è affacciato per un momento, vi ha sorriso e poi… poi ne è dovuto venir via strattonato come era dall’urgenza di riconoscere il «valore assoluto, in sé»8 di un istituto giuridico, il diritto delle opposizioni, che oltrepassava la mobile incertezza della storia e si consegnava alla perentorietà delle conquiste definitive. Definitive nel senso che erano per Rosselli come la pietra d’appoggio per tutte le altre costruzioni che vi si sarebbero aggiunte sopra; ma, appunto, di aggiunte si trattava, di addizioni, non di negazioni. Bastava che quella pietra venisse rimossa, che quell’istituto fosse percosso, perché il liberalismo precipitasse negli abissi di un fallimento disperato.
Notate la differenza: prima non c’era nulla, ma proprio nulla che si conservasse intatto nello scorrere del metodo liberale; ora invece, una cosa, magari una sola ma c’è, che rimonta la corrente della storia e si sottrae ai flutti del suo cambiamento: le opposizioni e il diritto alla loro esistenza legale. C’è una citazione che a questo punto preme per essere esibita: è in quel luogo di Socialismo liberale, dove Rosselli riprende in maniera più larga e spaziata quanto aveva già sostenuto cinque anni prima nell’articolo per «La Rivoluzione liberale» che poco sopra ha fermato la nostra attenzione. Segno evidentemente che quei pensieri avevano il respiro delle cose lunghe e non erano affatto il ghiribizzo di una giornata improvvisa. Premesso, scrive Rosselli, che «per il liberalismo, e quindi per il socialismo» (dove quel «quindi» lampeggia e noi ci frugheremo subito tra le sue pieghe quasi presentendo che lì dentro c’è un filo d’oro che è peccato disperdere), premesso dicevamo che «per il liberalismo, e quindi per il socialismo, è fondamentale l’osservanza del metodo liberale», Rosselli ne descrive le caratteristiche in linee di così pacata ragionevolezza e di così piana verità che quasi vien voglia di battergli le mani. Ascoltate: «Prima ancora di essere un sistema di meccanica politica, esso vuol essere una sorta di patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono fra loro per salvare nella lotta gli attributi della loro umanità». Poi, perché le parole non fluttuassero nel nulla, egli si china sui particolari e li trattiene così: «Per quanto non sia suscettibile di definizione rigida, si può dire che [il metodo] si concreti nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nel rispetto dei diritti della minoranza (in pratica nel diritto all’opposizione)»9.
Vedete: prima o poi torniamo sempre lì, all’opposizione, che è come il mozzo da cui si irradiano i diritti fondamentali – «tutti definitivamente acquisiti alla coscienza moderna»10 – e che fa girare veloce la ruota del liberalismo; tanto veloce la fa girare che i socialisti non riusciranno mai ad ingranarvisi e anzi, proprio come succede con i sassi scagliati contro i raggi in movimento, ne saranno rigettati via ogni volta che proprio quel diritto, sollevato da Rosselli a «valore assoluto» (e quindi valido per ogni tempo e in ogni luogo), essi ombreranno di dubbio e abbasseranno a concessione tattica e momentanea. «È precisamente questo diritto – ammoniva Rosselli dalle colonne di “Critica Sociale” – che sarebbe bene il Partito [socialista] dichiarasse una volta per sempre di voler riconoscere per l’avvenire»11.

3. Il dissenso e i socialisti.

«Una volta per sempre», «per l’avvenire»; e poi ancora: «valore assoluto», «definitivo»; diciamo la verità: sono parole che prendono un suono strano nell’orecchio del lettore; del lettore, vogliamo dire, dalla memoria lunga, che si rigira nella mente la molle pieghevolezza e la fugacità del metodo liberale, almeno come all’inizio lo aveva concepito Rosselli dove tutto diventava spirito e nulla – nemmeno il diritto delle opposizioni –, nulla c’era che solidificasse e prendesse la consistenza delle cose compatte, di quelle proprio che vogliono durare e sfidano l’urto del tempo. C’è dunque incoerenza? Sicuro che c’è. Ma è incoerenza felice perché l’averlo messo così il liberalismo, come ruotante sul pernio dell’opposizione, l’averne colto il sostanziale in tanta nebulosa vaghezza che vi si addensa dintorno, è prova indubitata di una singolare attitudine sintetica; è il segno, insomma, che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Il socialista
  7. II. Il liberale