I. Mafia e antimafia nel Lazio. Origini, sviluppi, territori e rappresentazioni
Naturalmente. Avanti sempre, avanti, fino a Roma. Là è il gran quartiere generale nemico.
Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano1.
Sono giunto quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non esiste.
Gaetano Mosca, Che cosa è la mafia2.
La presenza di gruppi criminali nel territorio laziale segnala una complessità quantitativamente e qualitativamente significativa. Si tratta in prevalenza di organizzazioni provenienti dalle aree di tradizionale insediamento, cui si accompagna il consolidamento dei gruppi autoctoni e stranieri. Spesso queste formazioni criminali convivono nello stesso spazio territoriale, con rari casi di conflitto aperto. Più spesso cooperano secondo alleanze e accordi strategici più o meno asimmetrici; talvolta sembrano coesistere in base a un reciproco e tacito riconoscimento, connesso alla spartizione dei campi e delle attività. Questa varietà di forme di regolazione è legata alle diverse fasi storiche del fenomeno criminale, ma anche alle diverse linee di sviluppo urbanistico e socio-economico dei contesti locali, cui si collegano tratti peculiari degli insediamenti mafiosi. Ne emerge un quadro variegato, con aree di insediamento – come quella settentrionale – in cui il fenomeno assume forme embrionali, cui si affiancano aree – quella metropolitana romana e il basso Lazio – caratterizzate invece da una lunga storia criminale, con conflitti, spartizioni, strategie egemoniche, accordi sul piano delle attività economiche.
Approfondendo questi caratteri salienti, nel capitolo si descrivono i tratti principali del contesto laziale, allo scopo di fornire un ampio spettro di informazioni e proporre un quadro d’insieme entro cui calare i casi di studio affrontati nel prosieguo del volume. Dopo aver rievocato le origini, le principali linee evolutive e una mappatura delle presenze criminali, il capitolo prosegue delineando quattro aree di insediamento, esito dell’intersezione tra le strategie criminali e le variabili del contesto socio-economico locale. Nonostante la profondità storica e la capillarità del fenomeno, la presenza mafiosa nel Lazio si mantiene sotto traccia fino a tempi recenti, quando assume una più decisa visibilità pubblica, grazie anche a un mutamento delle politiche giudiziarie, all’efficacia dell’azione repressiva e al consolidamento dell’associazionismo antimafia. Per questo, la seconda parte del capitolo sposta l’attenzione sul fronte dell’antimafia, istituzionale e civile, soffermandosi sugli aspetti di rappresentazione pubblica del fenomeno mafioso in un’area definibile analiticamente come non tradizionale. Rappresentazione influenzata dalle definizioni di volta in volta espresse dall’antimafia, dalla letteratura e dai media locali.
Oltre ai resoconti degli intervistati, la ricostruzione trae ampio spunto dalle fonti istituzionali e dal materiale giudiziario disponibile, dai rapporti e dalle relazioni elaborate da enti e associazioni di settore, arricchite dall’analisi della letteratura sul tema e da una rassegna della cronaca locale.
1. Le origini: dall’infiltrazione al radicamento.
«Il Lazio e in modo particolare Roma è diventato l’epicentro di mafia, camorra e ’ndrangheta, che operano nei settori più disparati e redditizi dalla droga ai sequestri, dai taglieggiamenti al riciclaggio del denaro sporco». Questa la fotografia esposta nella relazione della Corte d’appello di Roma del 1984 (cit. in Osl 2015, p. 18), lo stesso anno in cui l’allora procuratore Luigi De Ficchy riconosce che a Roma opera anche «una unica associazione criminosa […] di cui la banda della Magliana è asse preminente» (Tribunale di Roma 1984, p. 4). Queste due testimonianze confermano come nel Lazio oramai da decenni si segnali la presenza plurima di gruppi di criminalità organizzata. Maggiore attenzione è da sempre rivolta alle mafie storiche, poiché
vari fattori hanno consentito alla criminalità organizzata di stampo mafioso di insediarsi ed operare con relativa «tranquillità»: la posizione geografica centrale, la vicinanza con zone dove è più consolidato l’insediamento mafioso […], la presenza di importanti centri del potere economico, finanziario e politico, la dimensione dell’area urbana della capitale, che rende meno agevoli i controlli delle forze dell’ordine e garantisce una più facile mimetizzazione (Cpa 1991, p. 10).
Queste stesse argomentazioni si ritrovano nelle relazioni degli organi competenti fino agli anni recenti. La prossimità geografica ad aree di tradizionale insediamento farebbe del Lazio una meta di soggiorno più o meno permanente delle organizzazioni criminali, per sfuggire alle faide o alla cattura, ma anche per gestire i traffici illeciti, riciclare capitali e reinvestirli in attività imprenditoriali nei mercati illegali, legali o formalmente legali. Siamo di fronte a due matrici espansive di segno differente: la prima rimanda a fattori non intenzionali e la seconda a fattori intenzionali3. In entrambi i casi le mafie sembrano propense a stabilire condizioni di apparente «tranquillità» nel contesto di arrivo. Nel primo caso, assumono condotte di basso profilo per favorire un «dispositivo criminale» capace di assicurare la clandestinità ai latitanti ed evitare ripercussioni da parte degli organismi di contrasto (Dna 2012, p. 704). Nel secondo, la vocazione al reinvestimento configura presenze connotate da uno spiccato profilo imprenditoriale, accompagnato da forme organizzative fluide ed elevato ricorso alla corruzione, che permettono una certa mimetizzazione e un basso grado di attenzione pubblica.
In effetti, nella documentazione giudiziaria la prima fase di insediamento mafioso nel Lazio coincide con un periodo di fibrillazione nei contesti di origine, che ingenera spinte alla mobilità dovute a fattori esogeni (come i maxiprocessi a Cosa nostra in Sicilia) o endogeni al mondo criminale (come le faide interne a camorra o ’ndrangheta). Numerosi esempi di questo tipo coinvolgono tutte le principali organizzazioni tradizionali. «L’antica “vocazione” romana di “cosa nostra”» (Cpa 1991, p. 10) si rileva sin dagli anni settanta, con la residenza nella capitale di Leoluca Bagarella e di Giuseppe Madonia, e persino con l’insediamento di «una decina4 della famiglia di Santa Maria di Gesù di Stefano Bontade» (ibid.). Il caso più noto è la latitanza di Pippo Calò, capo della cosca Altarello-Porta Nuova. Soggiornando a Roma, Calò stringe contatti con la Banda della Magliana e con la camorra. Verrà arrestato nel 1985 nella sua casa alla Balduina, dopo tredici anni di latitanza. In quegli stessi anni risiedono nella capitale diversi referenti della ’ndrangheta, anch’essi in rapporti con esponenti della Banda. Si pensi ai Femia di San Luca (RC), in origine gestori di una pizzeria in zona Boccea, base per lo spaccio di stupefacenti e dollari falsi (Tribunale di Roma 2013). Se ci si sposta in provincia, verso il litorale, la presenza di elementi di Cosa nostra è ancora più datata. Il boss Francesco Paolo Coppola, noto come «Frank tre dita», vi si trasferisce già dal 1952. Collegamento mafioso tra la Sicilia e gli Stati Uniti, da dove viene espulso nel 1948, anche Coppola si unisce alla malavita locale e prosegue in attività criminali (specialmente nel narcotraffico), nel reinvestimento in attività legali e nella penetrazione delle pubbliche amministrazioni. La traiettoria di Coppola è del tutto analoga a quella dei fratelli Vito e Vincenzo Triassi, referenti dei Cuntrera-Caruana di Agrigento e residenti a Ostia (Tribunale di Agrigento 1997), anch’essi per lungo periodo in affari con la criminalità autoctona nei traffici di droga e armi e nel comparto balneare e turistico. Sempre sul litorale si trovano esempi di insediamenti di ’ndrangheta oramai datati. I primi membri della famiglia Gallace di Guardavalle arrivano nel 1974, per sottrarsi alla faida apertasi con la famiglia rivale dei Randazzo. In principio fungono da base per l’individuazione degli obiettivi dei sequestri di persona e per il sostegno delle latitanze. Con il passaggio ai traffici internazionali di droga, la componente laziale assume maggiore importanza e autonomia, strutturandosi in un vero e proprio «Locale di Anzio e Nettuno»5, con numerose attività nell’economia legale (costruzioni, servizi e forniture per la pubblica amministrazione, sale giochi e bische) (Tribunale di Velletri 2013)6. Poco più a sud, lungo il litorale pontino, si insedia Domenico Tripodo, capo dell’omonima cosca di ’ndrangheta operante nel Reggino. Arriva a Fondi (LT) nel 1971 con il soggiorno obbligato ma, una volta raggiunto da parenti e sodali, rinvigorisce i propri investimenti nell’edilizia, nei servizi alla pubblica amministrazione e nel locale Mercato ortofrutticolo (Mof) (Tribunale di Roma 2009a). Mof che è anche oggetto di investimenti della camorra casertana, che nel basso Lazio trova – come vedremo – lo «spazio vitale» entro cui si realizza l’allargamento della propria area di influenza. Già sul finire degli anni settanta il clan Bardellino, antesignano della federazione dei clan casalesi, opera investimenti e apre vere e proprie «filiali» nel basso Lazio (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 1986). Specie sul litorale pontino «risultavano giudiziariamente accertati numerosi investimenti del clan» (Tribunale di Roma 2009b, p. 60) – prevalentemente terreni, appartamenti e locali notturni. Qui i Bardellino troveranno dimora quando, dal 1988, saranno costretti in esilio dopo la sconfitta nella prima faida interna ai casalesi7. Accanto ai Bardellino vi sono numerose presenze camorristiche di calibro. Basti ricordare che Raffaele Cutolo, capo della Nuova camorra organizzata8, trascorre parte della latitanza a Fiuggi, nel Frusinate, dal 1978 fino al suo arresto nel 1983, anch’egli con sodali e familiari a seguito. Proprio nel 1983 un’autobomba uccide a Roma il braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo, che pure aveva scelto la capitale per nascondersi. Anche costoro stringono rapporti con la criminalità locale9. In quegli anni opera a Roma Michele Senese, che nella faida campana appartiene al fronte opposto a Cutolo10. Originariamente emissario del clan Moccia di Afragola, Senese assume negli anni crescente autonomia dalla camorra, si unisce a malavitosi locali e costruisce «uno dei sodalizi più attivi nel traffico internazionale di stupefacenti» di Roma (Dna 2016, p. 916), con un territorio di riferimento – l’area del Tuscolano – dove mantiene «le condotte e i costumi tipici delle associazioni camorristiche» (Dna 2015, p. 685).
Quello esposto sinora è solo un compendio della densa e variegata casistica di presenze criminali di lunga data, trasferitesi nel Lazio a seguito della repressione giudiziaria, di sconfitte subite o di esili forzati. Ciò che si vuole sottolineare è che, nonostante i fattori di mobilità siano in prevalenza non intenzionali, in tutti i casi, persino quando si è destinatari di misure giudiziarie come la sorveglianza speciale con obbligo o con divieto di dimora, si registra una certa selezione strategica dei territori in cui spostarsi. I Gallace scelgono il litorale laziale perché altri membri della famiglia vi si sono già da tempo stabiliti11. Nel corso degli anni anche i fratelli del capoclan Vincenzo Gallace e suo figlio Cosimo Damiano trasferiscono le loro attività nel Lazio. Domenico Tripodo sceglie Fondi per i suoi legami con la Nuova famiglia (la compagine rivale alla Nco di Cutolo), che vede in prima linea i Bardellino, egemoni nel basso Lazio. Proprio con esponenti di camorra si registrano gli esempi più eclatanti di inefficacia dell’istituto della sorveglianza speciale. Il primo riguarda Domenico Pagnozzi, boss dell’omonima consorteria operante tra Avellino e Benevento, strettamente legata ai casalesi, che nel 2005 si trasferisce a Roma sottoposto a obbligo di soggiorno. Qui costituisce un gruppo criminale riunendo soggetti di origine campana e criminali romani e, con il sostegno del più potente Senese, scala velocemente le vette della scena capitolina (Tribunale di Roma 2015b)12. Un altro caso, meno recente, riguarda una fazione della camorra casertana: i Venosa. Quando nel 2001 il capofamiglia viene sottoposto a divieto di dimora, sceglie di trasferirsi a Cassino (FR), a pochi chilometri da Caserta, dove prosegue con le attività estorsive già in uso nel territorio di origine (Dna 2006).
Siamo di fronte a un effetto perverso delle misure di sorveglianza speciale: situazioni in cui al fine di sradicare gli indagati dai contesti di appartenenza si è data loro la possibilità di avviare le medesime attività in altri territori, ivi compreso il riverberarsi dei conflitti in corso nei luoghi di origine. Non a caso la mobilità mafiosa, connessa sì a fattori non intenzionali ma realizzata sulla base di st...